Il Modello in persona di Giulio Paolini da Tucci Russo, a Torre Pellice




 Giulio Paolini

Il modello in persona

2020

Courtesy l’artista, 

Tucci Russo Studio per l'Arte Contemporanea Torre Pellice e Torino, 

Fondazione Giulio e Anna Paolini Torino

Foto Archivio Fotografico Galleria Tucci Russo

 


 


Domenica 13 aprile si è inaugurata presso la Galleria Tucci Russo di Torre Pellice la mostra Vue d’ensemble: immaginari in dialogo, dove a varie opere della collezione della galleria, tra cui lavori di Zorio, Marisa e Mario Merz, Long, Anselmo e altri capolavori, si affianca una stanza monografica dedicata al lavoro di Giulio Paolini dal titolo Il Modello in Persona (2020).

Vue d’ensemble è un progetto espositivo articolato, che mira ad approfondire i vari artisti della galleria e il loro lavoro, destinando di volta in volta ad uno di loro una sala dedicata.

In questa occasione si è trattato di un’opera già esposta al Castello di Rivoli in occasione della mostra personale di Paolini un paio di anni fa, ora esposta nella sede della galleria Tucci Russo di Torre Pellice. L’opera è formata da due cavalletti posti l’uno davanti all’altro, ma in modo non perfettamente simmetrico. La linea su cui un cavalletto si pone in relazione con l’altro è però un’ideale linea geometrica, che allude a un rapporto prospettico, così che la visione appare immediatamente molto armonica e regolare dal punto di vista visivo.

Tra un cavalletto e l’altro c’è un supporto di plexiglas, su cui è posto un calco in gesso. Il calco rappresenta la scultura Narciso (originariamente bronzea) dello scultore ottocentesco Vincenzo Gemito. È dunque Narciso, precisamente il Narciso di Gemito, il “modello in persona” del titolo dell’opera.  Paolini attua però un cambiamento rispetto alla scultura originale: Narciso tiene, infatti, nella sua mano destra un mappamondo in scala.

Sul secondo cavalletto, dietro Narciso, è posta invece una fotografia di grandi dimensioni che ritrae lo studio dello stesso Paolini. Abbiamo, così, l’impressione che il calco del Narciso di Gemito si trovi lì, su quello sfondo scenografico, quasi ne facesse parte. Nella foto appare, però, anche un terzo cavalletto, che questa volta è invece posto simmetricamente di fronte al primo. Su questo terzo cavalletto è posta la riproduzione di una incisione di William Hogarth, Painting the comic muse (Dipingendo la musa della commedia) del 1758-64. L’incisione di Hogarth rappresenta lo stesso Hogarth, che si autoritrae nel momento della realizzazione del quadro dedicato alla musa, che però è ancora lungi dall’essere concluso. Ai piedi del cavalletto di Hogarth è appoggiato un libro, un’opera di estetica dello stesso pittore. È un trattato sulla bellezza del 1757, il cui titolo originale recita The line of beauty (ovviamente, la linea della bellezza).

Ma non finisce qui. Se accanto al cavalletto di Hogarth – nell’incisione - c’è un trattato di estetica, ai piedi quello fotografato nello studio di Paolini è invece posta una seconda incisione, più piccola, che rappresenta una sfera armillare. La sfera armillare era una specie di astrolabio inventato dai greci nel III secolo a.C., composto da alcuni cerchi concentrici, alcuni fissi (quelli che rappresentano le meridiane e l’orizzonte) e altri mobili (l’equatore, l’eclittica e altri). La sfera armillare era una specie di modellino usato dagli astronomi e fisici dell’antichità e della prima età moderna per rappresentare le sfere celesti e le loro orbite secondo il sistema tolemaico, o di Tico Brahe, cioè secondo una visione geocentrica del sistema solare. In seguito si continuarono a utilizzare le sfere armillari, ma con qualche modifica, adattandole al sistema eliocentrico.

Nella fotografia dello studio dell’artista sono presenti ancora molti altri oggetti e libri, alcuni non leggibili e facilmente identificabili. Molti di essi formano ideali linee geometriche con altri elementi presenti nell’opera complessiva. Per esempio è possibile tracciare una linea che parte dal mappamondo nella mano di Narciso e arriva da un lato all’incisione della sfera armillare e dall’altro ad un ventilatore posto su un mobile sullo sfondo, il quale ha una forma analoga, seppure diversa per scopo e funzione, rispetto al mappamondo e alla sfera. Tutto torna, ogni singola cosa è al suo posto preciso, è lì per ottenere il risultato voluto, e nel contempo si specchia in altro, quasi si trovasse in un ideale movimento di continui rovesciamenti e spostamenti di posizione.

Così, in quest’opera, almeno due luoghi e due tempi vengono a sovrapporsi, ma subito dopo è come se si scambiassero di posto. E questo accade continuamente. Uno è lo spazio-tempo della creazione dell’opera, nello studio dell’artista, nel quale siamo proiettati attraverso la fotografia; l’altro quello dell’esposizione, nella galleria nel museo, dove noi ci troviamo quando la osserviamo e ne fruiamo. C’è poi ancora (almeno) un terzo tempo: è quello del quadro di Hogarth, dove l’artista è colto nell’atto di dipingere. Questo terzo tempo si affonda in un passato ancora più lontano e da noi distante (per non parlare di quanto accade con la sfera armillare). Ciononostante, l’incisione mostra il pittore all’opera, come se fosse in un tempo presente. La sfasatura temporale e spaziale, fisica, crea così uno iato, un “tra”, o una serie di “tra”, in cui noi stessi ci troviamo ad essere impigliati, coinvolti. Le coordinate spazio-temporali consuete si perdono per un momento, per essere presto riconquistate da chi guarda, ma in una situazione di sospensione, di scarto temporale tra due o più momenti che nell’opera ci appaiono, però, in maniera simultanea. In questo “tra”, in questa sorta di margine spazio-temporale, tutto diventa in qualche modo possibile. Il modello è, sì, “in persona” eppure la sua presenza è sempre posposta o anticipata, sempre in un luogo e in un tempo, ma anche in un altro, nel prima e nel dopo, e questo accade allo stesso tempo.

L’opera ci proietta, così, in un tempo di attesa, un luogo e un tempo, anzi, ancora una volta, in cui avviene una sorta di apertura ontologica, dando luogo ad un ventaglio inatteso di possibilità. Tutto questo induce a una serie di riflessioni.

Nello studio l’artista non c’è. Se l’artista per la Abramovic è presente, come recitano i biglietti d’invito delle gallerie, qui siamo di fronte ad un’assenza. O meglio, siamo in presenza di un’assenza. Questa assenza è, però, molto eloquente.

Interpretando quest’opera mi sono divertita a fare qualche ricerca e vorrei sottolineare alcuni particolari interessanti.

La sfera armillare riprodotta nell’incisione ai piedi del cavalletto nella foto, fa da un lato da contraltare al trattato di estetica di Hogarth, perché è posta quasi nella stessa posizione. Ma, d’altro canto, la stessa sfera si rispecchia, come si è detto, con il mappamondo nelle mani di Narciso. Così come Narciso mette al centro del suo mondo sé stesso (con quel “mondo” nelle mani fa venire in mente il dittatore di Chaplin), la sfera armillare rappresenta una visione delle cose antica, ma fallace, che mette al centro la terra anziché il sole.

Se il Narciso del mito, qui “modello in persona” (che in persona non è, perché è statua, anzi calco di statua) mette al centro del suo mondo il suo piccolo Io inflazionato, esaltandolo oltre misura, l’artista lo proietta invece in una serie ordinata di sfasamenti e ribaltamenti della percezione di spazio e tempo, in cui il centro dell’azione si perde in una sorta di myse en abîme in movimento costante, sottoposta a continui rovesciamenti e cambi di posizione temporale. L’io di Narciso si perde in un gioco di specchi, si trova ridotto ad altro, o riportato, forse, a una dimensione più autentica, in cui la molteplicità di prospettive e temporalità ne sottolinea la finitezza, ma anche, paradossalmente le innumerevoli possibilità esistenziali rimaste inespresse ( forse quelle che il suo “narcisismo” ahimé gli preclude).

Ma il trattato di Hogarth che cosa c’entra con tutto questo? Che cosa dice? Possibile che Paolini abbia scelto quell’opera a caso? Per provare a capire, facciamo un passo indietro.

Hogarth nel dipinto sta realizzando un doppio ritratto. Dipinge sé stesso – atto narcisistico, in effetti – mentre ritrae la musa della commedia. C’è dunque un intento ironico, perché la musa è comic, non tragic. Ora, dello stesso soggetto Hogarth realizzò due versioni: un dipinto ad olio e questa incisione.

Sono andata a vedere e nel quadro a olio il particolare del trattato è omesso. Il quadro, infatti, è antecedente l’incisione e anche la pubblicazione del trattato. È del 1757, anno in cui il trattato fu pubblicato, mentre l’incisione risale al 1758-64. Quindi il particolare del trattato è stato aggiunto in un secondo momento. Questo significa che non è un dettaglio casuale, ma ha un senso.

E che dice questo trattato? In quel testo Hogarth parla della bellezza e fornisce alcune indicazioni agli artisti e ai filosofi che, a seconda, vogliono ritrarla o pensarla. In particolare la “Line of beauty” del titolo, per Hogarth è proprio una linea, non un’idea regolativa o un concetto. In particolare, è una linea ad S. Secondo Hogarth nelle opere d’arte era raccomandabile usare come riferimento compositivo una linea ad S, che con il suo movimento sinuoso da un lato attira l’attenzione dello spettatore e rende la fruizione più accattivante, ritmandola, e dall’altro inserisce un elemento temporale nella rappresentazione, perché letteralmente sposta lo sguardo da un punto all’altro, secondo una, anzi due curve. Di nuovo, c’è un prima e un poi, un prima di là e poi di qua, che scandiscono la composizione.

Ma c’è ancora un’altra piccola amplificazione (uso il termine in senso junghiano) possibile degli elementi presenti nell’opera - anche se forse mi sono lasciata prendere la mano…

Ho letto che Vincenzo Gemito, autore originale del Narciso qui riprodotto in calco, appena nato fu affidato alla Ruota degli esposti, e quindi abbandonato dai suoi genitori biologici e consegnato, nel segreto, a una struttura che accoglieva gli orfani. Queste ruote funzionavano letteralmente con un movimento rotatorio: il pargolo in fasce veniva appoggiato su una ruota di legno attraverso una specie di sportello, che garantiva l’anonimato del genitore. Poi, dall’altra parte qualche anima caritatevole faceva girare la ruota e il bambino, si ritrovava dalle braccia del genitore biologico a quelle presumibilmente di una suora che se ne sarebbe presa cura. Ancora una volta siamo di fronte a qualcosa (qualcuno) che doveva essere da una parte e si ritrova da un’altra, attraverso un movimento rotatorio, di proiezione o spostamento. C’è un qui che diventa là, e viceversa. L’identità dell’artista Gemito (tra l’altro, un nome che è un programma!), che ancora non sapeva di essere tale, lungi dal considerarsi al centro di un complesso sistema di sfere, come secondo il modello tolemaico del cosmo di Tico Brahe, fu dunque affidata a una rotazione di tutt’altro tipo, che lo esponeva al caso, cambiandone per sempre il destino in maniera imprevedibile.

Anche qui, di nuovo, il tempo e il luogo originari sono mutati, scambiati con altri, e il destino non è più lo stesso. La propria identità, a cui Narciso nel mito è tanto caparbiamente affezionato, perde la nettezza dei propri confini, si affida ad altro, si capovolge e ruota, anche se non più intorno a sé stessa, bensì ad altre, sconosciute stelle. E così si perde, per riconquistarsi poi diversa, mutata nella sua essenza, ritrovandosi in un luogo e tempo inatteso. Tornando all’opera, la statua di Narciso, il modello, è certo esposta in galleria, ma è anche proiettata nello studio dell’artista, da dove presumibilmente, temporalmente, proviene.

E così nuovi spazi e tempi si aprono, ci portano con loro, ci fanno pensare. Producendo forse anche in noi che guardiamo, e non solo in Narciso, un nuovo, sorprendente, senso di identità.