#3 – La speranza. Da Goethe a Bloch, fino ai giorni nostri

 





Solo per chi è senza speranza è data la speranza

(Walter Benjamin)

 

È la fortuna di vivere adesso, in questo tempo sbandato

È la notte che corre, il futuro che viene, a darci fiato

(Ivano Fossati)

 

1.     Be afraid of the enormity of the possible

Se ci rendessimo conto dell’enormità del possibile rimarremmo forse immobilizzati. Oppure è il contrario? Magari, se potessimo immaginare che davvero tutto è possibile potremmo credere finalmente nella possibilità reale di un futuro migliore?

C’è un’opera di Alfredo Jaar[1], una scritta al neon, di diversi colori che recita: Be afraid of the enormity of the possibile.

Abbi paura dell’enormità del possibile. Enormità, dice. Il vocabolario online della Treccani mette come definizione: essere enorme, smisurato, eccessivo. Possiamo mettere in conto, tra le cose possibili, l’eccessivo, addirittura.

Il pensiero espresso in questo lavoro di Jaar metteva i brividi già nel 2015, quando fu realizzato. Già in quel momento, leggendo quelle parole, ci si sentiva subito trascinati nello stesso tempo in due direzioni diverse: il timore, da un lato. E dall’altro la speranza.

Dice be afraid, l’opera, abbi paura. Ma perché paura?

Il campo del possibile davvero è sconfinato, questo è un semplice dato di fatto. Per quanto proviamo a spingerci con l’immaginazione, l’ambito delle potenzialità non potrà mai essere completamente abbracciato con il nostro pensiero, ma si allarga sempre più.

Ad esempio, chi qualche mese fa, avrebbe potuto immaginare qualcosa come il lockdown o il distanziamento sociale, e le migliaia di vittime procurate dal Covid-19? Pensavamo che l’Occidente fosse immune, fosse troppo civilizzato, troppo avanti per una pandemia. E invece…

L’enormità del possibile. A pensarci, fa paura, Jaar ha ragione. Ma a pensarci davvero, senza pregiudizi di tipo pessimista o ottimista, più che paura, mette timore. Un po’ come il timor di Dio, di cui si parlava una volta.

Il timore, però, non è la paura. Il timore ha a che fare piuttosto con un sentimento profondo di rispetto, e con la presa di coscienza della propria piccolezza e finitezza di fronte a ciò che ci sovrasta: qualcosa come il divino, l’infinito spazio, cose così.

Se l’ambito di ciò che è possibile è enorme, infinito, io ho la consapevolezza, come essere umano, di non essere così. Come essere umano, io ho dei limiti molto precisi, dalla fragilità della mia condizione fisica e mortale, che mi rende esposta naturalmente a virus, batteri, intemperie e quant’atro. I miei limiti concreti sono dati anche dal tempo della mia vita che infinito non è, come dalle condizioni economiche, sociali, culturali, logistiche in cui mi sono venuta a trovare nascendo in un posto anziché in un altro.

Nonostante la mia finitezza e mortalità, l’ambito delle possibilità che mi possono riguardare nel tempo della mia vita è pur sempre sconfinato. Perciò il possibile incute timore. Ha qualcosa di per me insondabile. Ed è molto più grande di me.

Ma che cosa contiene questo insondabile? Che cosa possiamo immaginare per il futuro? Quali possibilità intendiamo realizzare? Qui entrano in gioco i due termini antitetici della paura e della speranza.

Sì, perché del possibile, nella sua enormità, io posso considerare diversi aspetti, è una mia scelta. Posso temere il peggio. Ma posso anche sognare il meglio, un mondo migliore.

Abbiamo visto allora che nel possibile ci sono cose che suscitano paura e altre che fanno nascere la speranza.

In questo luogo, scegliamo di soffermarci sulla speranza.

 

2.     Goethe. Il daimon ed Elpis

Il testo di Hadot che abbiamo tenuto come filo conduttore di questo nostro excursus in tre puntate, ritrova il tema della speranza in Goethe, in particolare nelle sue Urworte (in italiano Parole Primordiali. Orfiche, del 1818).

In queste pagine Goethe si rifà al sapere antico: parla del destino, inteso nel senso del Daimon, come sarebbe piaciuto a James Hillman, e di altre figure mitiche. Per il sapere greco antico, il Daimon è il destino che ci accompagna fin dalla nascita, una presenza che ci conduce e indica il cammino. Possiamo immaginarlo come una personificazione del nostro talento oppure qualcosa di simile all’angelo custode. Socrate, come si sa, aveva il daimon, il famoso demone socratico. Come spesso accade nel modo di esprimersi degli antichi greci, più che un essere, il daimon è una personificazione di qualcosa come un istinto, un destino, appunto.

Ma il daimon da solo non basta a dettare il destino di un individuo, ci sono altre personificazioni che entrano in gioco. Al daimon si accompagnano altre figure: sono la Tyche (le circostanze); Ananke (la necessità); Eros (il desiderio). E infine c’è Elpis, la speranza.

La speranza è qualcosa che Goethe aggiunge deliberatamente, modificando l’antica configurazione a cui si ispira nel resto del testo.

Goethe giudica la speranza qualcosa di essenziale, che non può essere omesso. Non può darsi vita e destino senza la speranza. Goethe, così facendo, porta una sua personale correzione al sapere antico. La speranza è da lui giudicata un punto importante. Un punto un po’ strano, perché indefinito per natura, certo, ma comunque qualcosa di cui non si può fare a meno.

Perché cos’è la speranza? La speranza è qualcosa che ci fa protendere in avanti, verso il futuro, senza dirci esattamente quale sia il cammino che dovremo percorrere. È animata da uno spirito di fiducia, da qualcosa di intuitivo.

Hadot non approfondisce oltre il tema, passa al destino, racconta di Nietzsche e il suo amor fati visto come sì alla vita, che si ispirava proprio al pensiero di Goethe.

Noi ci soffermiamo invece sul passaggio che riguarda la speranza, e che mai come oggi appare cruciale. Ci ispireremo qui a diverse opere d’arte antica e contemporanea e al pensiero di Ernst Bloch. Il quale, tra l’altro, era un appassionato lettore di Goethe e lo cita nelle sue riflessioni sulla speranza a più riprese[2].

Per Goethe la speranza ha a che fare con la poesia, la capacità creativa e inventiva del poeta. Un colpo d’ali, e dietro di noi gli eoni… scrive Goethe, pensando alla poesia e raffigurandola per mezzo dell’immagine mitologica di Pegaso, lo splendido cavallo alato.

Ma per noi oggi, anche per chi non è poeta, perché è così importante la speranza?

 

3.     Cominciare, ora

C’è una frase di Goethe che gira molto per i social, perché è molto suggestiva. Diversamente da quanto spesso accade, è anche una frase autentica.

Dice: «qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L'audacia reca in sé genialità, magia e forza. Comincia ora.»

Comincia ora. Non domani, o il mese prossimo. Ora. Con una cosa piccola magari, solo un piccolo gesto. Un piccolo passo, ogni giorno. Il cominciare, il partire con un nuovo progetto, già fa scaturire energie nuove. È una cosa che sperimentiamo tutti.

Ma Goethe parla anche di audacia[3]. Ma c’è audacia senza la speranza? No, non può esserci. Non si può essere audaci se non si crede che qualcosa, se ci impegniamo e ci diamo da fare, andrà a buon fine. Se non immaginiamo il domani, sarà difficile che riusciamo a proiettarci in esso e tantomeno a costruirlo.

Questo per noi, oggi, è un bel problema. Sì, perché il mondo in cui viviamo, il periodo in cui viviamo, è particolarmente privo di speranza. Molte persone sono disperate perché hanno perso il lavoro, sono sole, o semplicemente non vedono un futuro. La mancanza di speranza è esattamente questo: non riuscire a vedere un futuro, non crederci.

Allora tutto decade, resta non il timore, ma la paura. Be afraid. Non c’è altra via.

La speranza cambia invece i termini del discorso e lo fa radicalmente.

La Chiesa Cattolica considera la speranza una virtù. Non un sentimento o un concetto, bensì una virtù. È importante, vuol dire che non si nasce con la speranza, non la si ha da sé, come qualcosa di acquisito, ma occorre lavorarci su, quantomeno accoglierla e coltivarla.

E allora? Allora dobbiamo imparare a sperare.

 

4.     Imparare a sperare

Qual è il valore della speranza nella nostra attuale situazione? Sperare sembra qualcosa di poco concreto. Un gesto inutile, che non porta frutto. Ma è proprio così? Ci furono persino dei filosofi che ebbero la speranza in antipatia, per dire così, dagli stoici fino a Spinoza, solo per citarne alcuni. Karl Löwith, ad esempio, negava alla speranza addirittura dignità filosofica.

Una vola avevo un amico, studioso di Löwith che mi diceva proprio questo: «Il tuo problema è la speranza!». Avrà avuto ragione? Mah! Io, da credente, la consideravo una virtù…

Perciò, dipende. Se con il termine speranza intendiamo uno stare fermi senza pensare o fare nulla, aspettando che qualcosa accada mentre noi perseveriamo nei comportamenti che abbiamo sempre avuto, quali che siano, in effetti è almeno difficile che qualcosa arrivi davvero, chissà come, a modificare il nostro status quo quale che sia. Già solo per il principio logico che comportandoci sempre nello stesso modo, otterremo sempre gli stessi risultati, è chiaro che per pensare la speranza in modo produttivo e utile, non possiamo fermarci a questo modo di vedere le cose.

Nella prima metà del Novecento, in una Europa devastata da guerre e ideologie scellerate, ci fu un filosofo che ragionò sul tema della speranza. Anzi, che pose la speranza al centro della propria ricerca e speculazione.

Si chiamava Ernst Bloch e qui ci interessa, perché per dal suo punto di vista la speranza era qualcosa di concreto, di vero, che valeva la pena di mettere al centro del proprio pensiero. Ma a una condizione. Quale? A patto che la speranza desti quella che lui chiama la funzione utopica, cioè che sia foriera di un’azione, la messa in atto di una strategia o comportamento volti a procurare quel bene in cui speriamo. E più quel bene è alto, di valore, ed è condiviso, e meglio è. Altro che starsene lì a girarsi i pollici, insomma.

Ma vediamo meglio come stanno le cose.

 

5.     Utopia concreta?

Bloch pone la speranza come termine concreto del suo discorso filosofico. La sua è un’utopia concreta, nel senso che non si muove nell’ambito della mera fantasticheria, ma ambisce a diventare realtà. Una realtà feconda e gravida di futuro. Bloch va dovunque a cercare ciò che c’è di non ancora espresso, di nascente, aurorale.

E c’è di più. Per Bloch la speranza è un atto orientativo di specie cognitiva. Che cosa vuol dire? Vediamo: è un atto, dunque un agire, un operare. Un atto che è orientativo, che orienta, che ha e dona una direzione. Ed è di specie cognitiva, nel senso che ha a che fare con la conoscenza.

Da questo punto di vista, la speranza è l’alternativa concreta all’angoscia.

Il termine angoscia ha la stessa radice di “angustia” “angusto”. L’angoscia ha a che fare con uno spazio angusto, in cui manca il respiro. Quando ci sentiamo angosciati ci sentiamo chiusi, stretti, prigionieri, non vediamo vie d’uscita.

La speranza è all’opposto: è spazio, implica libertà e movimento. Si protende verso il futuro, anche se non lo conosce. Si fida. E inizia a camminare, a costruire.

Dove? Che cosa? Beh, potrebbe anche non saperlo, perché questa apertura è sempre su un novum, un qualcosa di inedito, che non conosciamo.

Sperare è dunque prepararsi all’avvento di una novità che non conosciamo. Bloch, in questo senso, parla di ontologia del non-ancora.

A lui interessa ciò che non è ancora, ciò che nel passato magari era già presente come una promessa, ma che ancora non si è realizzato, e per qualche ragione non ha visto la luce. Ciò che è rimasto latente, non sviluppato. Come un seme che è rimasto lì, sempre in ombra, e che deve ancora svilupparsi nel futuro.

Capiamo allora che la speranza non è quindi uno spostare il focus sempre domani, un rimandare per non fare. Al contrario, essa ha a che fare con un lavoro che si compie quotidianamente. È un compito.

E c’è dell’altro. Per questo suo fondarsi nel passato e protendersi verso il futuro, la speranza è sempre caratterizzata da un sentimento di eternità nell’attimo. Non carpe diem, diremmo, ma carpe aeternitate in momento: non cogli l’attimo, ma cogli l’eternità nell’attimo.

Si vede perciò che la prospettiva, in questo modo, cambia radicalmente rispetto alla visione passiva della speranza che abbiamo visto prima. La speranza, quella vera, ci porta a cercare ciò che nell’attimo c’è di eterno, e a trovarlo.

È il momento buono per iniziare, muoversi. Il kairos, il momento opportuno, che abbiamo visto con Aristotele e in altri luoghi di questo nostro excursus, e soprattutto è il “comincia ora” di cui diceva Goethe.

 

6.     Il piede e le ali

Ne Lo spirito dell’utopia (1918), Bloch scrive:

«intraprendendo la costruttiva via della fantasia, invocando ciò che non c'è ancora, cercando e costruendo nell'azzurro il vero, il reale, là dove il puro dato di fatto scompare - incipit vita nova».

Ci sono due rappresentazioni della Speranza su cui vorrei fermarmi. La prima è la rappresentazione della speranza di Andrea Pisano, per la porta del Battistero di Firenze (1329).

Ne Il principio Speranza, Bloch commenta la speranza di Andrea Pisano. Il filosofo nota come essa sia rappresentata come una donna alata. La vediamo nell’atto di alzarsi, mentre tende le braccia e le mani verso un oggetto. Ha le ali, ma non vola, non ancora. È tutta lì, nell’atto del protendersi verso qualcosa.

Ricordate quello che avevamo detto sul Laocoonte? Sul “prima” dell’azione rappresentato nell’opera? È qui, in quel “prima” che si colloca la speranza. È il non-ancora di cui parla Bloch.

C’è un’altra rappresentazione classica della speranza che vorrei proporre. Si tratta dell’opera del Pollaiolo (1470), conservata sempre a Firenze, agli Uffizi.

Qui la Speranza è intenta a pregare, le mani giunte. Ma ha un particolare diverso da tutte le altre virtù che Pollaiolo rappresenta. Il suo piede è un po’ fuori del piedistallo. Sembra che anche lei si stia alzando. Non le piace star ferma, sta per muoversi. È spinta verso qualcosa.

La speranza ci fa alzare da dove siamo, intraprendendo la costruttiva via della fantasia, invocando ciò che non c'è ancora ci fa muovere.

Diceva Goethe: comincia ora.

 

7.     Science of goal setting

Ora facciamo una digressione, rispetto a Bloch (ma non rispetto al nostro argomento).

Gli americani hanno la qualità di saper ridurre praticamente tutte le teorie che noi europei enunciamo in modo molto rigidamente accademico a qualcosa di pratico, che si può agevolmente applicare alla vita di ogni giorno. È vero che nel passaggio dei dettagli si perdono, ma è anche vero che questo adattamento, questa semplificazione, rende le cose più vive, a volte. Le rende vivibili, soprattutto, nel senso che le possiamo mettere in pratica.

Connessa (anche se non esplicitamente) al tema della speranza, in particolare, c’è una vera e propria scienza. Si chiama science of goal setting, letteralmente: scienza del porsi obiettivi (e, evidentemente, raggiungerli)

Ok sperare, insomma, ok l’utopia concreta. Ma a patto di saper realizzare ciò che speriamo. O almeno provarci. Ma come? La science of goal setting prova a dare una risposta pratica e concreta a questo interrogativo.

Se ne può leggere in diverse fonti sul web[4].

Meglio chiarire subito che in queste teorie ci sono alcuni punti non proprio chiari. Spesso la scienza del goal setting non è orientata a scopi utopistici, ma a obiettivi anche troppo concreti, come l’incremento delle vendite di un’azienda o cose del genere. Niente di più lontano da Goethe e da Bloch! Vero è, però, che la speranza può aver legittimamente a che fare con la realizzazione personale, e i propri sogni non è detto che siano per forza egoistici e non utili alla comunità.

Perciò vorrei proporre di dare alla science of goal setting, qui, una lettura più profonda. Proviamo?

Ok. Proviamo a immaginarci come vorremmo essere tra un anno, cinque anni e dieci anni. Se io tra dieci anni voglio essere lì, tra cinque devo essere in un punto e tra un anno devo aver ottenuto questo e questo… In modo molto onesto con noi stessi, pensiamo a che cosa dovremmo fare per ottenere quei risultati.

Abbiamo tutte le skills utili per ottenerli? Abbiamo bisogno di imparare qualche cosa nuova, una lingua, una competenza?

Abbiamo i fondi per realizzare il nostro progetto, o dobbiamo cercare finanziamenti, oppure risparmiare?

Consideriamo bene tutto, per farci un’idea.

Spezziamo poi i nostri obiettivi in piccole tranches, più piccole e vicine a noi e cominciamo subito ad agire nella direzione delle nostre speranze.

Ad esempio, se il mio sogno è trasferirmi in Giappone, dovrò imparare il giapponese. Quello che devo fare, allora, è cercare subito una scuola di lingue orientali e mettermi a studiare. Se voglio scrivere un libro, devo cominciare a scrivere.

Infine, dovrò un modo per calcolare i risultati dei miei sforzi. Devo poter controllare, insomma, nel tempo, come vanno le cose. Questo mi serve effettivamente per considerare se sto percorrendo la strada giusta oppure no.

L’idea, in sé, è questa e in parte è innegabile che funzioni. Occorre però fare attenzione ad alcuni elementi non proprio trascurabili.

In primo luogo, questo modo di pensare va bene solo se non è fondato sulla performance. Il rischio di fondare i nostri progetti di vita su una performance è produrre ansia.

Aggiungiamo poi che il progetto ha un senso perché consente di programmare le cose, anche con molto tempo di anticipo. Ma possiamo davvero programmare così la nostra vita? Non arriveranno elementi inattesi a scombinarci i piani? Alfredo Jaar starà sicuramente ridacchiando da sotto i baffi, se ci legge (e se ha i baffi…).

Bisogna stare attenti, quindi, perché il goal setting non si trasformi in una fonte di ansia e frustrazione, se non addirittura non ci sia d’impiccio per realizzarci come vogliamo.

Nell’ambito del lavoro e nel business va molto bene ragionare secondo il metodo che ho scritto sopra, ma dal punto di vista esistenziale le cose potrebbero non stare proprio così.

Teniamo presente che anche sul lavoro, poi, una dote importante è la flessibilità.

Va benissimo, perciò, organizzarsi: ma a patto di tenere sempre ben presente che i nostri progetti esistono per poter essere eventualmente modificati, a seconda dei fattori variabili che possono intervenire, interni o esterni. Questo concerne anche il tema della misurabilità dei risultati.

La misurabilità degli obiettivi non si gioca infatti solo su un calcolo o un numero, ma riguarda anche temi diversi e più profondi, come la comunità a cui apparteniamo, la soddisfazione fisica e morale nostra delle persone coinvolte, il loro e nostro benessere ecc.

Diremmo perciò che la scienza del goal setting funziona in un certo ambito, ma a patto di tenere presente sempre un ampio spettro di possibilità e situazioni possibili. Di restare flessibili, con la mente aperta. E di essere pronti a cambiare i nostri piani, se necessario.

Perché la speranza è speranza di realizzare i nostri progetti esistenziali e lavorativi, non c’è dubbio. Ma si colloca anche su un piano diverso e ben più profondo. Proviamo a capire meglio.

 

8.     Imparare a volare

Ci sono alcune opere d’arte che ci possono aiutare a farci un’idea.

La speranza come qualcosa da imparare mi fa venire in mente un lavoro video di Gino De Dominicis del 1969. S’intitola Tentativo di volo ed è conservato nella videoteca della Gam di Torino .

Il video mostra l’artista nell’atto di saltare ripetutamente, agitando le braccia come per volare. Ovviamente, l’artista non si alza in volo. Però torna indietro, e prova un’altra volta, e poi ancora e ancora, senza arrendersi.

Queste le parole dell’artista per raccontare lo spirito del lavoro:

«Forse perché non sono mai riuscito a nuotare ho deciso di imparare a volare. Da tre anni infatti ripeto questo esercizio tutti i giorni. Probabilmente non riuscirò mai a volare, ma se farò ripetere questo esercizio anche ai miei figli ed ai figli dei miei figli e loro ai propri figli forse un giorno un mio discendente improvvisamente si troverà a saper volare.»

I nipoti di De Dominicis, se ne ha avuti, oggi, hanno le ali? Chiaramente, no. Ma forse hanno ereditato dall’artista un altro tipo di ali: quelle del sogno. Un tipo di ali, come abbiamo visto, si costruisce con un lavoro paziente, e che non si arrende.

Che cosa potrebbe spingere qualcuno a compiere con convinzione un’impresa che appare impossibile? Che cosa potrebbe far sì che non si arrenda? Che cosa, se non la speranza?

 

9.     L’albero dei desideri

Ci sono poi altre due opere che vorrei suggerire come stimolo per imparare la speranza.

Sono entrambe di Yoko Ono. La prima è del 1993, ma è stata realizzata in diverse occasioni, diverse volte. S’intitola Wish Tree, l’albero dei desideri.

Per realizzare quest’opera, Yoko Ono chiedeva la partecipazione del pubblico, che era chiamato a scrivere su piccoli foglietti di carta i propri più intimi desideri. I foglietti venivano poi arrotolati e legati con dei piccoli nastri ai rami di un albero.

La pianta che cresce richiede impegno, dedizione, amore e anche, soprattutto, pazienza.

Per dire che i nostri desideri sono come frutti di un albero che cresce. Dobbiamo aspettare di vederli spuntare e coglierli soltanto al momento opportuno.

Più sono profondi i desideri di cui stiamo parlando, e più questo è vero.

Poi c’è un’altra opera, sempre di Yoko Ono…

 

10.   Yes

Questa volta è un’opera degli anni Sessanta e si intitola Yes.

Si dice che John Lennon si sia innamorato di Yoko proprio guardando quest’opera e io credo sia vero. Il lavoro consiste in una scala posta al centro della sala espositiva. Si sale la scala e in cima si trova una botola. Si apre la botola e si trova una scritta minuscola, così piccola che non si può leggere. Ma c’è anche una lente, per leggerla.

Con la lente vediamo che la scritta dice una parola piccola e semplicissima: Yes, sì.

La speranza, questa cosa che allarga il cuore, è quel qualcosa che ci fa dire di sì. Ok, proviamoci, partiamo. Andiamo, proviamo a cominciare. Senza questo sì, non succede nulla.

Nell’opera di Yoko Ono, il sì viene alla fine del percorso. Sali la scala, prendi la lente… eri afraid dalla enormity of the possibile, non sapevi se la tua impresa sarebbe andata a buon fine. Ma invece alla fine va tutto bene e la risposta è: sì. È tanto semplice.

Non è meraviglioso?

Ma ora procediamo con la filosofia.

 

11.  La speranza come compito

Queste le parole di Bloch:

«L'importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all'aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L'affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all'esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono. [5]»

Proprio all’inizio della prefazione a Il principio Speranza, Bloch nota come una volta usasse far imparare ai giovani la paura. Non che si imparasse ad avere paura, nel senso di diventare pusillanime, il contrario. Diciamo che si imparava il coraggio, attraverso la paura. Magari con una prova, un’iniziazione al mondo degli adulti, una sfida. Qualcosa che insegnava a provare paura, e, paradossalmente, a non temerla.

Anche la speranza, per Bloch, dovrebbe essere imparata. Non la conosciamo, non ce l’abbiamo di default. Si impara. Come?

Leggiamo con attenzione:

 

ü «L'importante è imparare a sperare»

Lo abbiamo già detto, la speranza è una virtù che si impara. E come si imparano le virtù? Si imparano con la pratica, l’esercizio (practice, in inglese). E con l’abitudine.

Ma come si fa ad abituarsi a sperare? A imparare a fidarsi del futuro, del non-ancora presente? La speranza sembra essere piuttosto qualcosa che sorge spontaneamente, da dentro. Eppure Bloch qui è chiaro: dice che è qualcosa che va imparata, che non possiamo avere se non la impariamo.

Questa è una buona notizia, perché vuol dire che possiamo non rimanere disperati, possiamo provare a gettare lo sguardo, o magari il cuore, oltre l’ostacolo, qualsiasi sia l’ostacolo nelle nostre vite.

San Paolo, Paolo di Tarso, parlava di spes contra spem: speranza contro ogni sperare. Lui parlava di teologia, ma è vero per tutti che la speranza a volte va esercitata in situazioni disperate, che appaiono impossibili.

Bloch, però, è chiaro, dice che imparare la speranza è importante. Non dice che è importante sperare – anche se è ovvio che lo sia! – dice che è importante imparare a sperare. Per cui non disperiamo, anche se non abbiamo speranza, possiamo imparare. Come?

 

ü «Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire.»

Chiariamoci subito. Sperare non è rinunciare ad agire aspettando chissà cosa, un deus ex machina che intervenga a risolverci le cose, lo abbiamo detto.

C’è una barzelletta. Racconta di un uomo molto pigro che deve cambiare una lampadina. Rimanda sempre, ma a un bel momento, dato che ne ha proprio bisogno, decide di farlo e si fa aiutare da un amico, che lo prende sulle spalle per aiutarlo a raggiungere il lampadario. Il tizio quindi sale sulle spalle dell’amico. Passa qualche istante e non succede niente. L’amico comincia a stancarsi, così gli dice: «Ma come? Non avete ancora finito?» (sì, questi personaggi si danno del voi… un po’ come i personaggi di Paperopoli, non so perché, ma la barzelletta è così). L’altro guarda giù all’amico ed esclama: «E se voi non girate!»

Il tizio, insomma, stava fermo e aspettava che fosse l’amico, con lui sulle spalle, a girare in tondo, in modo da avvitare la lampadina senza fare nessuna fatica. Insomma, non voleva muoversi e darsi da fare, se non proprio l’indispensabile. Voleva che fossero gli altri, a darsi da fare, però.

Ecco, la speranza non è così. Ricordate De Dominicis? La speranza si dà da fare, e molto. Non rinuncia, neppure quando le cose vanno male. Perché vuole aver successo, non fallire, e neanche lasciare le cose a metà.

 

ü «Lo sperare, superiore all'aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla.»

Attenzione. A una prima lettura qui sembra che chi spera, per Bloch, non abbia paura. Ma se leggiamo con più attenzione, vediamo che non è così. Bloch non dice che chi spera non ha paura, dice solo (solo!) che la speranza è superiore all’aver paura.

Vuol dire che chi spera trova proprio nel suo sperare la forza per superare la paura.

Non c’è niente di passivo, in questo sperare.

L’attesa della speranza non è bloccata nel nulla, ma è il contrario: è vitale, si nuove verso il suo obiettivo, e dal suo sperare si carica di energia.

Un’energia contagiosa, che si allarga anche a coloro che sono vicini a chi spera. Questo perché…

 

ü «L'affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo (…)»

La speranza ha un effetto espansivo. Non solo nel senso che porta ad essere espansivi, aperti agli altri. È proprio l’affetto dello sperare in sé ad essere qualcosa che allarga il cuore delle persone.

Allarga. Ci sono due parole che mi piacciono molto: magnanimo e longanime. Vogliono dire, rispettivamente, per l’etimologia, essere di animo grande e essere di animo lungo. Bello avere l’anima grande, spaziosa, che permetta di far entrare tante cose, tanti progetti, tanta speranza. E bello anche avere l’anima lunga, saper guardare lontano, oltre le apparenze, oltre l’immediata soddisfazione o insoddisfazione delle cose che facciamo. Questo fa la speranza: allarga e allunga l’anima delle persone.

Questo già sarebbe meraviglioso. Ma non è tutto.

La speranza, dice Bloch, non si sazia mai di sapere che cosa fa tendere le persone ad uno scopo. C’è, insomma, qualcosa dentro di noi che non si sazia mai, che vuole tendere a uno scopo più grande. Più grande qui non va inteso come più costoso, ovvio: un vestito firmato o una macchina più figa, no. Qui la grandezza è quella dell’anima che si allarga.

In un paragrafo de Il principio Speranza, Bloch riflette sul principio di piacere secondo Freud, che fa il paio con il principio di morte. Bloch giudica qui Freud molto “piccolo borghese”, perché vede come primo impulso primigenio e indomabile nell’essere umano l’istinto sessuale, dimenticandosi di un altro istinto molto più primitivo e urgente. Quale? La fame.

Freud non considerava la fame un problema, un vero stimolo, perché si rivolgeva a, e faceva parte lui stesso di un mondo piccolo borghese, in cui gli impulsi da soddisfare, reprimere o gestire, erano per lo più desideri o capricci di tipo sessuale. A quelli che hanno fame, perché non hanno da mangiare, Freud non pensa. Forse anche perché difficilmente avrebbero avuto di che pagargli le parcelle per le sedute di psicoanalisi…

In ogni caso ciò che dice Bloch è difficile da contraddire. Il primo impulso indomabile, veramente inaggirabile, nell’essere vivente, è la fame. La necessità di nutrirsi e sopravvivere.

Ma la fame però diventa in fretta anche immagine di qualcosa di più. Avere fame: è una metafora che usano spesso i calciatori che vincono (o perdono. «Gli avversari avevano più fame di noi» dicono allora…).

E come dimenticare il mitico stay hungry, stay foolish di Steve Jobs? La frase di Steve Jobs è la quintessenza della speranza.

È importante avere fame, sempre. E la speranza non si sazia mai, dice Bloch. Anzi, è proprio la speranza quella cosa che non ci fa mai essere sazi, che ci fa sempre tendere verso uno scopo più alto.

 

ü  « … e che cosa all'esterno può essere loro alleato.»

Ma c’è di più… Per sperare, per sperare davvero, dice Bloch, non si può essere degli individualisti. Certo, capita magari di essere soli, e anche allora non bisogna arrendersi. Ma la speranza di per sé, se è autentica, non può riguardare obiettivi individualistici. Chi spera, cerca alleati, ne ha bisogno, perché deve andare lontano. Ha bisogno di una comunità, di incontrare persone affini. Di trovare situazioni, cose, persone, che sono in armonia con i propri progetti, che li condividono. La speranza ha a che fare con il trovare alleati, con l’essere alleati di qualcuno.

 

ü «Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando…»

Finalmente qui Bloch ci dice come facciamo a imparare la speranza.

Siccome la speranza non è passiva, il lavoro della speranza ha a che fare con il gettarsi attivamente nel progetto, nella novità che sentiamo arrivare. Questo comporta un certo rischio, ma è un bel rischio. C’è rischio, perché la speranza non sa mai esattamente che cosa arriverà. Progetta e lavora, ma poi si fida, è flessibile, aspetta di vedere che cosa arriva di nuovo e accoglie. Accoglie che cosa? Accoglie il nuovo. È una coscienza aurorale ed entusiasta.

È interessante che la speranza qui sia vista quasi come una persona, una persona che trascina verso il nuovo, che rende pieni di speranza, che è essa stessa Speranza[6]. 

 

ü «… e cui essi stessi appartengono.»

Ma che cos’è questo nuovo? Qui c’è un punto molto interessante del pensiero di Bloch.

Il nuovo è qualcosa che chi spera non conosce.

Sa solo che è nuovo, inedito, che non è mai stato prima. Ne intuisce la bellezza e si colma di entusiasmo.

E come se non bastasse, cosa davvero strana, sente di appartenere a questo nuovo, che pure non conosce.

Ma non c’è da stupirsi: è proprio perché si appartiene a questo nuovo che arriva, alla nuova epoca alle porte, che si è capaci di sperare. Perché si sente un richiamo, una promessa, un appartenere. Un essere chiamati.

Qualcosa risuona dentro il cuore, nell’anima che la speranza stessa ha reso più capiente. Capiente: nel senso che comprende più cose perché è diventato più ampia, ma forse anche perché capisce più e meglio ogni cosa.,,

 

12.   Sperare contro ogni speranza

Nel 2018 Alfredo Jaar ha realizzato una serie di opere per una performance dedicata a Gramsci. Si trattava di una serie di manifesti, che vennero affissi per le strade di Roma. Ogni manifesto portava una frase gramsciana. Una di queste frasi, famosissima, recita così:

«Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.»

La frase è piuttosto inquietante, ma è anche molto vera. È vera per noi, oggi? Mah! Forse, purtroppo, potrebbe.

Ma anche no, se solo lo vogliamo.

È vero che anche per noi oggi un mondo è finito, mentre il nuovo tarda a comparire. Vediamo questo ogni giorno, soprattutto in questi tempi di emergenza sanitaria ed economica.

Ma il lavoro che io credo sia così utile sulla speranza si gioca proprio qui, in questo tempo sbandato, come avrebbe detto Ivano Fossati che ho citato al principio di queste pagine.

Sì, perché la speranza è quella cosa che ci serve per sentire il nuovo che arriva: per crederci, e quindi preparargli la strada.

È chiaro che il nuovo può essere inteso in tanti modi. C’è un livello più immediato e immediatamente realizzabile. Quello che riguarda i nostri progetti di vita, anche personali. E poi c’è un piano diverso, profondo e spirituale.

È importante che anche i progetti più semplici abbiamo un respiro il più ampio possibile, che non guardino soltanto al nostro piccolo giardino, ma si collochino in una dimensione più vasta e profonda. Solo così la speranza comincerà a lavorare dentro di noi, per noi, spingendoci a creare qualcosa perché crediamo che possa esistere.

Solo per chi è senza speranza c'è data la speranza, diceva Walter Benjamin. Basta leggere le notizie di questi giorni per capire che la speranza, allora, è proprio data per noi. È ciò che ci serve.

Abbiamo visto, però, che la speranza, per Bloch, ha sempre a che fare con qualcosa di latente, che chiama oltre… Qualcosa che è nato forse nel passato, ma che non si trova lì. Qualcosa che è nel futuro che ci aspetta, ma non solo. Non carpe diem, dice Bloch, abbiamo detto, ma carpe aeterniatem in momento. C’è qualcosa che sta nell’eterno.

Nel XXV canto del Paradiso Dante descrive la speranza con queste parole:

 

“Spene", diss'io, "è uno attender certo

de la gloria futura, il qual produce

grazia divina e precedente merto..."

La speranza, dice Dante, è un attendere, ma un attendere che è certo, che sa che non sarà deluso.

Attendere che cosa? Una gloria futura, una riuscita. È qualcosa di entusiasta, dunque.

Ma c’è di più.

L’attendere che è certo di per sé ha due effetti. Produce la grazia divina, quindi mette in moto forze provvidenziali, energie nuove, come se le chiamasse con il suo stesso affidarsi ad esse. E poi anche il merito, un merito che è “precedente”, cioè viene ancora prima…

Come se per il solo fatto di avere speranza trovassimo in noi stessi la forza per agire, costruire, con merito, lavorare. E nello stesso tempo muovessimo le forze più grandi di noi, che ci vengono in aiuto. Per il solo fatto di sperare.

 



[1] Artista cileno classe 1956, che vive e lavora a New York. L’opera di cui stiamo parlando si può vedere a questo link https://g.co/kgs/PCxTJn

 

[2] vd. Ernst Bloch, Il principio Speranza, 1954, trad. it, Garzanti, 2005

 

[3] Sulla necessità di essere audaci, oggi, Alessandro Baricco ha scritto un articolo davvero interessante, che è possibile leggere qui: https://bit.ly/3hdYtTJ

 

[4] Ad esempio: Come gli studenti di scienze abbiano tratto giovamento dal goal setting e self monitoring https://bit.ly/3f8NfPv 

L’influenza della scienza sulle pratiche. Goal setting: https://bit.ly/2z3yEEc

 

[5] Cfr. Ernst Bloch, op. cit. - Premessa, 1954, trad. it, Garzanti

[6] Per i cristiani questa persona è Cristo, ma Bloch non è cristiano, anzi è ateo. Per cui non gli attribuiamo pensieri non suoi. Tuttavia, nella lettura del testo, la speranza appare come personificata. Una lettura in chiave cristiana del pensiero di Bloch è tuttavia possibile, come testimonia il lavoro del teologo Jürgen Moltmann. Cfr. ad esempio J. Moltmann, Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, trad. it. Queriniana, Brescia 2008