Imaginer, Recommencer. Ce qui nous soulève, Tome 2,
Georges Didi Huberman, Editions de Minuit, Paris 2021
È questo l’ultimo - o già penultimo? - libro di Georges Didi-Huberman. Non ancora tradotto in italiano, il testo è ricchissimo e stimolante, davvero difficile da compendiare in breve rendendo conto della molteplicità e intensità di spunti che contiene.
Come sempre, Didi-Huberman procede sulle orme di Warburg: prende un’immagine e la segue nelle sue evoluzioni, distorsioni, spiegazioni e vari, vorticosi movimenti storici, dall’immaginario artistico a, in questo caso soprattutto, quello politico. Qui l’immagine è “ce qui nous soulève” (ciò che ci solleva, ci fa alzare), così come altrove era la Ninfa.
Dal punto di vista filosofico il percorso tracciato da Didi-Huberman passa per Arendt, Benjamin, Bloch, ma anche e soprattutto per Rosa Luxemburg e la rivolta spartakista in Germania degli anni venti del novecento. Poi ci sono le fotografie di Heartfield e i disegni di Goya, e altro ancora. Centrali sono le nozioni di immagine dialettica di Benjamin e di immagine desiderio di Bloch.
Una nota importante.
La lettura e critica di Heidegger condotta in alcune pagine di questo libro, è molto forte e convincente. Riassumo in breve: Didi-Huberman mette in luce l’ambiguità addirittura iconoclasta che, a suo parere, è costitutiva del pensiero di Heidegger. Il filosofo di Messkirch ai suoi occhi rifiuta ogni dialettica ed appare ossessionato dalla ricerca della radici e della purezza, al prezzo, appunto, di soverchiare e dileguare ogni capacità del pensiero di procedere per immagini. Didi-Huberman rileva l’assenza, nel pensiero di Heidegger, di ogni riferimento alla dimensione affettiva: parole come amore, affetto (e io aggiungo anche creatività, che a queste è collegata), sono bandite. Cosa, questa, quantomeno sospetta, che forse non è estranea agli esisti nefasti del pensiero di Heidegger espressi negli Schwarze Hefte.
Ma tornando a noi, Didi-Huberman si chiede: che cosa ci solleva? Che cosa ci muove e ci muoverà ancora, nella cultura, nell’arte, nella politica, come nella vita quotidiana?
A darci la spinta per alzarci e ricominciare è la speranza. Ma che cos’è la speranza? Come dobbiamo intenderla?
Per Bloch, naturalmente, l'ottimismo alla Pollyanna non c’entra niente con la speranza. Questa va intesa, invece, nel senso dell’utopia concreta. Non si tratta, perciò, per intenderci, di indossare un paio di “occhiali rosa” né tanto meno di “pensare positivo”. Al contrario, proprio perché - anzi solo quando, e anche spietatamente - vediamo le cose che non vanno, possiamo cominciare davvero a cambiarle, o almeno ci proviamo. E lo facciamo nonostante le possibili previsioni scoraggianti, perché malgrado tutto riusciamo a immaginare un futuro migliore, e non vediamo l’ora di cominciare concretamente a costruirlo.
In quel “malgrado tutto” è la chiave.
Qui torna il tema della rivolta spartakista. Leitmotiv del testo sono, infatti, le frasi involontariamente lasciate come testamento-testimonianza da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht prima di essere assassinati dai nazisti.
Sono frasi piene di una speranza indomita, che mette i brividi e in cui indubbiamente avvertiamo viva la presenza di “ce qui nous soulève”, - Ernst Bloch avrebbe detto il principio speranza. Soprattutto quel "malgrado tutto…!” (Trotz alledem!) di Liebknecht esprime tutto il senso dello sperare che spinge a sollevarsi non in virtù di una certezza, ma al contrario, proprio nonostante e a partire dalle avverse condizioni.
Didi-Huberman ha l’enorme merito di fare insieme filosofia e storia dell’arte. Laddove i più oscillano tra i due poli delle pretese scientifiche un po’ aride da un lato (lo so che sto semplificando, ma… ragazzi, lo avete letto Dilthey?) e degli incantamenti incatenanti heideggeriani dei filosofi che finiscono per rimbalzarsi da soli dentro un gergo appreso a memoria oppure precipitano in un facile catastrofismo nichilista, Didi-Huberman, con Benjamin e Warburg presi insieme, trova un'altra strada. Il suo pensiero è, così, a pieno titolo un filosofare umanistico e, cosa fondamentale, pieno di pathos.
Insomma, Didi Huberman percorre una strada da seguire, dove Warburg, Benjamin, Arendt e Bloch fanno da guida.