Desiderare (e disobbedire) nonostante la catastrofe. Didi Huberman e Ce qui nous soulève tome 1





Désirer, désobeir. Ce qui nous soulève, Tome 1,

Georges Didi Huberman, Editions de Minuit, Paris 2021


Ho scritto qualche post fa del secondo volume della serie di Georges Didi Huberman che porta il titolo “Ce qui nous soulève”, Imaginer, recommencer, ed eccomi ora, procedendo a ritroso, a rendere conto del primo, eloquentemente intitolato Désirer, désobeir.

Così come nella seconda parte, in questo testo Didi Huberman passa in rassegna le figure e le occasioni della storia in cui la figura di “ciò che ci solleva”, in tutte le possibili declinazioni semantiche, si presenta. Sempre ispirandosi in primo luogo a Warburg, Benjamin e Bloch, il filosofo e storico dell’arte francese indaga situazioni storiche complesse, più o meno lontane nel tempo e nello spazio, ma sempre con uno sguardo attento all’attualità. Dall'Intifada alla rivolta del Ghetto di Varsavia, da Battaille a Foucault, Didi Huberman dà vita, così, ad un saggio di fenomenologia e di antropologia sul tema dei “gesti” del sollevarsi. Tema chiave è quello della “puissance” - la potenza, nel senso anche della e delle possibilità, delle promesse di futuro - contrapposta al “pouvoir” -  il potere, che spesso finisce per essere esercitato in modo autoritario e violento. Cruciale, in questo contesto è, allora, il ruolo dell’immaginazione, così come la dialettica tra memoria e desiderio, che è il vero motore di tutto il discorso.


A Didi Huberman interessa infatti soprattutto la puissance che è contenuta nella forza, anche psicologica, della disobbedienza, ovvero nella capacità di immaginare e desiderare, da cui nasce l’energia per opporsi al male, anche quando le condizioni sono tutt’altro che favorevoli, in un modo profondamente umano. 


Le prime parole del libro sono una domanda: che cosa ci solleva, si chiede Didi Huberman. Le ultime parole sono una citazione di Henri Michaux: “je voudrais me soulever”.

In conclusione, così, il punto cade sul soggetto, che si fa protagonista della propria vicenda e del proprio futuro, e in tal modo  dà inizio a quel processo inarrestabile che lo porterà, infine, a rialzarsi.


Ma quali sono i gesti del sollevarsi? Fisicamente, letteralmente, ma anche metaforicamente, sollevarsi vuol dire alzare le braccia, innanzitutto, e poi alzare, o rialzare, la testa. Quando senza più timore guardiamo in volto gli altri, anche gli oppressori, diventiamo capaci di gridare e cantare i nostri desideri, e soprattutto siamo capaci di immaginare, insieme con gli altri, come vorremmo il mondo di domani.



Nell’ultimo capitolo si tocca il tema della catastrofe, da molti percepita oggi come imminente dal punto di vista ecologico e non solo, e a un livello planetario, che riguarda tutti. Il tema è uno dei topoi preferiti dai filosofi oggi, e non serve, soprattutto in questi giorni, spiegare perché. Ma proprio qui il discorso di Didi Huberman rivela tutta la sua portata di attualità dirompente. Come il bimbo di quella favola, Didi Huberman vede che il re è nudo, e lo dice ad alta voce. Allora le sue parole si fanno ispirazione e stimolo molto concreto alla ricerca.


Didi Huberman considera, infatti, la reazione rassegnata, se non a tratti compiaciuta, al tema della catastrofe da parte di molti nostri contemporanei alla stregua di un sintomo depressivo diffuso e pervasivo: troppi pensatori e studiosi contemporanei, al parlare di catastrofe, perdita di senso, nulla e disfattismo, anche politico, ci si coccolano senza tentare altre vie, trattando il tema addirittura con un filo di narcisismo. 

Lo dico in un modo molto pop (io, Didi Huberman non lo fa!). C’era un detto che diceva: se non puoi uscire dal tunnel, arredalo. Bene. Troppi filosofi contemporanei sono attualmente proprietari di tunnel di design, e se li abitano come Geppetto nel ventre del pesce, accontentandosi delle briciole della storia, e forse della vita. 

Didi Huberman (qui nei panni di Pinocchio, non me ne voglia!) sembra voler dare un salutare scossone a chi fa così. Ma quale sarebbe l’alternativa? Come reagire alla catastrofe?

La parola katastrophein ha a che fare con un rovesciamento, un capovolgimento di prospettive. Qui Didi Huberman si rifà soprattutto, e ancora una volta, a Benjamin, ma nelle vesti del cercatore di perle, come ebbe a definirlo Hannah Arendt. 

Come il cercatore di perle indaga il fondo degli oceani alla ricerca di quell’unico, minuscolo oggetto di valore però sorprendente, così noi possiamo guardare alla vita, alla storia, anche la nostra, sperando in un senso forse non per sempre perduto. Nelle ceneri della storia, cerchiamo allora le braci, mettiamo in gioco la nostra immaginazione per andare a scovare le piccole scintille che là sotto, pure non viste, non hanno mai smesso di brillare. Queste scintille sono memorie, desideri, affetti: piccoli grandi oggetti del passato, a cui aggrapparci, ma soprattutto da cui ripartire. Per poi alzare le braccia, e la testa, e guardare al domani come a un tesoro di possibilità.


Il tema è talmente coinvolgente e le parole di Didi Huberman così belle e intense, che lascio a lui la parola, permettendomi di tradurre in italiano un breve brano del libro (op. cit. pag. 525 e sgg.). Eccolo qui:


“Sembrerebbe oggi che il terreno del tempo non sia fatto che di ceneri. Sembrerebbe che il mondo non finisca più di finire, di deperire, di scomparire. E che la parola d’ordine sia, più che mai, la parola catastrofe: non la catastrofe come movimento che solleva, come intendeva un tempo il verbo greco katastréphein- che sta per ritornare, girarsi sottosopra, rovesciare - ma la catastrofe come puro e semplice campo di rovine dove tutto sarebbe stato distrutto e dove nulla si può ancora sperare davanti alla vittoria delle nuove forme di capitalismo, delle nuove strategie di imperialismo e delle nuove forme di totalitarismo. Nel tempo in cui scrivo queste righe (2019 nota mia), gli scaffali della mia libreria non smettono di riempirsi di libri scritti dalle migliori menti ma che, per quanto siano pertinenti, si lasciano attraversare da ciò che raccolgono dallo spazio pubblico, qualcosa come una grande folata di sintomi depressivi, accompagnati da un singolare disfattismo politico. (…)

È come se una parte del pensiero di emancipazione, oggi, si lasciasse andare a qualcosa come un “malinconia” davanti alla “catastrofe in corso”. Come se il pensiero politico avesse preso, o ripreso, un gusto di cenere. Come se questo pensiero abbandonasse poco a poco il terreno della gaia scienza e di quella “ivresse” che Walter Benjamin ammirava nella “politica poetica” dei surrealisti alla fine degli anni 1920. Come se dovessimo infine abbandonarci ad una visione sovvertita - quindi semplicemente rivale, simmetrica e, forse, inconsciamente mimetica- del declinismo vendicativo e identitario che regna un po’ ovunque negli innumerevoli discorsi reazionari.

(…) Ma se noi camminiamo in un paesaggio di detriti o di ceneri, allora, lo ripeto, occorre scavare nella cenere, per riportare in superficie - soffiando sopra delicatamente, teneramente- ai piccoli frammenti di brace che la catastrofe si è dimenticata di estinguere del tutto. Questo significa chiamare in causa l’immaginazione: come soffiare sopra qualche semplice brace per riportare al tempo presente, ai gesti, alle forme, alle lingue, il loro fondamentale desiderio di disobbedire.”