Storia destino utopia. Walter Benjamin e Gian Maria Tosatti tra New men’s land e Portbou




Jungle di Calais, immagine dal web.
Non ne conosco l’autore, purtroppo. 




La prima volta che sono stata in Spagna ci sono andata in treno. Fu un viaggio rocambolesco, pieno di cambi e giri abbastanza inutili, anche se scanditi dai bellissimi paesaggi che si alternavano veloci fuori dai finestrini. Ne avrò cambiati cinquanta, di treni, apposta per viaggiare di giorno, quando si vede bene, come preferivo allora, e ancora preferisco.

Ricordo che c’era soprattutto un cambio a Portbou, tra Francia e Spagna. Erano gli anni novanta. Là, a Portbou, le rotaie, all’epoca, cambiavano. Le rotaie francesi, infatti, erano diverse da quelle spagnole, perciò occorreva aspettare molto il cambio treni, che era letterale. L’attesa per i viaggiatori era lunga, a tratti estenuante, e avveniva in un’atmosfera astratta, irreale. 

La sensazione di trovarsi sul bordo, sul confine di qualcosa di metafisico, era fortissima. Se mi avessero detto che mi trovavo dentro un quadro di Edward Hopper, non avrei avuto nulla da ridire. 


Ecco, se immagino l’utopia, u- topos, il luogo che non c’è, potrei vederla così, come è stata per me, per quella breve è casuale esperienza, Portbou. 

Luogo che non c’è, perché non è né un paese né l'altro. Confine, soglia, ingresso. Posto in cui aspettare un tempo vissuto come troppo lungo, nebbioso, indistinto. Luogo di attesa per l’isola che non c’è, o per il treno che passa sul binario 7 e ¾, fate voi. U-topia, u-topos, o meglio, la sua anticamera.


Ma c’è qualcosa di ironico e di tragico a descrivere Portbou in questo modo, pensando che Walter Benjamin morì suicida proprio là, in quel luogo dall’atmosfera così rarefatta. Strano posto per lasciare il mondo quello, sospeso, all’epoca di Benjamin, ai margini non solo delle rotaie del treno, ma della storia. Si racconta che a Portbou il filosofo tedesco aspettasse i documenti che gli avrebbero permesso di fuggire dai nazisti, per imbarcarsi verso una nuova avventura, libero. 


Ma non fecero in tempo ad arrivare, quei documenti. O lui non ebbe la pazienza di aspettare ancora un po’.


Ma che cosa fu Portbou, allora, per Benjamin? Un luogo di speranza o di disperazione?


Beh. Solo per chi è senza speranza è data la speranza, diceva proprio Benjamin.


C’è un altro luogo, o meglio c’è stato, con quello spirito di confine, di attesa, di cominciamento. Mi riferisco a fatti di non molto tempo fa, alla Jungle di Calais. 


Nel corso delle mie ricerche sulla speranza, mi sono imbattuta in un progetto di qualche anno fa di Gian Maria Tosatti, dal titolo New men’s land, del 2016. Sottotitolo: destino e storia. 


Il progetto si compone, in realtà, di più opere, disegni, sculture, ready made e altro. Al centro del progetto c’è la città sorta spontaneamente nella Jungle di Calais, che venne poi distrutta. Per Tosatti questo luogo illegale, ma spontaneo, rappresenta la prima (?) vera città autenticamente europea. Il che è di per sé paradossale, perché le condizioni di vita, in quel luogo, erano tutt’altro che vivibili e foriere di speranza.

La Jungle di Calais sorgeva però in un luogo paradigmatico, in linea d’aria al crocevia tra Barcellona, Berlino e Bruxelles. Nasceva senza intenzione e dalle mani di clandestini, rifugiati, persone in fuga. Niente più di un accampamento, senza nessuna condizione di vita sostenibile, popolato da gente in attesa e talmente piena di speranza da essere disposta a tutto. La sola idea di un luogo simile, dove non si fa altro che aspettare, evoca un’atmosfera sospesa, l’idea di trovarsi tra due condizioni anche dello spirito, comunque sul bordo, in attesa di una libertà a venire, o meglio di un mondo che non c’è ancora. 


Tra tutte le opere del progetto scelgo un disegno*. Semplice, tracciato con un tratto svelto. Traccia il profilo di un piccolo borgo, forse un paese. È la Jungle di Calais. Ma il disegno è tutto bianco, c’è solo il tratto, nudo, a disegnare i confini delle cose. Il solo arcobaleno, all’orizzonte, quello stesso a cui proprio Benjamin dedicò un breve saggio nella forma di dialogo sulla fantasia, è colorato. 

Le strade di questo paese, però, a ben guardare, s’intrecciano in un modo strano. Non vediamo dove cominciano né dove finiscono. 

Da dove posso entrare in questo paese di Utopia? Da dove ne potrò uscire, se mai volessi farlo? 

Ė un vortice. Le tourbillon de la vie, come cantava Jeanne Moreau in quel film di Truffaut.

Sì, perché qui destino e storia sembrano due amanti che si prendono e si lasciano, per poi riprendersi di nuovo. Fanno bene o male? Forse aprono prospettive inattese, o forse si chiudono la strada vicendevolmente. 

Ne viene fuori un vortice, appunto, difficile da districare. C’è qualcosa che è esistito, ma che è anche stato cancellato. E tuttavia c’è ancora qualcosa da attendere nel futuro, come una promessa. 


O una speranza? Può darsi sia una speranza, visto che solo per chi è senza speranza è data la speranza.


New men’s land fa venire subito in mente il film di qualche anno fa sulla guerra dei Balcani, che però suonava No man’s land, cioè terra di nessuno. Non per caso Tosatti, nel libro dedicato al progetto, sceglie però di usare il plurale - men, e non il singolare - man. E poi, ovviamente, l’aggettivo - new, e non la negazione - no.

New men’s land perciò non è la terra dell’uomo nuovo, ma degli uomini nuovi. Come dire che nessuno è da solo, ma l’umanità nuova o è plurale, oppure non è. O c’è relazione, condivisione (che vuol dire rapporto tra esseri liberi e distinti e non mescolanza in cui ogni individualità è perduta), oppure non c’è niente. Nemmeno noi. Come con il virus: o ci salviamo tutti, insieme, o sono guai.


Ma U-topia, si sa, è il luogo che non c’è. È la città sognata, dove le nostre speranze si avverano, tutte quante, e senza un filo di ruggine. Ma è anche un luogo negato, per definizione, almeno per ora. È luogo d’arrivo, per cui vale il tempo dell’attesa: purché sia un’attesa operosa. È luogo che non è mai oggetto di conquista, ma frutto di una paziente costruzione, piena di dedizione e impegno, nonostante tutto - e non solo le apparenze. È un pensiero disperato, questo? 


Ma no. La speranza è data per chi ha perso ogni speranza, sì, ma che però continua a insistere, e a cercare, e a insistere di nuovo e mentre insiste attende. Un’attesa, questa, vissuta in modo attivo, vivo, pieno dell’entusiasmo che viene dal futuro.


È il principio speranza, come voleva Bloch, che ci fa andare avanti, malgrado tutto, vedendo quello che non c’è, e proprio quando non c’è e non si vede niente. Nel momento di tensione, in cui tutto sembra perduto. Sabato Santo. Non-ancora. Ecco in che senso solo per chi è senza speranza è data la speranza. 


Ecco. L’incrocio tra storia e destino è il luogo di questa attesa.

New men’s land. Un luogo che non c’è ancora, ma c’è stato e, soprattutto, ci sarà. Qualcosa in cui continuare a credere, anche nonostante le evidenze e le contrarietà. 

Ecco la forza della speranza. Una forza dolce, ma possente. Di cui abbiamo, oggi, tutti, un disperato bisogno. E desiderio.


Walter Benjamin, foto dal web 


Mi ha sempre colpita il fatto che Benjamin si sia suicidato, a Portbou. Temeva, si racconta, di non fare in tempo a ricevere i documenti che gli avrebbero permesso la fuga dalla furia nazista. Eppure se solo avesse aspettato ancora un poco, li avrebbe avuti, quei documenti: si sarebbe salvato, avrebbe fatto in tempo, sarebbe partito. 

Così si racconta. Che peccato che non abbia atteso. Solo ancora un po’.



* NB: l’immagine dell’opera a cui mi riferisco è rintracciabile sul web, sul sito della galleria di riferimento: www.liarumma.it