Distopici. Marletta + Gioffré @Novaexpress superattico


Franco Marletta, La metropoli notturna, 1976  courtesy @ l’artista




Le opere di un artista degli anni settanta dimenticato misteriosamente scomparso, il cui tema dominante è un futuro fantascientifico in cui il confine tra uomini e macchine si fa sempre più labile e inquietante, è quello che puoi aspettarti di vedere in uno spazio che prende il suo nome da un famoso romanzo di William Burroughs. E non è tutto.


Lo spazio - che in realtà è uno splendido attico privato da cui si ammira una disarmante vista su Torino - si chiama osservatorio Nova express; l’artista è Franco Marletta. La mostra è curata da Gianluigi Ricuperati, che è anche l’ospite, e dalla figlia di Marletta. 


I dipinti sono figurativi, tanto primitivi e analogici nello stile, nel disegno e nella scelta dei colori, quanto efficaci e sorprendentemente attuali nei temi e nelle narrazioni.

In mostra li vediamo affacciarsi sulla terrazza dell’attico, e ne scorgiamo il retro delle tele, grezze e poetiche, guardandoli dall’interno.


Sono tante le domande che questi dipinti pongono: a noi, oggi.

Nel rapido avvicendarsi di mutamenti tecnologici sempre più sorprendenti, che futuro ci aspetta? Come ci relazioneremo, nei prossimi decenni, tra uomini e macchine? Ci sarà un confine certo tra noi e i devices che già utilizziamo per interfacciarci alla realtà, più o meno aumentata o diminuita che sia? C’è, questo confine, oggi? E loro, le macchine, davvero costituiscono un ampliamento delle nostre facoltà e dei nostri sensi? Saranno capaci di condurci, magari, un giorno, oltre le famose porte della percezione di Blake? Oppure, dei sensi, genereranno un inevitabile ottundimento - che solo a chi non ne soffre, mette i brividi?


Se il cosmismo di matrice russa che interessava Marletta oggi non è al centro della discussione, lo è però il tema del trans-human, ovvero del modo in cui ciò che è umano e ciò che è prodotto da macchine, droni, computer, replicanti o smartphone che siano, è da pensare. 


La domanda non è nuova. Molto prima di Norbet Wiener, già Lamettrie, nel settecento, fantasticava sull’uomo-macchina, immaginandolo come un ibrido capace di varcare i limiti dell’umano. Ma ancora prima, lo stesso Descartes pensava l’essere umano paragonandolo a una macchina perfetta al crocevia di res cogitans e res extensa. Oggi però la cosa assume dei contorni paradossalmente molto concreti. 

Certo, da Descartes a Blackmirror il passo non è affatto breve, ma la linea tesa c’è. Ed è di questi giorni la notizia della nascita di Meta, il metaverso di Zuckerberg, pronto a prendere il posto dei social a cui ci siamo ormai assuefatti quali medium tra noi e il prossimo, ahinoi non solo in tempi di lockdown.


E allora, mentre siamo a bordo di Nova express e i nostri occhi scorrono sui colori sintetici di queste tele, è lecito porsi delle domande. Ma davvero siamo alle soglie di una distopia inquietante? O le abbiamo già varcate, quelle soglie? Oppure, al contrario, tutte queste necessarie riflessioni possono aiutarci proprio a disegnare un futuro diverso, in cui potremo forse, un giorno non lontano, ritrovarci?


Non lo so, naturalmente. Ma mi interessa pormi queste domande. 

E poi mi viene in mente una canzone dell’ultimo album di Samuele Bersani, album che gli è valso il Premio Tenco 2021.

La canzone si intitola Distopici e, appunto, di distopia parla. 

Ma nel corso della canzone, cantando, la parola cambia, e una curiosa omofonia ne capovolge il significato. Da distopici a ti-sto-vicino. Che sia nascosta da queste parti, in qualche modo, la chiave di lettura che stiamo cercando?


In mostra, a definire nello spazio un nuovo spazio, questa volta tutto mentale, c’è anche una performance. La performer è Maria Luigia Gioffrè, qui nei panni di un essere alieno intento a sfogliare un grande libro fatto di immagini. Non può parlarci, né interagire con noi: il suo tempo è diverso dal nostro, il suo luogo è altrove. É una condanna a tenerla separata dal nostro trafficare quotidiano? O il suo compito è proprio additare a noi l’esistenza di uno spazio altro, di un tempo alternativo, che potremmo anche abitare, se solo volessimo? Ma, se così fosse, l’artista non si starebbe relazionando proprio con noi, i fruitori della sua opera, mentre non ci guarda e non ci parla?

Distopici (ti sto vicino).