#2 Stairway to heaven. Lo sguardo dall'alto

 






Maria Cristina Strati

Stairway to heaven. La metafora dello sguardo dall’alto[i]

 

1.     Per cominciare… una biblioteca!

Nel film Il cielo sopra Berlino, del 1987, di Wim Wenders, c’è una scena che rimane particolarmente impressa nel cuore e nella mente di chi ama leggere, e studiare. Sappiamo che il film parla degli angeli, quelli che, appunto, abitano il cielo sopra Berlino. Per chi avesse il dubbio: niente a che vedere con cose superstiziose o new age. Qui siamo nell’ambito della poesia. La storia narrata nel film si svolge nell’epoca in cui la città tedesca è ancora ferita dalla presenza del muro, che sta lì, ingombrante cicatrice di un terribile passato.

Il tema di questo paper è lo sguardo dall’alto, inteso come metafora e come indicazione, in qualche modo, per stare, meglio, al mondo. Il riferimento al film di Wenders è quindi immediato, ma ancora più interessante è la scena della biblioteca. Gli angeli di Wenders guardano, appunto, la città, dall’alto. La sorvegliano amorevolmente, e vedono tutto, dentro e fuori cuore e mente delle persone. Ma perché la scena della biblioteca è così importante? Perché fa capire la cosa più importante, una chiave di lettura senza la quale il senso profondo del film sfugge.

Gli angeli di Wenders non hanno niente a che fare con fantasie superstiziose o new age. Il cielo, quel cielo che gli angeli di Wenders abitano, è per prima cosa, e forse più di ogni altra cosa, uno spazio interiore. È un dentro le persone, non si trova fuori di loro. Ed è uno spazio infinito: pieno di pace o dolore, non si sa, perché non è sempre uguale. Ma il solo modo per entrare in questo spazio, visitarlo, sostare in esso e abitarlo, è rivolgere l’attenzione alle cose che contano e che spesso, proprio come la presenza degli angeli di Wenders, non si vedono. Quale posto migliore di una biblioteca per fare silenzio e rivolgere lo sguardo all’interno, nell’interiorità? Non c’è via più indicata di un libro per iniziare questo particolarissimo viaggio. Oppure un’opera d’arte: magari un quadro.

Nel nostro caso, ne abbiamo addirittura due.

 

2.     Daphne e il viandante

Che cos’è lo sguardo dall’alto? Che cosa vuol dire, e quali sono le conseguenze di guardare le cose da un diverso punto di vista? Qual è il significato della metafora dell’alzarsi in volo, e guardare giù? Ci sono due quadri, storicamente e artisticamente molto distanti, ma che condividono un comune sentimento. Proviamo a interpretare, mettendoci in gioco.

Uno è Il viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich (1818-19, conservato nella Kunsthalle di Hamburg, in Germania), l’altro è Daphne a Pavarolo, di Felice Casorati (1934, è alla Gam di Torino). Che cosa hanno in comune queste due opere? Che cosa di diverso?

Fate un salto sul web, o, se potete, meglio ancora, al museo, a dare un’occhiata alle immagini di questi due lavori. Pensate per un attimo, prima di proseguire la lettura, che cosa, questi due quadri vi dicono. Vi piacciono? Vi sono di ispirazione? Che sentimento di trasmettono? In che mondi vi portano?

Da una parte c’è un uomo di spalle. Dall’altra una donna, che non è di spalle, ma che tiene gli occhi chiusi. L’uomo guarda l’infinito, un interminabile mare di nebbia, dove poco si scorge. Qui il panorama è confuso, avvolto nel nulla. Ma l’uomo sta davvero guardando? Per quanto ne sappiamo noi, anche lui potrebbe avere gli occhi chiusi. È di schiena, non si vede.

La donna, invece, siede davanti a una finestra aperta, dandole le spalle. Il collo reclinato all’indietro, come chi si abbandona ad un sogno. Dietro di lei si squaderna un tipico paesaggio delle Langhe piemontesi: una natura ordinata dall’uomo, geometrica nelle sue coltivazioni, che pure corre anche lei verso un orizzonte infinito, vasto, fatto di storia, di vini pregiati, cose buone. Si respira. La natura è disordinata in un dipinto, ordinata nel secondo. Lì niente geometria, qui molta geometria (ma dolce, senza rigidità).

Lo sguardo è sempre quello dall’alto, però. Sguardo si perde nell’infinito, anche se gli occhi sono chiusi. Perché si rivolge all’interno. C’è uno spazio dell’anima, un paesaggio dell’anima. E gli occhi per vederlo.

 

3.     La mongolfiera e il terremoto

L’essere umano ha sempre sognato di potersi alzare in volo. Fin dai tempi di Icaro e Dedalo, passando dagli studi di Leonardo da Vinci. Era però il 1783 quando i fratelli Montgolfier diedero la prima dimostrazione pubblica dei loro esperimenti sul pallone aerostatico. Nello stesso anno, Mozart eseguiva per la prima volta la sua Messa in Do minore K427, esattamente un anno dopo l’esordio de Il ratto del serraglio, che aveva, a dire il vero, ricevuto un’accoglienza un po’ freddina. Sempre nel 1783 Kant pubblicava una prima stesura dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza, anticipando i temi della sua prima Critica.

In quell’anno, in un mondo ancora illuminista, ma già pronto a tuffarsi nel romanticismo, la prima mongolfiera della storia sorvolò la cittadina di Annonay. Accadeva nella Francia di Luigi XVI, alla presenza di alcuni notabili inviati dal re e, c’è da immaginare, molta gente con gli occhi pieni di meraviglia e forse un po’ di paura. Aristocratici e borghesi. Mi immagino le facce soddisfatte degli inventori e la gente incredula, con il naso all’insù, a guardare quel volo così straordinario.

Naturalmente, non mancarono le critiche, i timori che l’altezza potesse nuocere gravemente alla salute dei volatori. Ma questo accade sempre con le innovazioni, è una resistenza al cambiamento connaturata all’essere umano, per fortuna regolarmente vinta dalla più forte voglia, anch’essa connaturata all’umanità, di sperimentare cose nuove.

La notizia della possibilità di volare, per l’essere umano, e di farlo con quella leggerezza e soavità non poté non colpire la mente poetica di Goethe, che in quegli anni era ancora a Weimar e si preparava al suo futuro viaggio in Italia, che avverrà tre anni dopo.

Erano anni molto intensi per Goethe, allora poco più che ventenne. Anni in cui Goethe impara da Charlotte von Stein a vivere nell’alta società dell’epoca, e si mescola a un mondo di persone colte. Frequenta studiosi di fisiognomica e di anatomia, di geologia e di botanica. Sono gli anni in cui Goethe inizia a scrivere il Wilhelm Meister, un romanzo di formazione, appunto, un bildungsroman, in cui si narra delle vicende che portano un ragazzo alla maturità psicologica e umana. Goethe, in quegli anni, impara l’equilibrio, l’autocontrollo, la misura. Aderisce persino alla massoneria, entra in tutte le più ambite cerchie di Weimar. E poi, bum, tre anni dopo il volo della mongolfiera, molla tutto e fugge in Italia.

Per Goethe, c’è una curiosa coincidenza al riguardo. Il volo del pallone aerostatico avvenne il 5 giugno del 1783. Appena quattro mesi prima, la notte tra il 5 e il 6 febbraio dello stesso anno, un terribile terremoto sconquassò il sud d’Italia, particolarmente le regioni di Calabria e Sicilia. Ma che cosa c’entra questo con Goethe e la mongolfiera?

Beh, c’entra con Goethe perché pare che Goethe abbia avuto una specie di premonizione di quel terremoto, guardando, nella stessa ora in cui l’evento disastroso accadde, fuori dalla sua finestra della casa a Weimar.

Sarà vero l’aneddoto del terremoto? Non ci è dato saperlo, ma che esista questa idea, anche solo come suggestione, aiuta a raccontare il personaggio.

Ci interessa perché racconta di un giovane Goethe teso tra scienza e sapere classico da un lato, ma attirato anche verso qualcosa di meno razionale, più fantastico, interiore. Già romantico. È il terremoto di Messina che Goethe crede di sentire, di lontano, ma non solo. Un altro terremoto è arrivo, un terremoto culturale molto potente: il romanticismo.

Illuminismo e romanticismo. Due stili diversi di mettersi in relazione con le cose. Goethe cercava nella natura scienza, pensiero limpido. Ma accanto a queste cose trovava anche sentimento, percezione e fantasia. C’era di tutto, dentro la. Un mare di nebbia, insomma. Ma anche un campo coltivato.

 

4.     Vantaggi spirituali dello sguardo dall’alto, per Goethe

Lo sguardo dall’alto è un tema presente in molti punti del pensiero e della produzione di Goethe. È là, dove il poeta si avvicina al pensiero della filosofia antica e alle forme classiche esaltate da Winkelmann, in cui la vastità dello spazio osservato da un luogo privilegiato, come una montagna, procura un senso di serenità e pace.

È in contrasto però, questa visione, con quella romantica, in cui lo sguardo dall’alto, sul mondo tutto, procura invece sgomento. Lo sguardo si perde, si spaventa. All’uomo romantico, naufragar è dolce, in quel mare, ma là dentro il cor gli si spaura. È, certo, un timore sacro, qualcosa che attira proprio per la sua difficoltà, che richiede impegno e passione. È il sublime di Kant nella Critica del giudizio (1790).

In particolare, Goethe mette in relazione lo sguardo dall’alto con la poesia e lo fa con queste parole:

La vera poesia si annuncia attraverso il fatto che, come un vangelo universale, grazie alla serenità interiore e alla grazia esteriore sa liberarci dai pesi terreni che ci opprimono. Come un pallone aerostatico, ci solleva in regioni più alte con la zavorra che è appesa a noi, e ci permette di scorgere in prospettiva da uccello i tortuosi, confusi sentieri della Terra dispiegati davanti a noi” (Scritti autobiografici, 1775).

La storia narra che tutto sia cominciato con la mongolfiera. L’idea è quella di sollevarsi sulle cose, non con la fatica di chi scala una montagna, ma con la leggerezza di chi lascia andare i contrappesi e si solleva, il proprio destino legato con piacevole avventatezza a un pallone colorato. Sembrano i barbari di Baricco, e invece è Goethe.

O, almeno, questo è un aspetto importante della poesia per Goethe. È anche un aspetto foriero di grandi vantaggi spirituali. Quali?

 

5.     La prospettiva e il distacco

Due sono i punti da indagare: distacco e prospettiva. Questi i due vantaggi, spirituali ed esistenziali, dello sguardo dall’alto secondo Hadot. Noi allarghiamo ancora lo sguardo e cerchiamo di capire facendoci aiutare dalle immagini.

Cominciamo dalla prospettiva. Per gli egizi non c’era, non come la pensiamo noi. I loro dipinti sono piatti. Il mondo si spalma su una sola dimensione e, così, si lascia comprendere. Facciamo un salto iperbolico, e arriviamo a Giotto. Per Giotto, lo spazio comincia ad avere un suo spessore, una sua sostanza, così come i corpi.

Nel 1300 il mondo comincia, con Giotto e i pittori come lui, a mettersi in prospettiva. Grazie al modo nuovo di percepire lo spazio e di renderlo, su due dimensioni, anche la percezione del corpo umano cambia. Si fa più carnale, più viva. È una presenza che pesa, che occupa spazio e lo fa notare. Però, nel Giudizio Universale della Cappella degli Scrovegni a Padova, persino si apre, il cielo, e mostra le sue porte. Sono porte che hanno un certo spessore: persino l’aria del cielo, sinonimo di levità, per Giotto diventa spessa, ha una consistenza densa, come le fette di formaggio. I Led Zeppelin ci sarebbero andati a nozze, con quel dipinto di Giotto.

E poi? Altro salto temporale. Poi c’è il Rinascimento. E lì diventa come diceva Protagora (salto indietro, ma i rinascimentali recuperano la cultura classica, si sa), l’uomo è misura di tutte le cose. Così è per la prospettiva. La prospettiva rinascimentale descrive il mondo e lo ordina tutto, in una sintesi matematica eccezionale.

Quella di cui stiamo parlando è la prospettiva dal punto di vista dell’arte pittorica. Qualcuno potrebbe essere rimasto deluso: ma non stavamo parlando di noi, dei nostri vissuti personali ed esistenziali? Non parlavamo della poesia e dei vantaggi spirituali che offre? Ma non siamo andati fuori strada. L’idea che ci interessa è qui, a portata di mano (e, grazie alle immagini, di comprensione). Perché? Che cosa c’è da capire?

C’è da capire che la visione del mondo, con la messa in prospettiva, cambia. E allo stesso modo cambia il mio modo di vedere, per esempio, un problema che devo affrontare, se lo metto in scala con tutto il resto, lo inserisco nel suo contesto. Questione di proporzione.

Ecco, questo è il punto, la cosa da fare con i problemi, anche quelli esistenziali. Metterli per prima cosa in proporzione con tutto il resto.

 

6.     La misura di tutte le cose

Ok, siete tranquilli adesso? Ci siamo capiti? Bene, perché ora facciamo un altro iperbolico salto in lungo. Avete presente la realtà aumentata, quella per cui posso inserire un ologramma nel corso del mondo? Il 5 g e tutto il resto? Bene.

La butto lì, per cominciare subito con il botto: la realtà aumentata, forse, probabilmente, è cominciata con Piero della Francesca.

Ok, è una provocazione e un’ironia. Ci siete cascati? Ovvio che scherzo. Però, occhio, come diceva Freud, lo scherzo non è mai così distante dal vero.

In che senso la provocazione aiuta a capire qualcosa? Vediamo.

L’arte, ai tempi di Piero, tentava di essere più reale, di avvicinarsi al vero. Fino a provare ad includere, in alcuni casi, pensiamo ai Coniugi Arnolfini (siamo negli stessi anni, più o meno, 1434, prima metà del Quattrocento), lo stesso spettatore dentro il quadro e la sua organizzazione dello spazio.

È così che l’arte ha allargato non tanto le proprie porte della percezione, come avrebbe detto William Blake, ma la possibilità di essere percepita. L’arte, ai tempi del Rinascimento, così come tutta la produzione culturale, iniziava una sorta di cammino di secolarizzazione. Scendendo di uno scalino si avvicina al mondo dei non aristocratici. La pittura cerca di fare il verso alla scultura, vuole far vedere tutto, tutti i lati delle cose, e metterli, appunto, in prospettiva. Vuole prendere la realtà e renderla nell’opera, ma renderla viva, vera. Non basta che sia accennata o rappresentata. La pittura vuole rendere il mondo, duplicarlo, farlo vivere.

Non è quello che cerchiamo di fare con la realtà aumentata, in senso molto molto lato? Creare immagini che interagiscono con il mondo che le circonda, in 3d?

Ok, qui forse sto esagerando e saltando dei passaggi. Ma è indubbio che, con l’avvento della prospettiva, quello che è messo in gioco è il senso di realtà, nel doppio senso del genitivo. C’è da un lato il senso di realtà dell’opera (che si vuole più reale) e poi c’è il senso della realtà, che nell’opera vuole allargare i propri confini. È la possibilità di vederla, la realtà, di entrarci e comprenderla per il mezzo dell’opera d’arte – o dell’opera artificiale, se preferite.

Il risultato è che entrambe le realtà, quella dell’opera e quella del mondo, come due fuochi contrapposti, si contagiano a vicenda. E tutto comincia un po’ ad oscillare. Questo accade, più o meno, con la modernità. Per Piero della Francesca ancora non è ancora così.

Ricordate che l’essere umano, per Protagora, era misura di tutte le cose? È l’essere umano la misura attorno a cui la pittura di quest’epoca si costruisce e costruisce i suoi spazi interni.

Ma la frase di Protagora non si limita però a dire che l’essere umano è misura di tutte le cose. La frase prosegue e ci dice qualcosa di quella misura. Leggiamola tutta: l’essere umano è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono.

Sarà una suggestione, ma questa frase mi fa tornare alla mente lo sguardo del viandante di Friedrich. È uno sguardo che non vediamo. Però guardiamo con lui, nella stessa direzione, come buoni compagni di strada.

Piero della Francesca morì il 12 ottobre del 1492. È l’anno della scoperta dell’America. Appena qualche mese prima Cristoforo Colombo aveva dimostrato che la terra è rotonda. Senza sapere questo, non si sarebbe mai potuto fare un viaggio oltre la terra stessa, nello spazio.

 

7.     The bigger picture

La visione dall’alto è innanzitutto una visione d’insieme. Questo impariamo dal discorso sul distacco e sulla prospettiva. È come quando una volta si girava con le mappe delle autostrade, e oggi con Google Maps. In parole povere: se vedo l’insieme, riesco a focalizzarmi sul punto dove voglio arrivare e a inventarmi il modo per raggiungerlo. Grazie alla mappa, mi oriento.

C’è un fotografo giapponese che si chiama Shoei Nishino. Nishino non fa vere e proprie fotografie, non nel senso tradizionale o, meglio, ne fa tantissime. I suoi lavori lui li chiama Dioramamap. Sono lavori composti come mosaici di tante piccole fotografie, poste in modo da rendere, alla fine, la mappa intera di una città. Foto per foto, passo dopo passo.

Naturalmente ci sono molte altre opere d’arte che parlano di mappe e territori. Ci sono stati, di recente, diversi tentativi di produrre arte a partire dalle immagini di Google maps (mi viene in mente l’italiana Laura Pugno, ad esempio, o il fotografo Mishka Henner, per fare due esempi). Ma celebri sono le mappe di Boetti, fatte di bandiere per esempio, e di molti anni precedenti questi esperimenti.

Gregory Bateson diceva che la mappa e il territorio sono due cose ben distinte e non vanno mai confuse. La mappa non è il territorio ed è da esso difforme, ma è indispensabile per muoversi e orientarsi.

La visione d’insieme, dunque, deve lasciare a casa molte cose, dimenticarsi di molti particolari. Allo stesso tempo, però, è anche la chiave per mettere quei particolari, presi a uno a uno, appunto, in prospettiva.

Mi viene in mente quel film di Woody Allen, Basta che funzioni (2009), dove il protagonista a un certo punto si rivolge al pubblico in sala (noi che guardiamo) e ci parla, lasciando sgomenti gli altri personaggi attorno a lui. Visto? Ci dice Boris Yellnikoff (questo il nome del personaggio), io sono l’unico ad avere una visione d’insieme.

(Fateci caso: alla fine nel film di Woody Allen capita qualcosa che sarebbe piaciuto molto a Van Eyck. Mentre Boris ci parla, Woody ci apre una porta che conduce dritta dentro il film, proprio noi che guardiamo… Se Allen avesse potuto mettere uno specchio che mostrasse la sala dove noi sediamo, come lo specchio dietro le figure dei Coniugi Arnolfini, beh, sarebbe stato fantastico…)

Ma noi? Che visione d’insieme abbiamo noi? Riusciamo ad avere una visione d’insieme, nei nostri vissuti, nella nostra quotidianità e contemporaneità?

Le mappe di Boetti tracciano mondi, li ricamano e così facendo li ripercorrono. Sappiamo che la mappa e il territorio sono due cose diverse. Tra mappa e territorio, che cosa sta in mezzo? In mezzo sta l’imprevisto.

 

8.     Lo sguardo da Sirio

Mettere in prospettiva presuppone il distacco. Qui però il distacco non va inteso in senso vagamente zen alla Schopenhauer, come mancanza di passioni e desideri travianti, almeno non solo. C’è un altro senso per intendere il distacco, che direttamente legato al mettere in prospettiva.

Pensiamoci. Prendere le distanze è spesso l’unico modo di vedere le cose in modo nitido e con lucidità. Vale in senso fisico e metaforico. Perché a volte, non farsi coinvolgere completamente in qualcosa che stai vivendo vuol dire capire, elaborare, ricordare.

Cesare Pavese diceva, non ricordo più dove, che la depressione è come vedere qualcosa troppo da vicino, al punto da non vedere più l’orizzonte. Vale anche l’opposto: riuscire a prendere le distanze da un vissuto o da un’esperienza, collocarla in un contesto definito, aiuta a comprenderla, e se necessario a liberarsene, una volta imparato ciò che c’era da imparare.

Il distacco che interessa Goethe è però quello della mongolfiera che prende il volo. Un volo che può farsi davvero audace e toccare i limiti del cosmo.

Arriviamo, così, al tema del viaggio cosmico.

Ci sono tanti luoghi in letteratura in cui compare il tema del viaggio cosmico. Fin dagli antichi (abbiamo detto l’Iliade, ma Hadot cita anche Luciano e Lucrezio). Poi c’è Voltaire, con Micromega, e prima di lui l’Orlando Furioso.

Ariosto racconta di Astolfo, che va a riprendere il senno di Orlando, impazzito per amore, fin sulla Luna. È un po’ anche questo il senso dell’allontanarsi per capire le cose, vederle da un altro punto di vista. Tenendo presente, appunto, the bigger picture, la visione d’insieme.

Ma non c’è solo questo. Il viaggio nello spazio, così come accadeva nei due quadri che abbiamo visto al principio di questo nostro excursus, è un viaggio soprattutto interiore. Mentre saltelliamo da una citazione all’altra, teniamo sempre presente che i luoghi che si scoprono in questo viaggio, le strade che si spalancano, non sono mai (solo) fuori, ma sempre (anche) dentro di noi. È l’essere umano, che noi siamo, la misura di tutte le cose.

 

9.     Planet earth is blue (and there’s something I can do)

Il viaggio interiore è viaggio nello spazio infinito. Ma se la distanza rende comprensibile il quadro d’insieme, non viene tuttavia a mancare una certa dose di sentimento e di sincera commozione. Il viaggio nello spazio non crea distanza emotiva, al contrario commuove profondamente il viaggiatore. Il sentimento che sorge in lui è qualcosa che lo lega all’umanità e alla terra che si allontana sotto i suoi occhi, proprio mentre la distanza si fa più significativa. In questo senso, per alcuni poeti, anche dei nostri giorni, il viaggio nel cosmo descrive un’infinità che chiama, come un destino.

Per David Bowie l’immagine del viaggio nello spazio ritorna molte volte, e in modo molto inteso, in diverse canzoni. Anche qui lo spazio che interessa è però soprattutto uno spazio interiore. Anche il tema del sentirsi separati dal mondo - che si comprende ed ama, ma da cui non ci si sente né amati né compresi - è un topos ricorrente e decisivo.

Il viaggio nello spazio compare nella prima canzone famosa di Bowie. Siamo nel 1969 e la canzone è Space Oddity. Era la sigla del programma televisivo inglese che seguiva l’allunaggio, ma non era esattamente una canzone ottimista.

Contrariamente ad ogni buon senso, la BBC aveva dunque scelto come sigla di quella trasmissione una canzone che narrava di un uomo che si perde, consapevolmente, nello spazio, per non fare mai più ritorno sulla terra. Classico esempio di umorismo inglese.

Al di là dell’ironia, però, la canzone esprime dolcezza e disperazione insieme. Major Tom, il protagonista della canzone, spezza ogni contatto con il mondo: pur amandolo, decide di restare nello spazio. Guarda la terra da lontano, ne vede la bellezza straziante, e anche i limiti: il dolore, le povertà. Vorrebbe fare qualcosa, ma non può, è ormai troppo lontano e distante. Dice: «Planet earth is blue and there’s nothing I can do».

È disperato, perso in una lontananza da cui non riesce, o non vuole, più fare ritorno. Non così Goethe.

Per Goethe lo sguardo siderale porta a un finale inaspettato. Invece di portare lontano, di creare una incolmabile distanza con il mondo e la realtà, produce esattamente l’effetto opposto. Porta a riscoprire il senso dell’umanità e delle azioni solidali e umanitarie. Accade a Wilhelm Meister, alla fine del suo percorso, per Goethe, ma Hadot fa notare come l’evento, per quanto inatteso, non sia affatto inusuale. Non è, insomma, qualcosa che riguarda soltanto il poeta tedesco, ma tutti noi.

Una delle conseguenze dello sguardo dall’alto è, all’improvviso, un sentimento di partecipazione. Hadot cita un esempio molto più vicino al nostro discorso, e anche alla canzone di Bowie, se non altro temporalmente.

Edgar Mitchell, astronauta che andò sulla luna con la spedizione chiamata Apollo 14, nel 1971, nel corso di un’intervista, dichiarò che la vista della terra dall’alto fu per lui un’esperienza totalizzante e del tutto decisiva. C’è da credergli.

E poi Mitchell tira fuori questa frase meravigliosa:

«We went to the Moon as technicians; we returned as humanitarians».

Letteralmente: siamo andati sulla luna da tecnici, siamo tornati da umanisti (umanitari, non solo umanisti, ma interessati all’umanità intera e al suo destino).

Mai come oggi le sue parole ci appaiono attuali. Qui ci sarebbe un mondo da indagare. Dopo la tecnica, e l’illusione della tecnica di dominare il mondo, ecco rispuntare la prospettiva umanistica. Che bella sorpresa!

Noi, che viviamo in un’epoca del tutto dominata dalla tecnica, dobbiamo ricordarci questa cosa, imprimerla bene in mente. Senza discipline umanistiche non si va da nessuna parte.

Perché l’essere umano è davvero misura di tutte le cose. Di quelle che sono e di quelle che non sono. Ma anche di quelle che possono essere.

 

10. Rilke e la melodia delle cose

C’è un saggetto poco conosciuto di Rilke, si chiama Appunti sulla melodia delle cose - ed è al momento praticamente introvabile in commercio, come molte belle cose, ahimé.

Il saggio parla, tra le altre cose, di pittura. Racconta dei santi rappresentati nel Medioevo con i loro sfondi dorati, che li tengono lontani gli uni dagli altri come dal mondo che li circonda. Sono soli, qui santi, ognuno sul suo sfondo, incapaci di parlarci e di parlare tra loro.

Rilke li compara, per contrasto, ai dipinti rinascimentali. Là i soggetti, anche secolari, invece, hanno dietro di sé strade e ponti, luoghi dove potrebbero potenzialmente incontrarsi, dialogare, e amarsi, anche. Non sfondi dorati, ma colline, case, ponti e torrenti. Spazi interiori che sono spazi di dialogo.

È il mondo dietro, dice Rilke, lo sfondo su cui le persone esistono e vivono e a cui appartengono.

Rilke ne deduce che per capire le cose, e le persone, soprattutto, dobbiamo guardare il mondo che sta alle spalle. Alle spalle non perché sia passato, ma nel senso dello sfondo. C’è uno sfondo personale, che ci caratterizza. E poi c’è anche uno sfondo comune, su cui tutto accade.

È un altro modo per dire la visione dell’alto, the bigger picture. Riusciamo a vederlo?

Rilke però non si ferma ancora, va oltre. Lo sfondo comune è, dice, anche l’ora comune. Sì, perché siamo tutti una melodia. Siamo parti di un’orchestra, e non lo sappiamo. Dobbiamo solo imparare a suonare la nostra nota, al giusto tempo, per partecipare del tutto e così realizzare noi stessi.

Come diceva Ezio Bosso, che ho citato l’altra volta: più che andare d’accordo, siamo un accordo.

E noi? Siamo capaci di osservare lo sfondo e l’ora comune cui apparteniamo? È il lavoro di una vita.

Ma, banalizzando, pensiamoci: anche solo lo sfondo alle nostre spalle, quello che abbiamo negli incontri online che si sono moltiplicati in questi giorni, racconta molte più cose di noi di quanto non vorremmo, probabilmente. E non dite che ci sono gli sfondi artificiali, anche gli sfondi artificiali raccontano qualcosa, perché li abbiamo scelti.

Ovviamente il senso a cui allude Rilke va molto oltre questo significato letterale.

Ma il mondo dietro di noi, quello di cui parla Rilke, ci riporta subito da Daphne, con la sua finestra aperta sull’infinito, a Pavarolo.

 

11. E poi? Ancora una biblioteca…

C’è ancora un’immagine, nel saggetto di Rilke, che ci riporta all’inizio di questo nostro excursus ispirato a Goethe e Hadot.

Vi ricordate di Wenders e degli angeli in biblioteca? Bene, Rilke racconta, a un certo punto, di due ragazzi. Ragazzi che leggono, soli, in silenzio, in uno spazio normale e tranquillo.

Là si respira pace, serenità e amore per i libri, per la lettura. Chi ama i libri capisce che cosa voglio dire. I due ragazzi sono insieme nella stanza, ma le loro anime sono in giro per il mondo, per mezzo dei libri, dentro quelli, attraverso le pagine e i racconti che vi si dispiegano. La lontananza tra loro, però, non li separa, al contrario. Li unisce, come unisce un segreto.

Potenza della poesia e spazio infinito da cui guardare le cose. Per comprenderle tutte in un abbraccio gigantesco, che però – è questa la vera magia - è alla portata di tutti.

Ma chi è colui, o colei, in grado di vedere più cose? Di cogliere la connessione di tutte tra loro, nella melodia che le contraddistingue? Chi abbraccia più cose e persone, con il suo sguardo? Per Rilke è il poeta. Quello, o quella, che ama più di tutti, che coglie prima la bellezza e l’armonia delle cose.

Eppure, proprio per questo, il poeta è anche il più solo.

Ciò che vede lo può comunicare nelle sue poesie, ma non condividere in un vissuto semplice, faccia a faccia. Non con la facilità di tutti gli altri.

L’essere umano che è misura di tutte le cose, capita allora, che resti solo. Qui siamo di nuovo a Major Tom. Ma anche a Boris Yellnikoff (quello del film di Woody Allen).

E molto di più.

Faccio qui una piccola chiosa, molto rispettosamente.

Non è questo il luogo di addentrarmi in una speculazione teologica, ma vero è che, come nota Cacciari commentando la Resurrezione di Piero della Francesca anche Gesù risorto è solo. Risorge da solo. Almeno, per quel che ne sappiamo. Nel dipinto di Piero, tutti gli altri, intorno a Lui, non lo guardano. Lui li ha salvati tutti e loro non lo guardano neanche. Dove sono? Che cosa fanno? Le palpebre chiuse, dormono.

Fine digressione teologica. Cambiamo registro, torniamo al livello della quotidianità laica e terrena.

 

 

12. E per finire… una siepe!

Daphne, nel quadro, è sola. Possiamo presumere che non sia vero, che davanti a lei ci sia suo marito, intento a dipingerla. Però Casorati la dipinge da sola. L’esser sola di Daphne non è uno stato esistenziale di doloroso isolamento, è un’altra cosa. È uno stare dentro di sé, sostare in sé stessi, in silenzio. Potrebbe stare pregando, per quel che sappiamo noi.

La donna dà le spalle all’orizzonte. Eppure, è chiaro, quell’orizzonte è la sua anima: non qualcosa che si trova fuori, ma uno spazio interiore. Luogo precluso al nostro sguardo, ma molto vicino e chiaro al nostro sentire. Possiamo indovinarlo, questo luogo, guardando la finestra, alle sue spalle, e il paesaggio che da lì di spalanca.

Curioso invece come, per il quadro di Friedrich le cose stiano diversamente.

Chiosa. Il viandante di Friedrich è di certo l’opera più usata in filosofia per qualsiasi copertina o locandina che possiate immaginarvi. A quanto pare i filosofi si sentono a loro agio, con l’immagine di un uomo di spalle, che guarda la nebbia e non si vede in volto. Chissà come mai. Ma di certo gli eredi di Friedrich, se chiedessero i diritti ai filosofi, diventerebbero ricchissimi.

Ma torniamo a noi.

Curioso come, guardando l’opera di Friedrich venga in mente Leopardi. Il quadro di Friedrich e la poesia di Leopardi sono entrambe del 1819[ii]. Stesso anno, lo stesso concetto? Più o meno. È simile, certo, il sentire di Friedrich, a quello di Leopardi. Ma credo che, forse, a dire così, non si faccia sufficientemente caso a un dettaglio secondo me molto importante.

Quale? Lo scrivo subito: la siepe. Non c’è nebbia, per Leopardi, davanti all’infinito. C’è una siepe. Sembrerebbe quasi banale, una siepe in un giardino. Un limite posto dal caso, o dal giardiniere, ironicamente, allo slancio del poeta.

Ma qui qualcosa accade.

La siepe copre l’orizzonte, e così facendo fa rimbalzare lo sguardo all’interno, dove abita l’infinità, quella vera.

La stessa infinità che sta oltre le palpebre, chiuse, di Daphne a Pavarolo.

 

 @ Maria Cristina Strati



[i] Liberamente ispirato al libro di Pierre Hadot, Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, trad.it. Raffaello Cortina editore, Milano 2008

[ii] La poesia di Leopardi fu pubblicata nel 1825, ma la stesura è del 1818 - 19