Cosa resterà di quegli anni '90? Notti magiche e senso di realtà @FSRR


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Courtesy @FSRR 

ph. Giorgio Perrotino



In attesa della prossima inaugurazione a Guarene, nella sede torinese della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, fino alla fine di settembre è ancora possibile visitare una vivace mostra che ha per protagoniste alcune opere della collezione, tutte databili negli anni Novanta.

Da Airò a Gaglianone, passando per l’immancabile Cattelan, Vanessa Beecroft e Margherita Manzelli, la mostra permette al visitatore di riguardare in un unico percorso il cammino dell’arte contemporanea italiana dell’ultimo decennio del secolo scorso, attraverso le opere dei suoi maggiori esponenti.

Non solo in Italia, lo spirito degli anni Novanta, nell'arte, fu particolarmente affascinante. In generale, in tutti gli ambiti della vita e dell’economia serpeggiava un malcelato ottimismo. E anche il mondo dell’arte era ricco, pieno di sperimentazioni, di novità e di azzardi concettuali, cui però si affiancavano opere figurative dipinte con maestria e talento. Ma non c’era solo questo.


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ph. Giorgio Perrotino


Nella produzione culturale dell’epoca si avvertiva l’afflato di un periodo storico in cui tutto sembrava promettere un cambiamento in meglio, non soltanto a livello personale, ma mondiale, o cosmico addirittura (pensiamo all'avvento, proprio in quegli anni, del fenomeno New Age). Nel 1989 crollava il Muro di Berlino, portandosi via la cortina di ferro e la paura di una guerra nucleare. Quella fredda, di guerra, finiva per sempre, e molti credettero che quello fosse l’inizio di un periodo di pace destinato a durare per sempre.

Era l’epoca della fine delle grandi narrazioni, diceva Lyotard, la fine delle ideologie, mentre in libreria, in Italia, uscivano le Lezioni Americane di Calvino e Il pensiero debole. E tutto davvero sembrava diventare debole, leggero, privo di consistenza. La cosa meno minacciosa che si potesse immaginare.

Il senso di realtà si faceva più sottile, flebile, benigno. E così, un po’ tutti cominciarono a pensare che quello che sembrava un semplice epifenomeno della sempre crescente proliferazione dei media e delle immagini nelle nostre vite - la perdita del senso di realtà, appunto - fosse, infondo, un'ottima notizia. Più di un uomo di cultura ne era piacevolmente persuaso. Niente più guerre, né odio o divisioni: ormai nulla potrà più farci male. Ma le cose stavano proprio così?

Certo, gli artisti sembravano un po’ meno convinti, già allora. Le trovate geniali di Cattelan spiazzavano i benpensanti, mentre gli occhi profondi e muti dipinti da Margherita Manzelli parevano spalancati su qualcosa che non sapevamo dire, ma che appariva certo ben poco tranquillizzante.
Ricordo un episodio. Credo fosse il 2 agosto del 1990, se non erro.


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ph. Giorgio Perrotino




Il 2 agosto 1990 un filosofo che in quel periodo va per la maggiore, allora mio professore all'Università - di cui non faccio il nome – è invitato a partecipare a una trasmissione tv di politica e attualità, per dire la sua sulla possibilità di una imminente guerra in Iraq. L’Iraq, infatti, in quei giorni ha pensato bene di annettersi il Kuwait, e gli Stati Uniti, con l’Occidente tutto, non sono proprio d’accordo.
Bene, al filosofo viene chiesto se, secondo lui, quella che in seguito sarebbe rimasta nella memoria collettiva come la prima guerra del Golfo, scoppierà oppure no. Alla domanda, il filosofo risponde subito. Asserisce, con la più imperturbabile convinzione, che la cosa è assolutamente impossibile, dato che ormai le guerre ce le siamo lasciate alle spalle, insieme con le ideologie, le metafisiche forti del XX° secolo, il senso della storia e quello di realtà. Saluti a tutti, basta, finito, la guerra non può scoppiare e non scoppierà.
Il filosofo era carismatico e convincente. Anche per questo credergli non solo era facile, ma anche molto piacevole.

Bum. Fu allora che accadde.


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ph. G. Perrotino


Non un minuto prima, non un minuto dopo, in quell'esatto momento, mentre lui pronunciava quelle parole in tv, da qualche parte, laggiù, nel lontano Golfo Persico, incuranti della fine delle grandi narrazioni, gli Stati Uniti d’America fanno partire il primo bombardamento. È un evento, per quanto macabro, perché quello è il primo bombardamento della storia ad essere ripreso in diretta tv.

Sono quelle le prime bombe ad arrivare in casa nostra, con il loro bagaglio di (per noi) invisibile morte e disperazione verde luminoso: in diretta sui nostri schermi, molto prima che nei videogiochi, almeno tre anni prima che potessimo avere una Playstation (che fu inventata nel 1994) o un personal computer.

La scena, le due scene (il filosofo che parla e le bombe che cadono), vanno in onda anche su Blob la sera successiva. Noi studenti di filosofia siamo preoccupati per le congiunture internazionali, ma la coincidenza non può non strapparci un sorriso. Amaro, ma comunque un sorriso.

Ma, anche se non lo diciamo a nessuno, mentre sorridiamo e ci preoccupiamo, un brivido silenzioso, scorre lungo le nostre schiene. Può darsi che il mondo post moderno, senza ideologie e guerre fredde, non sia poi quell'oasi di pace che avevamo ingenuamente immaginato?

La verità era che il vero evento non erano né le nostre sperequazioni intellettuali, né, ahimè, la guerra in sé. La verità era che la guerra era andata in tv e, vista da lontano, non faceva neanche tanto impressione. Questo era il punto più grave, la svolta che stavamo prendendo, senza rendercene conto.

E infatti, nel frattempo, Cattelan sovvertiva mondi, gli occhi delle donne di Manzelli continuavano a fissarci inquiete. Dalle immagini di Vanessa Beecroft, altre donne spogliate, dai corpi freddi e anonimi, con le loro figure ripetute tante volte da sembrarci tutte uguali e senza identità, ci avvisavano di fare molta attenzione al mondo, a quello che stavamo diventando. 

E qui ho una domanda. Non è che l’arte contemporanea ci vedeva assai meglio della filosofia, già in quegli anni? Non è che, con la sua attitudine meno tranquillizzante, meno paciosamente seduta su sé stessa, l’arte forse aveva visto qualche segno in più, se non altro di alcune teorie filosofiche dell’epoca, di quello che sarebbe poi avvenuto nei decenni a seguire?

Con le sue lunghe e sensibili antenne, gli artisti avevano colto un rivolo di violenza, segno inconfondibile delle magnifiche sorti e progressive della storia, che cominciava a strisciare sul pavimento, come l’acqua che perde dalla lavatrice e tu non la vedi finché non è già troppo tardi e il danno è fatto.

Perché, è vero, la filosofia (o almeno il filosofo) in quel caso mancò il bersaglio, mentre le opere d’arte ci prendevano molto di più.

E, però, senza l’ausilio del pensiero, come avremmo potuto leggere e quelle stesse opere, farle nostre e interpretarle?

La morale della favola? Eh, niente. Alla fine, aveva ragione Kant: le intuizioni senza i concetti sono cieche. Ma i concetti, senza contenuto, sono vuoti.

Comincia ad esserci tutto questo, nelle opere d’arte degli anni Novanta.