Richard Avedon, Katharine Hepburn, actress, New York, March 2, 1955 courtesy @Harvard Art Museum |
Tempo fa nel corso di una lezione di arte e filosofia, ho mostrato la fotografia
di Katharine Hepburn a firma di Richard Avedon che vedete qui sopra.
La foto è bellissima. Anzi, la trovo meravigliosa. Il volto
dell’attrice appare in piena luce, ma solcato da ombre profonde che rendono l’insieme
scomposto, profondamente movimentato dall'emozione. Nonostante la violenza con
cui l’emozione si manifesta, le ombre che si creano sul suo volto risultano
plastiche e perfettamente armoniche. I capelli scomposti movimentano ulteriormente il quadro, arricchendolo di sfumature infinite. Ombre e capelli si contrappongono allo sguardo appuntito, dalle pupille ristrette.
Lo sguardo non è rivolto verso di noi, o verso l’obiettivo
della camera, ma di lato, come ad un possibile interlocutore. Sembra però che
l’emozione non si riversi completamente all'esterno, ma sosti, per così dire, dentro la
persona. Come se la Hepburn si fosse fermata qualche secondo per sentire, dentro di sé, l'emozione, o meglio il turbinio di emozioni che vanno dalla rabbia alla sopresa, alla paura, fino alla tristezza e al dolore. Tutto in un solo fotogramma. La foto indaga, scende in profondità, e allo stesso tempo rende
elegante ed esteticamente sublime persino la rabbia.
Beh, quando mostrai questa immagine a lezione, accadde una
cosa che suscita più di una riflessione.
Come la vide, dal pubblico, un signore di una certa età saltò subito sulla propria sedia e disse: «Ma questa foto è sbagliata!»
Un brivido percorse la mia schiena. E, sì, era inverno,
ma non era un brivido di freddo.
Una foto sbagliata? Una foto di Richard Avedon «sbagliata»?
Attenzione, quella persona non si limitava a trovare la foto
brutta, o non di suo gradimento, cosa che sarebbe stata legittima, magari non
condivisibile, ma legittima. Dire «non mi piace» sarebbe stato diverso. Saremmo
rimasti sul piano soggettivo.
Il mio interlocutore, invece, si è spinto molto più in là e
ha ritenuto: 1. Di poter correggere Avedon e 2. Di poter quindi, eventualmente,
fare meglio di lui.
Uhm. Qui si solleva una questione. Si possono criticare i grandi
maestri? Sì e no. Si possono certo criticare, ma a patto di saper argomentare
la nostra critica.
In altre parole, non perché Avedon è un fotografo famoso e
importante, siamo obbligati a farci piacere tutto quello che ha fatto. Ma il
mio interlocutore non disse, per esempio, che la foto era datata, non
interessante o fuori luogo, magari adducendo una qualche argomentazione,
riferendosi a qualche contesto o idea, o lettura particolare.
No, no, la foto per lui era proprio «sbagliata». Punto.
Il fatto è degno di un commento.
Beh, la prima cosa che viene in mente potrebbe essere
Socrate, il quale sosteneva, come si sa, che il saggio è colui che sa di non
sapere. Ok. Già solo per il fatto che l’immagine porta la firma di un autore
tanto riconosciuto, io al posto di quel signore una domanda me la sarei posta.
Perché, anche se non vanno di moda i maestri e la cultura,
resta che se un personaggio del genere ha prodotto qualcosa che io non capisco,
per prima cosa cerco di capire se qualcosa mi manca, se c’è qualcosa da
imparare. Poi eventualmente potrò dire che la foto, per esempio, non è di mio
gusto. Ma dire che qualcosa è “sbagliato” ha tutto un altro significato.
Facciamo un passo indietro.
Esistono le foto sbagliate? Certo, esistono le foto venute
male, quelle in cui non ci piacciamo, o che non ci piacciono. Ma l’ambito in
cui si può dire con qualche senso che una foto sia “sbagliata” è però
necessariamente circoscritto a quello dell’esperienza quotidiana o, al massimo,
professionale. Questo perché, a rigor di logica, qualcosa può essere sbagliato
soltanto se abbiamo uno standard di riferimento con il quale confrontarlo e
quindi verificare la sua esattezza.
Quindi, se ci serve una fototessera, oppure dobbiamo
documentare qualche fatto specifico, come la bocciatura sul cofano della
macchina, o qualche altro caso del genere, dobbiamo fare una fotografia che
soddisfi la nostra necessità del caso. Allo stesso modo, ci sono fotografie che
hanno uno specifico fine professionale, come le fotografie di moda o da
utilizzare in un certo contesto promozionale o di marketing. Se un cliente mi
chiede un certo effetto e io non lo rendo, beh, ho commesso un errore.
Ma quando parliamo di arte, o almeno di fotografia d’autore,
come possiamo dire che una fotografia è “sbagliata”?
Sbagliato è qualcosa che, secondo il vocabolario Treccani è:
«fatto o eseguito male». Ma poi, secondariamente, soprattutto: «non esatto, non
conforme alle regole».
Il mio interlocutore pensava quindi che: 1. Avedon avesse
eseguito male quello scatto, ma soprattutto; 2. Quello scatto non era conforme
alle regole, e quindi era inesatto. Altresì, (questa è irritante) Avedon avrebbe voluto fare una foto diversa e migliore, ma non ci era riuscito.
La domanda interessante che ne sorge è dunque questa. Se la
fotografia è un medium utile all'espressione artistica, nel quadro dell’arte
contemporanea, quali sarebbero le regole alle quali avrebbe dovuto attenersi?
Le regole elementari dell’utilizzo di una camera, o di
composizione di un’immagine, sono sicuramente utili ai principianti. Ma,
proprio come tutte le altre cose che si imparano vivendo, guai ad attribuire
loro una validità incontestabile e assoluta, pena la perdita di qualsiasi
possibilità di invenzione o anche solo interpretazione creativa.
Attenzione. Ciò non deve indurre gli aspiranti fotografi a
fare semplicemente di testa loro, attribuendosi da sé lo status di artisti a
cui tutto è concesso, o anche solo di autori.
Un po’ come accade in tutte le esperienze esistenziali di
una persona adulta, il fatto è che le regole vanno imparate, per poi riuscire
ad emanciparsene, mentre il procedimento inverso (cominciare sovvertendo regole
che si conoscono superficialmente) raramente porta frutto.
Il punto, però, che più di tutto mi ha colpito di quella
esperienza, è ancora un altro.
La persona che ascoltava la lezione, con quell’intervento,
ha rivelato un atteggiamento a dire il vero molto diffuso.
Egli stava paragonando quello che ascoltava a lezione con ciò
che già sapeva. Se le cose coincidevano, ne era soddisfatto; diversamente era
convinto di trovarsi di fronte ad un errore.
Credeva, insomma, di possedere una incontestabile la verità.
La conoscenza del mondo per lui, quindi, non era che la verifica DEL MONDO, per
vedere se andasse bene. L’idea di mettere in gioco le proprie conoscenze, la
propria visione del mondo, non lo sfiorava neppure.
Così facendo, però, quella persona si precludeva a priori
qualsiasi possibilità di imparare qualcosa, non parliamo della possibilità di
mettersi in gioco personalmente.
Perché fa riflettere questa cosa? Perché ne parlo?
Non mi interessa poi molto del singolo esempio, è chiaro che non si tratta di qualcosa di personale. Il fatto è interessante ad un altro livello. Perché
un meccanismo simile a quello attuato dal mio interlocutore accade di continuo,
e pericolosamente, in molti ambiti culturali e sociali.
La televisione, i media in generale, ci hanno abituati a
relazionarci alle cose e forse anche alle persone in questo modo assolutamente
chiuso. In breve: se le informazioni che ricevo, in parole o immagini,
corrispondono alle idee che ho già preso per buone in altre occasioni, ciò mi
crea soddisfazione, mi fa sentire intelligente, mi piace e approvo. Se invece
ciò che vedo non conferma o mette in discussione ciò che già ho
in testa, vado in crisi. Anzi no, pur di non andare in crisi, semplicemente
divento impermeabile a qualsiasi contenuto.
Così, l’informazione inaspettata, invece di suscitare
curiosità, o al massimo un sano spirito polemico, produce una sorta di
avversione, tanto più violenta quanto più l’informazione differisce dalle mie
convinzioni. Mi convinco che il concetto che non avevo già nel mio bagaglio
culturale, sia semplicemente “sbagliato”, per la sola ragione che non l’avevo
previsto, o al massimo «troppo difficile», senza neanche provare a comprendere
e ampliare la propria mentalità.
Cartesio diceva che la verità era la corrispondenza della
proposizione alla cosa. E, beh, parafrasando Cartesio, possiamo dire che, per chi
fa così, invece, la verità è piuttosto la corrispondenza della cosa con quello
che “si sa già”.
Non è inquietante?
Credo che proprio per questa ragione l’arte contemporanea, e
la fotografia quando è utilizzata come mezzo espressivo in quel contesto, siano
tanto preziose e interessanti.
Perché sono spesso “sbagliate”, e inquiete, e mandano
all'aria tutte le cose che diamo per scontate,c che crediamo di sapere e avvertiamo
come rassicuranti, ma che spesso altro non sono che metaforici paracadute, utili soltanto ad evitare di metterci davvero in gioco nelle
cose che facciamo e che impariamo.
Che cosa risposi all'osservazione di quella persona, nel corso della lezione?
Beh, a dire il vero nulla. Un sorriso è bastato. Poi ho provato a spiegare l'immagine e il contesto in cui era inserita.
Ma, certo, lo sguardo infuocato di Katharine Hepburn, con la sua
luce e le sue ombre, parlava meglio di me.