Tu mi rubi l’anima. O se no, la foto profilo. Paolo Cirio @FSRR

Paolo Cirio 2019
Courtesy @FSRR e l'artista
ph. Giorgio Perrotino



Hai quei capelli tutti in giù, ma non sei tu, ma non sei tu. Così cantavano negli anni Settanta (?) o giù di lì i (per noi oggi) trashissimi Collage.
Ma c’era anche un film ormai di qualche anno fa, ispirato alla figura di Sabina Spielrein, psicoanalista prima paziente e poi amante di Carl Gustav Jung, che esprimeva un’idea simile.

Ok, è chiaro. Al netto dei progetti faustiani di varia natura, rubare l’anima di qualcuno, se non si è in un film gotico, non è mica possibile.
Però l’idea di un legame fotografia/anima rimanda subito ad un’idea molto diffusa, almeno a quanto comunemente si dice, nelle civiltà mediorientali: quella che la fotografia rubi l’anima delle persone.

Sarà vero? Uhm. Ovviamente no. E tuttavia le cose cambiano in modo inquietante quando la fotografia di cui stiamo parlando è quella che usiamo come foto profilo dei social e se, invece dell'anima, pensiamo alla nostra identità.

D'accordo, la foto profilo può essere vecchia (o visto settantenni mettere foto di sé stessi da coscritti, giuro), o magari di dieci o venti chili fa. Oppure può essere scherzosa, o semplicemente falsa (io al momento ho come foto profilo di facebook un fumetto della strega Samantha, fate voi).

Ma il punto, è chiaro, è un altro. La foto profilo, e soprattutto il profilo, forse non rappresenterà la nostra anima, ma certo ha a che fare con la nostra identità e con la nostra persona (uso il termine nel senso di Jung) sociale.

Paolo Cirio fa un lavoro strano, intelligente, complesso.

Per qualche anno si diverte ad hackerare social, rubando a destra e a manca le identità delle persone. A un certo punto le iscrive tutte a un sito di incontri rosa. Insomma, gioca con le loro identità virtuali. Lo fa, però, non per goliardia, ma per uno scopo artistico: per dimostrare con la sua opera quanto i confini delle nostre identità siano flebili, inconsistenti, facilmente minacciabili.

Ironicamente, e in modo arguto, l’autore pone poi a ciliegina sulla torta del progetto, come fossero opere a loro volta, le varie diffide, lettere di lamentele e altro, riprodotte come fossero quadri da appendere, appunto, alle pareti di un museo.

Che ne è dunque della nostra identità nell'epoca dei social network? Siamo davvero noi quelli che si affacciano dal frame sopra i nostri profili? Siamo davvero noi quei profili? O c'è altro? A voglia, certo che c'è altro...
Ma, ancora, a chi affidiamo le nostre storie, i nostri messaggi più o meno privati, ma anche i nostri dati, le foto dei nostri cari, e la memoria dei nostri ricordi? Ne resterà per sempre traccia nella rete, delle nostre vite, oppure esse svaniranno per sempre, come lacrime nella pioggia?

Insomma, se i filosofi si interrogano sulla domanda «chi siamo?» più o meno dai tempi in cui si scriveva a fatica su una tavoletta di pietra, nella nostra epoca la faccenda non si fa certo meno seria. Già non era facile rispondere a questa domanda ai tempi di Socrate (che, infatti, si rifiutava di lasciare tracce scritte della propria dottrina, come si sa, e forse aveva già capito qualcosa), figuriamoci ora. 



Paolo Cirio 2019
Courtesy @FSRR e l'artista
ph. Giorgio Perrotino


Viviamo in un mondo in cui spesso la realtà supera la fantasia, e la fantasia, indispettita, si vendica e prende possesso della realtà in modi che non avremmo neppure immaginato solo fino a qualche anno fa.

Perciò il lavoro di Cirio è un gioco pieno di ironia, ma anche tragico. Perché mostra come, moltiplicate all'infinito fino a svuotale di senso, rifratte negli specchi dei vari social le nostre identità prendono quasi vita propria. Una vita a noi parallela, che ci coinvolge ancora, per paradosso, magari nelle conseguenze legali o personali, ma di cui perdiamo troppo facilmente il controllo reale. 

Come dire che rubare l’anima magari non si può, ma alle nostre identità digitali occorre fare molta, ma molta attenzione. 
Ché poi, con quei capelli tutti giù, magari non sei nemmeno tu. Per dire…