L’altro giorno sono passata per caso davanti alla vetrina
di CRAG, in via Giolitti, a Torino. Guardando dalla
vetrina le fotografie esposte all’interno, mi sono incuriosita. Così sono
entrata e mi sono fermata a guardare.
Ho visto una mostra affascinante e delicatissima, fatta di
immagini in bianco e nero molto particolari.
L’autore è Daniel Pype (parigino, classe 1949) e le immagini
sono fotografie di opere d’arte antiche, soprattutto sculture, scattate nel
Museo del Louvre, a Parigi, in due fasi temporali distinte. La prima fase
comprende immagini scattate nel 1987, la seconda nel 2017.
courtesy @ Daniel Pype e la galleria |
Tutte le immagini sono prese dalla macchina fotografica
senza ricorrere ad una illuminazione artificiale. La luce che illumina volti e
forme delle statue, o gli occhi sempre desti degli antichi dipinti, è semplicemente
quella che penetra dai vetri delle finestre del museo.
È una luce flebile, notturna, talvolta. È luce naturale del
sole o luce artificiale della città.
Il fotografo attende, come Crazy Boy della canzone di Samuele Bersani, aspetta che il museo si svuoti, che le
luci si spengano, e comincia a cercare angoli illuminati dalla luce che
penetra dalle finestre, per fotografare i lavori. Il museo dorme, ma le opere
sono ancora lì, respirano, forse dormono o partecipano alla vita cittadina. Paiono
attendere il mattino nuovo quando sarà aperto ancora una volta l’ingresso ai
visitatori, per essere viste, esistere, parlare ai loro occhi e ai loro cuori.
courtesy @ Daniel Pype e la galleria |
Tra il 1987 e il 2017 ci sono in mezzo trent’anni,
trent’anni in cui le tecnologie della fotografia si sono modificate
radicalmente. Tra le due serie di immagini scattate da Pype cambia infatti la
percezione della luce, delle forme, al cambiare dei mezzi fotografici con cui
le foto sono scattate.
Guardando questa mostra, mi è venuta in mente un film del
1991, s’intitolava Les amants du Pont-Neuf, con Juliette Binoche per la
regia di Leos Carax.
In quel film c’è una scena molto poetica e bellissima, in
cui Juliette Binoche, nei panni di un’artista clochard in procinto di perdere
la vista per sempre, con l’aiuto del suo amante entra di notte nel museo del
Louvre per vedere il suo quadro preferito, in questo caso un autoritratto di
Rembrandt del 1660.
frame dal film Les Amants du Pont Neuf di Leos Carax, 1991 |
Non c’è altra luce per lei che quella flebile di una candela.
Troppo poco per i suoi occhi che non vedono più così bene, ma abbastanza per
imprimere quei colori e quelle forme nella memoria. E lei vuole guardare più
che può, per memorizzare per sempre quelle immagini nel suo cuore. Se non può
vedere, tocca il quadro con le sue dita.
courtesy @ Daniel Pype e la galleria |
Così fa la macchina fotografica di Daniel Pype (che non
fotografa Rembrandt, ma altre opere, però con lo stesso effetto del film di
Carax). Pare toccare le forme delle opere, sculture o quadri, accarezzarle
dolcemente, senza turbarne il sonno e il respiro. Per restituirle ai nostri
occhi in uno sguardo rubato. Sembra, quelle opere, di averle spiate nel sonno,
se non fosse per i loro occhi aperti, che si rivolgono a noi come domande
aperte.