Tunga, Jodorowsky e l’alchimia @Galleria Franco Noero

Installation view della mostra di Tunga presso la Galleria Franco Noero 2019
courtesy @Galleria Franco Noero, ph. S.Pellion di Persano 




Come spesso accade per l’arte contemporanea, per comprendere e apprezzare la mostra di Tunga in corso nella sede di Piazza Carignano della Galleria di Franco Noero occorre impossessarsi di alcuni strumenti interpretativi, che aiutino a decifrare il linguaggio poetico dell’artista. Poi, tutto diventa estremamente semplice, anzi, molto diretto.

In mostra, ci troviamo di fronte a una quantità di opere che resistono a una classificazione semplificatrice immediata. Piante e foglie su cui sono riflesse immagini proiettate da video, mescolate con suoni e voci che leggono poesie. Disegni appena accennati, come ombre di ricordi. Sculture che evocano parti del corpo umano e che, come i disegni, sollecitano l’immaginario erotico. Due marionette, una di quarzo e una di spugna, appese al soffitto proprio all’ingresso della mostra.
Il linguaggio di Tunga è poliedrico e variegato. Artista brasiliano purtroppo recentemente scomparso, egli pone al centro del suo lavoro l’alchimia e l’esoterismo filtrati dalla cultura popolare del suo paese d’origine.

Per farsi un’idea dell’alchimia nella tradizione brasiliana, pensiamo a Paulo Coelho e al suo best seller internazionale, L’Alchimista. Che cosa raccontava quel romanzo? Di fatto, narrava un percorso iniziatico, in cui il protagonista apprendeva il linguaggio che lo avrebbe aiutato a decifrare l’Anima del mondo e quindi, con essa, il proprio personale destino.

Con le opere di Tunga capita un po’ la stessa cosa. Siamo noi, visitatori, coloro che devono apprendere un linguaggio e comprendere. Risultato finale sarà certo un avvicinamento alle opere. Ma anche, soprattutto (e almeno un po’), la capacità di vedere un po' più a fondo dentro noi stessi.

Installation view della mostra di Tunga presso la Galleria Franco Noero 2019
courtesy @Galleria Franco Noero, ph. S.Pellion di Persano 


Ok. Ma in che modo decidiamo di comprendere? Il modo qui potrebbe fare la differenza. Possiamo infatti decidere di apprendere questo linguaggio alchemico - affine a quello del sogno e fatto di piante, materie antiche, suoni, colori e magie - cercando di decifrarlo come faremmo con l’alfabeto di una lingua straniera, in modo estremamente razionale e conseguente, molto occidentale. Questo modo di procedere è quello che ci viene spontaneo, perché ce l’hanno insegnato a scuola e ci hanno detto che funziona molto bene. È il metodo più comune e considerato più efficace nella nostra cultura.
In questo caso, però, con questo metodo, rischiamo di impelagarci in un mare di oggetti/materiali da decifrare, e presto ci troveremmo a sguazzare dimenandoci tra codici e rimandi più o meno cervellotici, che nemmeno il protagonista di A Beautiful Mind. E alla fine non ci raccapezziamo più di tanto.

Conviene allora adottare un metodo diverso, forse meno ortodosso, ma più creativo. È l’arte di Tunga che lo chiede. Decidiamo, allora, di lasciarci trasportare, di fidarci, e abbandonarci al flusso di colori, rimandi e sinestesie di cui le opere, come antichi rituali, si compongono. Proprio come in un sogno lucido. È questa l’alchimia.

Perché, che cosa facevano gli alchimisti? Cercavano la pietra filosofale, cioè quella pietra che rendeva oro tutto ciò che toccava e che insieme era il tramite magico tra due mondi: quello razionale, oggettivo, con cui facciamo quotidianamente i conti, e quell’altro, quello misterioso, sovrannaturale, immateriale ma non meno concreto.

Così Tunga prende del quarzo (materia dura, catalizzatrice di energia e di elettricità, limpida e riflettente) e della spugna (materia porosa, morbida, cedevole, ma non meno catalizzatrice di energia) e ne fa due marionette.

Installation view della mostra di Tunga presso la Galleria Franco Noero 2019
courtesy @Galleria Franco Noero, ph. S.Pellion di Persano
 


Che cosa sono le marionette? Mi permetto qui una piccola digressione.
C’è un saggio famoso di Heinrich von Kleist sul teatro di marionette. È scritto in forma di dialogo, e racconta di due persone che vedono uno spettacolo di marionette in piazza e ne discutono insieme. Muovere una marionetta è un’attività priva di senso, meccanica, dice uno. Non è vero, dice l’altro. Per muovere le marionette occorre individuare il centro di gravità della bambola, attorno a cui tutto si muove. Tra quel centro di gravità e la mano di chi manovra, si crea un canale speciale, un movimento. Il centro di gravità della marionetta è come la sua anima e ciò che “passa” attraverso i fili, dalla mano di chi manovra lassù in alto, fino a quel centro, è la grazia.

La grazia è la grazia del movimento del ballerino, certo, ma è anche la grazia nel senso mistico e vitale. Ad essa si contrappone la meccanicità del movimento di un corpo morto, proprio come quello di una marionetta. Eppure, questo è il paradosso, la marionetta, come colui che perde il controllo apparente sul proprio movimento interiore, in extremis recupera proprio quella grazia che pareva perduta. Come i mistici che, annullando sé stessi, si ritrovavano poi ad un livello più alto e profondo.

Le due marionette di Tunga, di due materiali così diversi, sono quindi in un rapporto dialettico. Per alcuni versi antitetiche, per altri in perfetta armonia, simboleggiano la vita e la grazia. E il centro di gravità che ipoteticamente muove le due marionette è un luogo di grazia, un centro poetico che è anche materia e corpo.

Perché di certo, al centro della poetica di Tunga, insieme con la poesia, c’è il corpo. Un corpo in cui grazia ed eros si toccano e s’intersecano l’una con l’altro, incessantemente.
Così, se da un lato i disegni appena accennati, sono come ombre o ricordi, le sculture nelle altre sale evocano visioni di parti del corpo umano come mescolate alla rinfusa, in un mix di sensazioni ed esperienze sinestetiche. È come una visione magica, un incantesimo che restituisce al cervello le sollecitazioni che arrivano da colori, profumi, percezioni di forme e di suoni, ma come nei sogni, in ordine sparso.


Il risultato è qualcosa di imprevedibile, che rigetta le spiegazioni troppo razionali e rigide. Qualcosa che parla più all’anima, al cuore, alle viscere, prima ancora che alla ragione.
Credo che, per ben comprendere il lavoro di Tunga, sia d’aiuto avere presente quella che Jodorowsky chiamava la psicomagia. Ovvero, quell’attitudine a occuparsi del benessere interiore delle persone attraverso le immagini, i gesti rituali, le impressioni visive e auditive.

Così, nella mostra tu compi il percorso espositivo, ti immergi nel sogno dell’artista, che diventa il tuo. Lo segui, ti lasci guidare in un vortice di sensazioni, impressioni e suggestioni che sollecitano corpo e anima. Allora tutto respira, è pieno di grazia e poesia, ed è vivo.

Sono certa che a Tunga sarebbero piaciute queste parole di Alejandro Jodorowsky:
«Non mi piace la gente la cui mente non sa riposare in silenzio, il cui cuore critica gli altri senza sosta, la cui sessualità vive insoddisfatta, il cui corpo s’intossica senza saper apprezzare di essere vivo. Ogni secondo di vita è un regalo sublime».