Ludovica Carbotta, installation view di Monowe courtesy @ Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ph. Giorgio Perottino |
Avete riconosciuto la citazione nel titolo del post? Ok, chi
di voi ha detto «Ah sì, la canzone dei Nirvana!», esca immediatamente da questo
blog e si copra il capo di cenere.
The Man who sold the world è una canzone di David Bowie,
risale al 1971 (i Nirvana ne fecero una cover negli anni Novanta) e racconta di
un personaggio fantastico, a metà strada tra un alieno, qualcuno che viene da
un al di là molto metafisico e una visione onirica. Questo tipo vive in una sorta di
solitudine cosmica. Il che, paradossalmente, lo rende potente in modo sovrumano
e, soprattutto, perturbante, perché glacialmente, perfettamente in controllo di
sé stesso. Ma nessuno che vive nel mondo, che con il mondo voglia relazionarsi
potrà mai essere completamente in controllo di qualsiasi cosa.
Chissà che cosa pensa di questa canzone Ludovica Carbotta –
ricordiamo, insieme con Lara Favaretto, sola presenza italiana convocata a
Venezia da Ralph Rugoff per la Biennale 2019.
Alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Ludovica Carbotta
ha dato vita a un’installazione molto particolare dal titolo Monowe.
Ho detto installazione, ma non è esattamente così. Si tratta
piuttosto di un progetto che si compone di più lavori. Il progetto è quello,
molto sci-fi, di una città costruita per un’unica persona, sola. Da qui la
citazione di Bowie.
Intanto, è da precisare che il progetto Monowe è un work in
progress, di cui l’artista ha già presentato frammenti in varie occasioni. È
come una città che crea i suoi luoghi come episodi di una serie, via via, di
volta in volta aggiungendo qualcosa.
In mostra c’è The City Museum, del 2016, ma anche il Tribunale
(2019). C’è la porta di ingresso, ma anche la fabbrica e altro ancora. Sono
strutture estremamente essenziali, realizzate con diversi materiali, dall’aspetto
precario, come frammenti di un sogno. L’impressione, però, è potente.
La visione è duplice. Da un lato Monowe, nel suo complesso,
potrebbe descrivere metaforicamente una singola psiche umana, con i suoi momenti
esistenziali: il lavoro (la fabbrica), il giudizio (il tribunale) e così via. D’altro
canto, invece, la visione potrebbe parlare di una solitudine estrema, come una
scelta figlia del soggettivismo esasperato imperante nella nostra epoca. Per usare
dei termini filosofici, potremmo dire che in un caso la solitudine di Monowe è ontologica, nell’altro esistenziale.
È un incubo? Una fantasia di onnipotenza e super controllo,
come nella canzone di Bowie? Sembra un episodio di The Twilight zone, ma invece
è un progetto artistico molto intenso e, soprattutto, molto attuale.
Pensiamo al web. Quando, attraverso il
web, ci affacciamo sul mondo, quello che vediamo, thanks to Google e il suo
algoritmo, è una straordinaria amplificazione dei nostri stessi gusti, pensieri
e, quel che è peggio, ossessioni. Il web, così come i media in generale, e
soprattutto i social (vi siete accorti che non sono più tanto social-network, ma sempre più social-media?) ci restituiscono sempre più un
mondo talmente fatto su misura per noi, da rendere molto complesso prima di
tutto accorgercene, e poi confrontarci con tutto ciò che è “diverso”.
Paradossalmente, però, se oggi, da un lato, tendiamo sempre
più a costruire una visione del mondo solipsistica, allo stesso tempo non c’è
nulla che spaventi di più della solitudine. Mentre una sorta di narcisismo
iperbolico conduce a un isolamento profondo, la cosa che temiamo maggiormente è
trovarci fuori da una confortante identità di gruppo, soli con noi stessi.
E tuttavia, per la nostra salute mentale, è vitale che noi
impariamo anche a stare bene anche quando siamo soli con noi stessi.
Perché soltanto incontrando realmente la nostra interiorità
scopriamo chi siamo davvero e, quindi, possiamo relazionarci davvero con il
prossimo, con reciproca soddisfazione e profitto.
Che fare dunque?
Ludovica Carbotta, installation view di Monowe courtesy @ Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ph. Giorgio Perottino |
Nella metafora di Carbotta, la città costruita per una
persona sola appare a prima vista una specie di antitesi alla Città del Sole di
Campanella o alla Repubblica di Platone. Ma a ben guardare ci accorgiamo che Monowe
è anche, e forse soprattutto, un luogo interiore, un luogo mentale.
È, certo, il luogo di una immensa solitudine, ma tutto si
gioca sul senso che diamo a questa parola.
Cioran, per esempio, distingueva due tipi di solitudine. C’è
la solitudine del mondo, quella che ha a che fare con la mancanza di senso, con
il desiderio malsano e sempre, fortunatamente, frustrato, di controllo su tutto
e tutti. Ma poi c’è anche la solitudine interiore, che invece è produttiva e
creativa perché permette all’anima, stanca di sollecitazioni non sempre
desiderate o utili, di ritrovarsi, rigenerarsi e rifiorire. Per poi tornare al
mondo tutta piena di energia.
Questa solitudine, a differenza della prima, rinuncia al
controllo, e gode di sé quanto basta per regalare una visione del mondo rinnovata, lucida
e sana.
Allora sì che, come diceva Giorgio Gaber, la solitudine non è mica una follia. È indispensabile
per star bene in compagnia.