Jac Leirner e la filosofia in 4 punti @GalleriaFrancoNoero




Jac Leirner, installation view
Courtesy @the gallery and the artist



Jac Leirner (1961) è tra i più importanti artisti contemporanei del Brasile. Il suo lavoro si ispira a diverse correnti: dal costruttivismo brasiliano, all’arte povera, al minimalismo. Nella mostra in corso nella sede di Piazza Carignano della Galleria Franco Noero, a Torino, visitabile fino al prossimo 6 aprile, sono esposte diverse opere. Sono lavori che si amalgamo con lo spazio espositivo, trasformandolo e abitandolo in modo di volta in volta nuovo.

Quello di Leirner è un lavoro molto intenso, che mi ha suscitato una serie di possibili paragoni e rimandi a teorie filosofiche, tanto da non saper quale scegliere per meglio articolare una riflessione sul suo lavoro.

Ho pensato, perciò, di raccontarle tutte. Sono quattro.


Jac Leirner, installation view
Courtesy @the gallery and the artist




1.   Martin Heidegger e le cose che non funzionano


Avete presente quello che capita quando, per esempio, scopriamo che il nostro treno è in ritardo? Oppure quando qualcosa che usiamo tutti i giorni e che riteniamo indispensabile - come la macchina, o il cellulare o la bicicletta - si rompe o smette di funzionare? 

Quando succedono queste cose, difficile che la prendiamo con filosofia. Più facilmente ci sentiamo perduti. Tuttavia, in realtà, proprio l’imprevisto ci ha aperto uno spiraglio sul mondo e la sua verità. 
In altre parole, la sensazione di "perdere il controllo" è sana, in qualche modo, proprio perché noi il controllo sul mondo, sulla realtà che ci circonda, davvero non ce l’abbiamo, mai, anche quando crediamo il contrario. Questo perché siamo esseri finiti, mortali, infinitamente esposti al nostro proprio destino, anche preferiamo dimenticarcene.

Così. quando l’oggetto che normalmente abbiamo sottomano, a disposizione per l’uso quotidiano, che diamo per scontato tanto che non lo guardiamo neanche più, si guasta e smette di funzionare, in noi si genera rabbia, o persino un sottile senso di angoscia. 
Contestualmente però, quell'oggetto improvvisamente si rivela come apertura possibile di un mondo. L’incanto della finzione quotidiana, del nostro stare al mondo che dà tutto per scontato e si perde nella chiacchiera, finalmente si spezza.

Lo diceva Heidegger in Essere e Tempo (1927). L’oggetto, l’ «utilizzabile intramondano» che non funziona più. è come l’anello della catena che non tiene delle poesie di Montale.
Leirner lavora con oggetti trovati, di preferenza raccolti in quei luoghi- nonluoghi in cui trascorriamo fin troppa parte delle nostre vite, come ad esempio gli aeroporti o altre zone di passaggio. E li trasforma in altro, lasciando emergere da loro insospettate possibilità.
Può succedere anche con noi?


Jac Leirner, installation view
Courtesy @the gallery and the artist



2.   James Hillman. L’anima degli oggetti, e dei luoghi, e la nostra

Quelli raccolti da Leirner per le sue opere, sono oggetti prodotti industrialmente, molto diffusi. Sono chiavi, lucchetti, righelli e portachiavi. Oggetti senz’anima, come direbbe James Hillman, normalmente svuotati di senso, eppure rivolti all’uso quotidiano, destinati semplicemente a funzionare, prima ancora di essere, restando muti di ogni poesia.


La prima cosa che Leirner fa è decontestualizzarli, portarli via - anche a costo di sottrarli, ché tanto sono piccole cose senza importanza.
Così, ciò che era frutto di uno studio industriale, di design, orientato dalla produzione, in cui nessun dettaglio è lasciato al caso, improvvisamente trova un altro destino, oltre la sua originaria funzione.

Questo è certo un procedimento creativo, ma non è solo questo.

Quando James Hillman (1981) parla del fare anima, parla della bellezza e dell’armonia delle cose. Dal suo punto di vista, nel modo in cui noi percepiamo gli oggetti si gioca qualcosa di fondamentale per noi. Più ancora della coscienza dei propri sentimenti o stati interiori, conta il rapporto con il mondo che ci circonda, prima di tutto con le cose che abitano il nostro spazio insieme a noi e lo connotano.
L’attenzione alle cose, a come sono fatte - a come sono ora, per me che le osservo e le utilizzo - è salvifica, poiché ci riconduce nel presente, nel nostro essere ora e qui, ed essere così.
Questo è il primo passo: prendere l’oggetto, vederlo per quello che è, oltre il suo contesto e la sua originaria funzione.
Poi c’è un secondo passo. L’oggetto si moltiplica, diventa multiplo a sé stesso. Il risultato non è l’ossessione, ma la generazione di uno stato energetico.


Jac Leirner, installation view
Courtesy @the gallery and the artist
3.   Deleuze e Benjamin. La piega, le pieghe

Sulla ripetizione diceva qualcosa del genere Deleuze ne La piega (1988). Come le pieghe che ritornano su loro stesse nel panneggio senza fine delle opere barocche, così nei lavori di Leirner si genera una sorta di infinito ritorno sullo stesso punto, più e più volte, in un meccanismo di ripetizione potenzialmente inesauribile. 
Così, proprio come accade per la piega di Deleuze, non si generano da sé quei punti oscuri che funzionano come serbatoi di senso, di segreto, moltiplicatori di senso e, appunto, energia. Tra le pieghe dei multipli, nel gioco delle ripetizioni, avviene dunque qualcosa.

Benjamin diceva che con la riproduzione tecnica delle cose, e delle immagini, l’aura dell’opera d’arte andava per sempre perduta. Leirner sembra sostenere esattamente l’opposto.

L’oggetto, una volta decontestualizzato, è moltiplicato all'infinito. Ma il multiplo, lungi dal sottrarre il senso, ne genera uno nuovo. La moltitudine di uno stesso oggetto, magari in colori diversi, in forme in parte dissimili, più lunghe o più corte, più larghe o più strette, crea in chi osserva un fruttuoso spaesamento. Il multiplo, la ripetizione, creano l’aura invece di cancellarla.


4.   La misura di tutte le cose. Da Protagora ad Heidegger, passando per Chico Buarque

Curiosamente, Leirner nella mostra da Noero sembra privilegiare oggetti che hanno a che fare con il gesto del misurare: bolle, righelli.
E con quelli l'artista misura lo spazio, crea diagonali, dritte, curve.

Ecco che l’oggetto che non ci diceva nulla, ora ci dona la misura del nostro spazio, del nostro muoverci in esso e attraversarlo.
Ma lo fa in modo non regolare, non matematico, con libertà, tendendo verso un’armonia che non si lascia cogliere immediatamente.

Protagora, nel tempo più antico, diceva che l’essere umano è la misura di tutte le cose. Di quelle che sono in quanto sono e di quelle che sono in quanto non sono.

Misurare è calcolare. Ma non tutto si può calcolare o misurare, qualcosa, per fortuna, sempre sfugge al calcolo, alla misura. È lì, avrebbe forse detto Heidegger, che si gioca l’essenza poetica del nostro stare al mondo.

Sfugge alla misura e al calcolo quello che Calasso definisce l’ardore, quello che gli antichi persiani chiamavano la himma. Di nuovo, energia, calore.

Oh che sarà che sarà quel che non ha governo, né mai ce l’avrà, quel che non ha rimedio, né mai ce l’avrà, quel che non ha misura, così diceva Chico Buarque* le passioni dell’animo umano. 

Gibt es auf Erden ein Maaβ? Es gibt keins** diceva Hölderlin.


Per info sulla mostra: www.franconoero.com





* tradotto in italiano da Ivano Fossati
**C’è sulla terra una misura? Non ce n’è nessuna