Michael Armitage, Kampala Suburb, 2014 courtesy @ Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e l'artista |
Non calpestare i fiori
nel deserto.
È un tamtam da un capo all'altro
del continente, un passaparola di suoni che unisce
la gente che cerca in questo deserto un po'
d'acqua da bere e la trova, è la cultura che
si rinnova e si sviluppa dove ha più sofferto. Non calpestare i fiori nel deserto!
È un tamtam da un capo all'altro
del continente, un passaparola di suoni che unisce
la gente che cerca in questo deserto un po'
d'acqua da bere e la trova, è la cultura che
si rinnova e si sviluppa dove ha più sofferto. Non calpestare i fiori nel deserto!
(Pino Daniele, 1995)
Alzi la mano chi non ha pensato che, volendo parlare di una
mostra che si chiama The promised land
in un blog che si chiama Filosofia pop!, non mi sarei lasciata scappare la
citazione ultra-pop di una vecchia canzone che tutti ricordiamo. E invece no, niente
Ramazzotti (troppo prevedibile, tra l’altro). Mi è venuto in mente Pino Daniele,
però. Lo leggete sopra. Un po' di pazienza e poi dico perché.
La mostra di Michael Armitage, ospitata negli spazi della
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino fino al prossimo 26 maggio, porta appunto
il titolo The promised land. La terra
promessa.
Terra promessa significa molte cose. Per la Bibbia, nella
tradizione ebraico-cristiana, è la terra, appunto, promessa ad Abramo. È un
posto dove non essere più schiavi, è un senso di appartenenza, di pace. È la
terra della speranza, dove sogniamo di vedere realizzati i nostri desideri, e,
forse più ancora, di vivere in pace e in armonia con noi stessi e con il
prossimo, placando i timori e le ansie per il futuro.
Michael Armitage, Mangroves Dip, 2015 courtesy @ Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e l'artista |
Michael Armitage è un artista keniota, classe 1984. Il Kenya contemporaneo è stato teatro di situazioni sociali e di guerre terribili. Questi aspetti risaltano nell’opera di Armitage, che con fare da moderno Gauguin (ma anche un pizzico Matisse, vah), su grandi tele, dipinge insieme il dolore e la speranza che scorrono nelle vene della sua terra e della sua gente.
Le tele stesse su cui Armitage dipinge, sono particolari: nascono dalla corteccia degli alberi. I lavori portano così con loro, fin nelle trame della materia di cui sono fatti, la memoria di un mondo immerso nella natura, che con la natura ha un rapporto di sangue, fisico, imprescindibile.
C’è l’esperienza personale, la memoria collettiva e sociale, il racconto, la leggenda e il fiabesco, il folklore e la visione del mondo keniota ereditata dai media. Tutto si mescola, si confonde, così come si confondono, sapientemente, i diversi piani narrativi attraverso cui l’artista ci permette di leggere il suo racconto.
Michael Armitage, Hope, 2017 courtesy @Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e l'artista |
Se Gauguin coglieva l’esotismo di mondi lontani con lo spirito del turista, Armitage è rappresentante di quel popolo africano e di quella storia in prima persona. La sua è la coscienza di un mondo, che quel mondo ha di sé, e che diventa testimonianza.
Ma nelle tele di Armitage c’è tutta la coscienza dell’individuo contemporaneo, non solo africano. L’interesse di un artista infatti, in generale, non è solo in sé stesso, ma in quello che sa dire a tutti, universalmente.
In questo senso, la mostra dà il polso di un periodo storico, il nostro, in cui che lo vogliamo o no tutto si mescola, e le culture si confondono e si trasformano l’una con l’altra. E allora, nei lavori di Armitage, il dolore e la voglia di rivalsa dell’Africa diventano l’energia e la
voglia di rinascita di un mondo che soffre e cerca nuova linfa vitale non solo
in Africa, ma ovunque.
È la cultura che si
rinnova e si sviluppa dove più ha sofferto, non calpestare i fiori nel deserto.
Capito perché mi è venuto in mente Pino Daniele?