φαινόμενα @Guido Costa Projects

Manuele Cerutti, 2018 , courtesy @ l'artista e la galleria



Capita di trovarsi nella posta il comunicato stampa di una mostra che riporta fedelmente, invece di un testo critico qualunque, un brano della Critica della Ragion Pura del buon vecchio Immanuel (Kant).
A parte chiedermi chi, tra i destinatari, se ne sia subito accorto, dato il tema di questo blog e l’argomento delle mie ricerche a cavallo tra filosofia e arte, non potevo certo esimermi dallo scrivere di questa mostra.

Partiamo dal principio. La cosa in sé. La cosa in sé, da Guido Costa Project, è una collettiva che riunisce vari talenti torinesi, (ex?) giovani, coltivati e curati dalla galleria negli ultimi anni. Sono i fratelli De Serio, Diego Scroppo, Hilario Isola, Manuele Cerutti e Tom Johnson.
Ciascuno di loro presenta un lavoro che compendia il personale percorso di ricerca degli ultimi tempi.
La cosa in sé, qui, ha questo primo senso: è il nocciolo, diciamo così, del lavoro.

Così Gianluca e Massimiliano De Serio presentano un video, trasmesso su vecchi monitor di televisione con vecchie cassette VHS – con tanto di rumori, fruscii e altri effetti. Nel video, seguiamo il viaggio di un piccione viaggiatore che torna dalla sua amata. Perché, come si sa, monogami e fedeli, i piccioni sono disposti a percorrere strade anche lunghissime, ma tornano sempre dal (o dalla) partner che si sono scelti. Noi vediamo il volo del piccione in soggettiva, poiché una videocamera è stata posta al suo collare, al posto del messaggio. Il suo volto è costante, un movimento ipnotico, altalenante. Una prospettiva dall'alto, per un lavoro intenso, certo coinvolgente, persino romantico. 
La cosa in sé, nel video dei De Serio è quindi anche l’amore vero, quello che per lo più si sogna.

Hilario Isola dipinge con la frutta trascorsa, consumata dal tempo. Come una specie di Arcimboldo a-parte-post, ricava volti e storie da tracce di ortaggi andati. Poi c’è anche una mela, cava, dorata come quella delle favole, anzi, che ricorda quella di Paride ed Elena, che fece arrabbiare Afrodite. C’è anche un gioco di piani nell'allestimento. Ciò che è cavo sembra venire in superficie, ciò che si gioca in superficie sembra sprofondare in secondo piano. 
La cosa in sé qui è anche la traccia, l’essenza, ciò che resta del frutto della terra, quando il tempo passa.

Tom Johnson propone invece una performance. Mette in gioco il figlio e il padre. Nonno e nipote costituiscono, così, una scia, un percorso di tradizione, tramandamento, il cui termine intermedio è l’artista, il suo dialogo con il mondo e con l’arte. Qui, in questo punto, si situa l’opera, l’azione della performance. 
La cosa in sé è, allora, il valore che non passa, l’affetto che rimane, il DNA delle cose che si imparano, che non si ricordano soltanto, ma che si tramandano di generazione in generazione come gemme preziose.

Diego Scroppo lascia invece che i funghi sul muro si moltiplichino, vivano, disegnino forme. Poi li ricava dal muro, li porta sul foglio, li chiude in una teca. Il fungo muore, ma il suo disegno resta. E l'opera è lì, tra vita e morte, moto e inerzia. 
Attenti alla cosa in sé: qui la cosa è la cosa, ciò che cresce da sé, sul muro, (nell’anima?), voluto o non voluto, creando disegni e trame, inevitabilmente, che si voglia o no.

Infine, Manuele Cerutti propone un quadro. Un’opera figurativa, l’unica. Costruita da visioni, somma di prospettive, di sguardi in tempi diversi, di oggetti che non stanno bene insieme, che, dopo averci fatto credere di essere semplici soggetti di un quadro, mostrano incongruenze e creano vuoti e ci sorprendono. 
Qui la cosa in sé è rappresentata in ciò che manca.

In questo, l’opera di Manuele Cerutti è la più kantiana tra i lavori esposti. Perché non ostende nulla, anzi, mostra quello che c’è da mostrare e a un certo punto basta, non mostra più nulla. Lascia intendere, ma non dice. Non perché scelga il silenzio, ma perché non c'è più nulla da dire. Ci porta fino sulla soglia di ciò che conosciamo e ci lascia lì, perché altro non possiamo sapere, né fare o sperare. Però questo ce lo dice: oltre non possiamo andare, ma fino qui sì, e vediamo che cosa c'è, è questo il punto.

Per Kant la cosa in sé, si sa, è il noumeno, quello che non possiamo conoscere, che non ci è dato. E se il noumeno non ci è dato da conoscere, però, ci resta il fenomeno, quello che s’inscrive nelle strutture delle nostre facoltà conoscitiva. Ciò che, mentre noi sappiamo, facciamo e speriamo, semplicemente, appare.


Per informazioni sulla mostra: www.guidocostaprojects.com