Elogio di Elliott Erwitt (e dell'im-perfezione)

Elliott Erwitt, France. Provence. 1955
immagine presa dalla cartella stampa on line della Venaria Reale



La perfezione stanca. È noiosa e, anche se piace a certi filosofi, dove c’è perfezione, dove si è giunti alla perfetta armonia, si è arrivati anche alla fine, alla stasi, alla morte. Una cosa, anche un’immagine, infatti, per essere perfetta deve essere finita, conclusa in sé stessa. Ma se è finita e chiusa in sé stessa, possiamo immaginare che cosa accade. L’immagine (ma anche il libro, la parola, qualsiasi cosa che sia produzione dell’ingegno e della creatività umana) cessa di parlare, semplicemente perché non ha più niente da dire.
Che cosa tiene invece in vita le immagini? Quando ancora qualcosa le muove. Come l’ironia, per esempio, che rompe la monotonia della perfezione inserendo un elemento fuori dal coro, che spezza il discorso e lo riapre.
Diremo allora che è veramente bella un’immagine solo quando è (im)perfetta. Cioè quando lascia uno spiraglio aperto. Aperto per che cosa? Per il racconto, per l’immaginazione.
Allora l’immagine si apre a noi. Ci interpella, ci diverte, ci commuove.

Se si facesse un sondaggio su quale sia il più amato tra i grandi fotografi viventi, credo che lo vincerebbe di certo Elliott Erwitt. Le sue immagini ironiche, intense, mai snobisticamente atteggiate a intellettuali, seppure ricchissime di riferimenti e molteplici chiavi di lettura, affascinano il pubblico e la critica.

Lo scorso 27 settembre 2018 ha inaugurato alla Venaria Realedi Torino una mostra dedicata alla sua fotografia dal titolo Personae, che proseguirà fino alla fine del prossimo febbraio. Meno di venti giorni più tardi, il 13 ottobre, ancora sua personale ha aperto al pubblico alle Scuderiedel Castello Visconteo di Pavia. E non finisce qui: il 22 settembre a Treviso, presso la Casa dei Carraresi, ha aperto una ulteriore mostra dedicata, questa volta, ai suoi celebri cani.

Elliott Erwitt ha compiuto 90 anni lo scorso 26 luglio, e a quanto pare, li porta benissimo. Soprattutto portano benissimo gli anni le sue fotografie, le immagini che la sua mano e soprattutto il suo occhio di fotografo hanno portato alla luce e ai nostri, di occhi.

Che cosa rende le fotografie di Erwitt così amate e popolari? Sarà l’ironia? L’irriverenza ben appuntita, ma mai volgare né sguaiata delle sue visioni?

Personalmente, amo molto le immagini di Erwitt e ho già avuto occasione di approfondire il suo lavoro con una particolare attenzione, appunto, al tema dell’ironia qui.

Il proliferare di mostre a lui dedicate, però, indubbiamente fa pensare.

Se da un lato si tratta senza dubbio di un caso felice in cui la popolarità e il successo di botteghino ben si sposa con la qualità e la sensatezza del lavoro esposto, sorge comunque il dubbio che in queste immagini ci sia qualcosa di più. Qualcosa di cui il nostro tempo sente il bisogno, avverte l’urgenza. Di che cosa si tratta?

Difficile dare una risposta definitiva. Più interessante è, invece, sollevare qualche domanda.

Prima di tutto, credo che quelle di Erwitt siano un caso molto virtuoso di immagini che si prestano a letture molteplici. Per molteplici non intendo qui variegate, ma progressivamente profonde. Mi spiego meglio: se c’è una lettura superficiale, magari simpatica, tra l’altro, del soggetto raffigurato, è pure possibile una lettura diversa, o più di una. Insomma, è possibile pensare queste immagini dal punto di vista della loro simpatia (anche nel senso del syn – pathos, cioè del sentire insieme, del sentire comune, che esse egregiamente interpretano) , vero, ma anche da quello della loro efficacia iconica, della qualità tecnica, e infine della loro composizione sempre euritmica, che coniuga come in pochi altri casi ironia e armonia.

Tuttavia, c’è sempre anche dell’altro. Le immagini di Erwitt conquistano – anche – perché si offrono sempre anche a una seconda lettura. Una lettura laterale, direi. C’è un soggetto principe dell’immagine, e ce n’è sempre un secondo, meno immediatamente visibile, che tuttavia ci parla.

La complessità dell’immagine, nonostante il primo livello di lettura semplice e immediata, capace di parlare a chiunque, syn-pathica, corrisponde a una sua ricchezza ulteriore. Un surplus che ci guarda dall’immagine, che ci invita a riflettere ancora su quello che vediamo, a guardare meglio.

Prendiamo ad esempio la fotografia scelta per presentare la mostra di Venaria, dal titolo France, Provence, 1955.

C’è una prima lettura, in cui vediamo due generazioni insieme su una bicicletta con un simbolo della cultura francese tra i più popolari: la baguette. L’immagine stessa sembra uscita da un film sulla Provenza. C’è la bicicletta, la persona anziana che porta con sé il bimbo, il pane tipico, la strada alberata di cipressi verdissimi.

Possiamo anche dare una lettura dell’immagine dal punto di vista della composizione, però, pensando magari che, forse, a livello limbico, è proprio questo aspetto armonico/compositivo che suscita piacere in chi guarda.

Allora vediamo l’alternanza di linee orizzontali tutte volte verso il comune punto di fuga posto, come “si deve”, all’orizzonte. Sono gli alberi, i segni sulla strada, il percorso della bicicletta.
Il movimento verso l’orizzonte è però interrotto da altre due linee, che rompono la sequenza e creano una tensione che risulta molto piacevole allo sguardo. La prima linea che si oppone al flusso continuo verso l’orizzonte è proprio la baguette, posta orizzontalmente alle spalle del bambino. La seconda, e più pregnante, linea, è quella che si disegna a partire dagli occhi del bambino, che guarda indietro, neanche fosse l’Angelo di Paul Klee, verso il fotografo e quindi, soprattutto, verso di noi.
Ci sono poi altre due linee, che ondulano tutta la prospettiva: quelle disegnate dai cappelli dei due. Uno inclinato da un lato, l'altro dall'altro. Quasi a indicare che qualcosa ondeggia...

E infatti non finisce qui...
Ecco che sul più bello, nel bel mezzo di tutta questa artistica armonia, compare un sasso.
Un innocuo sassolino sulla strada, proprio a un passo dalla ruota della bici, lungo il suo percorso, solo giusto un po’ più a lato.
Che cosa succede se ora il nonno (è il nonno del bambino quello alla guida della bici, vero? Noi tutti abbiamo pensato così) vira un po’ sulla sua destra? Che ne sarà di quella armonia di forme e di linee ordinate?
Ed ecco che quell’elemento semplice, umile, un semplice sasso buttato lì per caso (?) ha trasformato l’immagine in un racconto.
Sarà un po’ sadico, ma non vi strappa un sorriso, l’idea di vederli cadere, speriamo senza farsi male, imprecando in qualche dialetto della Francia del sud? Che ne sarà, allora, dei due personaggi (ora sono personaggi)? E della baguette che stanno portando a casa?

Dal titolo dell’immagine possiamo immaginare che si tratti di una messa in discussione (in ridicolo) dei luoghi comuni sugli usi e costumi d’Oltralpe, un po’ come se noi scherzassimo su pizza e mandolino. Oppure crederemo che Erwitt stia ironizzando sul proprio paese, e forse sul suo futuro? Oppure, ancora, l’immagine non è così triviale, ma parla di qualcosa di più comune e condivisibile anche per i non francesi, un avvicendarsi delle generazioni, per esempio?

A mio parere capire questo non è poi fondamentale. Ciò che più interessa, invece, è il movimento dell’immagine, il fatto che sia animata da elementi su cui possiamo esercitare la nostra immaginazione. Questo fa grande Erwitt.

Grazie a un semplice, innocente, sasso, la foto si è trasformata in un racconto. Un racconto che ha qualcosa del comico e una punta di tragico, come nella migliore tradizione umoristica, nel senso più profondo del termine.

Quale ricetta più sofisticata per costruire un’immagine meravigliosamente (im)perfetta?