Solo a momenti l'uomo conosce... Il calcio (e la filosofia)


la copertina del libro di Simon Critchley



Solo a momenti l’uomo conosce pienezza divina, sogno di essi è, dopo, la vita… È una frase del poeta tedesco Hölderlin, citata da Heidegger, che ha a che fare con il tempo. E che cosa c’entra con il calcio?

E beh, cominciamo a raccontare dal principio…  ho trovato questo libro di Simon Critchley sul calcio. Mi ha colpito per due ragioni. La prima è che Critchley è un filosofo che mi interessa molto, perché spesso e volentieri fa, nei suoi libri, quello che io intendo per Filosofia pop. In altre parole, la sua ricerca filosofica è trasversale, intelligente e molto agile. Riesce a confrontarsi con i miti, le realtà e i vissuti del mondo di oggi con uno spirito acuto e intelligente. Tocca temi non solo attuali, ma addirittura popolari, senza perdere profondità. Vorrei farlo anch’io, perciò seguo Critchely con interesse.

La seconda ragione è che conoscevo già Critchley come autore di un libro su Bowie (ne parlerò in un altro post!), e l’idea che ci fosse un filosofo attento non a uno, ma a ben due delle mie passioni personali (Bowie e, appunto, il calcio) ha profondamente stuzzicato la mia curiosità. Così, eccomi qui, a fornire ai lettori di Filosofia pop! un’idea di quello che troveranno nel libro di Simon Critchley, Che cosa pensiamo quando pensiamo al calcio (Einaudi, 2018).


Il libro di Simon Critchley Che cosa pensiamo quando pensiamo al calcio (Einaudi, 2018) sopra uno dei miei foulard 


È un fatto che il calcio sia oggetto di smodata attenzione, autentica passione e profonda carica emotiva come poche altre cose. È di per sé un fenomeno decisamente trasversale, che unisce persone di strati sociali e formazione culturale eterogenee. È perciò qualcosa che unisce profondamente, ma anche che divide (vogliamo parlare di quelli che anziché tifare per la propria squadra, preferiscono essere “anti”qualcosa?). Con il suo tempo scandito, del campionato e delle varie coppe, con le partite a orari (a dire il vero sempre meno) fissi, il calcio accompagna le nostre vite in modo costante e connota le nostre giornate di gioie e malumori più o meno intensi.


Per un amante della cultura antica che si diletti a guardare le partite, sarebbe facile avvicinare il calcio, la partita giocata, con tutta la sua ritualità fatta di inni, cori, regole precise del gioco, alle antiche tragedie greche, fenomeni culturali molto popolari al loro tempo. Ma secondo Critchel - e io in questo sono molto d’accordo - il calcio non ha le caratteristiche del teatro antico, se non in apparenza. Lungi dal convogliare e sciogliere le passioni in un salutare effetto catartico, il calcio non sospende il nostro tempo per farci entrare in quello della narrazione e ripulirci, per dir così, delle passioni distruttive. Altroché. Il calcio non ci rende migliori, anzi, tira fuori a volte la parte più stupida (superstizioni, scaramanzie, passioni illogiche e reazioni infantili varie che tutti noi ben conosciamo), a volte la peggiore dell’essere umano (penso ai vari episodi di violenza e simili).


immagine scaricata dal web 


I filosofi che ci aiuteranno a capire il calcio, dice Critchley, non sono dunque Aristotele o Nietzsche. Sarà Gadamer, invece, a venirci in aiuto, in modo particolare quando parla del gioco e della festa. Il gioco in quanto ci gioca, ci coinvolge e ci trascina in sé stesso e nel suo mondo ordinato da regole, come una danza perfetta. La festa, intesa come temporalità scandita del nostro tempo, la cui chiave è la ripetizione. Così come il Natale arriva tutti gli anni il 25 dicembre, a inizio giugno c’è la finale di Champions, in estate il calcio mercato, a tenerci occupati in attesa che finalmente, ad agosto, ricominci il campionato. Queste tappe, questi momenti dell’anno, hanno un senso nelle nostre vite, più di quanto immaginiamo. Le connotano, scandiscono mesi e stagioni, ci accompagnano e ci fanno sentire parte di una comunità.
Al contempo, anche la partita è fatta da riti ripetuti che devono essere sempre uguali: i giocatori che entrano in campo tenendo per mano i fanciulli e sfilando accanto al pallone-totem, gli inni con la mano sul cuore, gli striscioni, i cori, la monetina che vola a decidere il campo e il primo tiro… e così via.
Tuttavia, prosegue Critchley, la ripetizione va bene a raccontarci il tempo del calcio, ma non basta a spiegare la partita, l’emozione del calcio giocato in sé. Se è pur vero che, come diceva qualcuno, la partita perfetta è quella che finisce 0:0, dimostrando una perfezione tattica di entrambe le squadre, la meraviglia e la bellezza del calcio avvengono quando quel senso della ripetizione si spezza, si apre ad altro.
Ma dove accade questo? O meglio, quando? 

È qui che Critchley tira fuori Heidegger e il suo commento a Hölderlin. C’è il tempo della quotidianità e della ripetizione, nel calcio, ma c’è anche e soprattutto il tempo magico della meraviglia, quello che ci sorprende con un gesto improvviso di infinita bellezza. È questa l’idea del Kairòs, il momento opportuno. È l’idea che il tempo della nostra quotidianità tutta uguale a sé stessa possa essere squarciata da attimi che danno senso e grazia a(l) tutto.


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Nel calcio il “momento di pienezza divina” sarebbe il gol, il gesto tecnico perfetto e bellissimo, la magia che rimane impressa nella memoria per sempre. Anzi, il tifoso non ha paura di usare un termine poco usato, di questi tempi, in altri contesti apparentemente più appropriati: il gesto resta nella memoria, e anche nella Storia.
Così, come diceva il poeta: solo a momenti l’uomo conosce pienezza divina, sogno di essi è, dopo, la vita.

Questa la riflessione di Critchley. Mi piace e la condivido, ma, leggendo, mi sono chiesta che cosa fosse il calcio per me, se ci fosse ancora altro di cui parlare. Beh, ci sono senza dubbio molte cose di cui si potrebbe discutere, ma sono due, in particolare, le cose che vorrei dire.

Per prima cosa, per me il calcio è un momento molto speciale e… strano. Se normalmente credo molto nell’individualità, nella personalità che si distingue dalla massa e nell’unicità di ognuno, il calcio rappresenta per me invece il momento contrario. È sentirsi parte di qualcosa rinunciando a parte della propria identità personale o, meglio, riconoscendosi nel gruppo, nel “tutti insieme” in cui non siamo che voci di un coro. È bello e piacevole perdersi nel gruppo. Ma, per quanto mi riguarda, solo nel caso della Juventus. In tutti gli altri casi della vita – dalla politica, all’arte, alla filosofia stessa – me ne guardo bene e difendo con molta cura la mia libertà di pensiero e di elaborazione personale. Non è curioso? Suppongo sia una di quelle contraddizioni che piacevano tanto a Jung e sono grata, allora, al calcio, perché mi preserva dall’unilateralità, e dalla noia dell’essere sempre uguali a sé stessi!


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Ma poi, sempre secondo me, il calcio dice molte cose sul talento, e su come rendere proficue al massimo le qualità di ognuno, in ogni campo della vita e dell’arte e del lavoro. È metafora di come si possa esprimere se stessi a perfezione, non solo nel rispetto degli altri, ma proprio collaborando con la squadra. Essere insieme esaltando, al contempo, il valore di ciascuno. Perché solo dove il valore del singolo si accorda con quello della squadra la magia può avere luogo.
È un vero insegnamento, oserei dire morale, se il termine non suonasse così antiquato. Ma il calcio ci insegna come possa nascere un gesto di vera bellezza, espressione del talento di un singolo (sì, sto pensando a Cristiano Ronaldo, ma anche a Del Piero, a Platini, a Zidane… ), dalla collaborazione e dal dialogo con altre persone, con gli altri componenti della squadra, e solo in virtù di questo dialogo. Non è meraviglioso? In questo senso, ecco, credo che il calcio abbia molto da insegnare.