Il talento di Raffaello, Delacroix e le librerie




All'inizio dell'estate ho preso una decisione storica. Ho deciso che d'ora in poi non avrei più comprato i libri online, come facevo ormai quasi sempre da qualche anno, ma avrei ricominciato a frequentare quei luoghi per me che per me sono sempre stati magici: le librerie. Così, ho cominciato a farmi dei giri nelle varie librerie di Torino, devo dire traendone grande divertimento e piacere. (Anzi, la cosa mi è piaciuta al punto che mi piacerebbe in futuro fare delle degli articoli dei post sul blog dedicati appunto alle librerie di di Torino… ma di questo racconterò più avanti… per ora torniamo a noi…)
Uno dei vantaggi di comprare i libri in libreria, invece di ordinarli on line, è che si possono trovare cose che non avresti mai sospettato. In sostanza, quando tento di trovare un libro su internet, vado a cercare proprio quello che ho in mente, perciò resto nell'ambito di ciò che già conosco, che già, in qualche modo, mi appartiene. A peggiorare le cose, poi, grazie ai famigerati algoritmi e a una concezione tanto poco brillante quanto diffusa del marketing, facilmente online riceverò consigli per i prossimi acquisti libreschi secondo ciò che ho già comprato. Vedrò, perciò, cose che sono in qualche modo collegate a quelli che sono già i miei gusti, o le cose di cui mi occupo di solito. Risultato? Come in un giudizio analitico, non incontrerò mai nulla di nuovo.  
Andare personalmente a scartabellare in mezzo ai libri apre invece possibilità incredibili. A parte il fatto che trascorrere del tempo a lasciarsi stimolare da possibili letture è semplicemente molto divertente, non è soltanto questo: è anche un momento insostituibile di incontro con sé stessi. Ma c’è di più. Tornare alle librerie offline consente di trovare delle cose che magari non sapevi neanche che esistessero, oppure te ne eri scordata, e quindi permette di fare delle autentiche scoperte. Magari anche lasciandosi guidare, perché no, dall’istinto.



Raffaello, Madonna Sistina, 1512 - immagine presa dal web


È il caso di un piccolo saggio che ho trovato durante uno di questi giretti. Il titolo del saggio è Raffaello, l’autore nientemeno che Eugène Delacroix (ed. Castelvecchi, 2017).
Lo confesso. Non sono appassionata dei dipinti di Delacroix, anche se ne apprezzo ovviamente lo stile e l’energia tutta romantica. Ne ho persino già parlato in un testo a proposito di Jeff Wall e della fotografia, che potete leggere qui.
Però…


Eugène Delacroix, La Mort e Sardanapale, 1827 - foro presa dal web 



Ma chi ci pensava a Delacroix in questo periodo? Beh io no… ma vedendo questo libricino, di appena 32 intensissime pagine, mi sono incuriosita e l’ho comprato. E ho fatto bene, perché questa breve e acuta lettura, frutto di un incontro libresco occasionale, mi ha decisamente fornito qualche punto di vista interessante. Insomma, ho trovato delle cose che non avrei immaginato.

Ma andiamo al testo… per Delacroix, che in questo interpreta un sentire molto condiviso anche da noi oggi e non soltanto dagli esperti, Raffaello rappresenta quanto più nobile sia mai esistito nella storia della pittura di sempre. Ancora ai nostri giorni, il suo nome è avvicinato a uno stile inconfondibile, e soprattutto a un concetto di bellezza, e di arte, come perfezione formale e armonia quasi soprannaturale.
Se io penso a Raffaello, per esempio, oltre alla Scuola di Atene e alle mani di Aristotele e Platone, che compendiano in una sola immagine diversi tomi di Storia della Filosofia, mi viene in mente la vicenda di Dora e di Freud, per esempio. E questo fa capire fino a che punto la grazia della sua arte poteva andare in profondità nell’animo di ciascuno… Ma il riferimento alla psicologia a cui arriveremo grazie a Delacroix, come vedremo, è un altro…
Intanto Delacroix nota come Raffaello si distacchi dal cliché del genio incompreso. Al contrario di quanto pensiamo di solito dei grandi artisti la cui arte appare in tutto il suo splendore solo ai posteri, egli trovò sempre condizioni particolarmente favorevoli alla realizzazione del suo talento e della sua arte. Perciò Raffaello, dice Delacroix, non dovette far altro che produrre, senza essere costretto a lottare contro la moda o contro il pregiudizio. Fu perciò un pittore fortunato, anzi, Delacroix parla addirittura di una «benevolenza universale» nei suoi confronti.


Delacroix, autoritratto - foto presa dal web




A parte questo, Delacroix identifica come maggiori ispiratori dell’arte di Raffaello due giganti della storia dell’arte universale: Masaccio e Michelangelo. Il primo, molto meno fortunato dell’autore della Scuola di Atene, aveva liberato la figura dalle costrizioni formali che la imprigionavano precedentemente, donandole vita e movimento e inserendola in contesti spaziali arditi, come lo scorcio. Michelangelo invece lo colpì per l’imponenza, la grandezza e la forza delle forme e delle figure, che però in Raffaello si trasfigurano divenendo, pur senza perdere grandiosità, più eteree e aggraziate. Oltre a Masaccio e Michelangelo, Raffaello si ispirò poi ad altri artisti coevi e non, come i veneti, per esempio, da cui trasse sempre elementi particolari, che poi seppe interpretare e rendere in modo del tutto originale e personale.

Il talento di Raffaello, insomma, come una pianta dalle possenti radici e dai rami frondosi, prese a piene mani da ciò che lo circondava, traendo nutrimento e linfa vitale ovunque, per poi trasformare tutto con uno sguardo e un talento unico e personalissimo.
Ma – e qui arriva la cosa più importante - Delacroix nota che, per Raffaello, l’espressione del talento non appare mai come frutto di un’applicazione o di uno sforzo. Non c’è traccia di fatica, o macchia di difficoltà o dolore, nel suo modo di fare arte.
Insomma, per Raffaello l’arte era qualcosa che veniva facile.


Raffaello, La Scuola di Atene, 1508 --14 - foto presa dal web



Egli era capace di toccare vette inaudite, certo, ma sempre con una disarmante con naturalezza e semplicità, avvalendosi di modalità esecutive che non sembrano rispondere a nessun calcolo, a nessun pen(s)oso studio o applicazione laboriosa.
La sua mano, dice Delacroix, obbediva al suo talento come per istinto. E, come se non bastasse, egli aveva una quantità tanto vasta di idee straordinarie nella propria anima, che la scelta di quale mettere in atto e come, diventava per lui quasi impossibile. Raffaello realizzava, perciò, la prima idea che gli si presentava, un po' come Picasso quando diceva «io non cerco, trovo».
E come avrebbe potuto Raffaello fare una selezione tra le risorse della sua immaginazione, che erano tanto ricche e fiorenti? Quale meraviglia avrebbe potuto mai scartare? Qualsiasi scelta sarebbe stata almeno complicata… Quindi Raffaello obbediva semplicemente al suo istinto. Almeno secondo Delacroix, metteva tutto quello che gli passava per la testa, nei suoi dipinti. E tuttavia, attenzione, nella sua arte non c’è mai nulla di pesante, nulla di “troppo”.
Anzi, una delle caratteristiche tipiche di Raffaello è proprio la sua meravigliosa sobrietà, il suo senso della misura degno di Aristotele.


Raffaello, autoritratto 1505 - foto presa dal web



Nei suoi dipinti, il rapporto magico tra l'insieme il dettaglio, la più piccola parte e il tutto, è del tutto armonico. Raffaello dona nobiltà e grazia ad ogni particolare, integrandolo perfettamente nel contesto, e fa tutto questo con un'eleganza, dice ancora Delacroix, che non ha modelli da nessuna parte: «una pudica esuberanza, - dice il pittore francese - manifestazione terrena di un'anima che dialoga con gli dei».
Mai, in lui, ci si imbatte in quelle che Delacroix chiama con disprezzo, per dire qualcosa che riempie, che è funzionale alla composizione dell’opera e non ha senso in sé stesso, “figure in affitto”. Anzi, Raffaello non si preoccupò mai neppure di rifinire tutte le parti dei suoi quadri con zelo eccessivo, pare. E, tuttavia, fece sempre in modo che nulla restasse di freddo o inutile. Nelle sue composizioni, ogni singolo elemento è nel proprio giusto posto. Nulla, neanche il particolare apparentemente più peregrino, può essere spostato di un solo millimetro in un altro punto dell’opera, senza rovinare la bellezza dell’insieme. Come racconta Delacroix, al curioso che gli chiedeva come avesse fatto a raggiungere risultati così ammirevoli, Raffaello abbia semplicemente risposto: «non trascurando nulla».

Ma è proprio così? E se invece fosse vero che il genio non è, come ci hanno spesso insegnato, frutto dello sforzo e della fatica di colui che rema controcorrente, ma qualcosa che nasce spontaneo e fresco, come il fiore dal frutto? Per noi abitanti del XXI secolo, abituati a sudare correndo dietro a obiettivi inutili e standardizzati, questa facilità del genio di Raffaello potrebbe addirittura procurare un filo di antipatia. Ma sarebbe una visione troppo superficiale. L’idea del genio come la propone Delacroix parlando di Raffaello, è invece sorprendente, e fa riflettere.
A me hanno colpito molto favorevolmente. Mi sono venute in mente le parole di James Hillman ne Il codice dell’anima , quando parla del daiamon che ci guida, dal profondo della nostra anima, verso la nostra spontanea felicità e realizzazione. E, contrariamente a quanto saremmo portati a credere, lo fa, così, semplicemente, senza sforzo, solo seguendo l’anima e non trascurando nulla.*



*sul tema consiglio anche questo video di Raffaele Morelli