Che cosa significa pensare? L'arte di lasciare le domande aperte

Yinka Shonibare (2008) - immagine scaricata dal web @l'artista


Che cosa significa pensare? È la domanda che si pone Martin Heidegger in una serie di lezioni degli anni 50 del Novecento, raccolte più tardi in un volume. Ma soprattutto mi sembra la domanda giusta per cominciare a buttare lì, su questo blog qualche briciola di filosofia, provando a dire perché è interessante e addirittura appassionante.
Certo, dato che questo è un blog e per di più di natura dichiaratamente pop, non pretendo di fornire una dissertazione esaustiva del pensiero del noto quanto controverso filosofo tedesco (ma è poi possibile fornirne una lettura esaustiva? Chi lo sa!). Cerco piuttosto di cogliere alcuni punti, o spunti, magari, che secondo me dicono qualcosa di interessante non soltanto per i filosofi di professione, ma anche per tutti quelli che hanno voglia di sviluppare un pensiero critico (e quindi libero e indipendente) e provare, appunto, a pensare con un po’ più di consapevolezza di quanto normalmente i media ci invitano a fare.

Ma veniamo a noi.

Il primo passo che fa Heidegger quando si pone la domanda su che cosa significhi pensare ha a che fare con il fatto stesso di porsi una domanda. Qui la cosa è molto interessante, sentiamo che cosa dice Heidegger:

La maniera abituale di affrontare un problema è quella di fornirgli immediatamente una risposta. Ogni domanda guarda con diritto soltanto alla risposta e al fatto che una risposta venga trovata. La risposta risolve il problema posto dalla domanda. Noi stessi con la risposta siamo assolti dal problema.

Occorre stare nel problema, sembra dire Heidegger. Non cercare subito di scioglierlo, ma vederlo come problema e aspettare. Se ci facciamo caso, quello che capita il più delle volte intorno a noi – in tivù, sul web, nel nostro lavoro e anche nelle nostre vite – è esattamente l’opposto: c’è un problema? Cerchiamo subito la soluzione, il più velocemente possibile. Mettiamo a tacere ogni dubbio o istanza. E se il problema è un problema esistenziale, o che ci riguarda come persone, non esitiamo a metterlo a tacere anche ricorrendo alla chimica, magari a uno psicofarmaco o a una droga. Così dal problema siamo assolti, non ci tocca più, non ci riguarda. Ma questa fuga, questa “rimozione forzata” non serve molto. Credo che uno psicologo direbbe che questo atteggiamento nasconda un meccanismo di fuga, magari nell’incoscienza o appunto nella rimozione, che alla fine non fa che acuire i problemi, rendendoli più aggressivi.
Invece Heidegger la pensa in un altro modo. Lui dice che nel problema è meglio restarci un po’. Non per crogiolarsi nel dolore o nell’indecisione, tutt’altro. Facendo un passo indietro, Heidegger sta nella domanda. Non cerca una risposta, ma ascolta la domanda, la pone in quanto domanda. E poi la lascia lì, come un seme che deve crescere.
Certo, ci sono domande e domande. Ci sono domande semplici, che riguardano un problema o una questione pratica. Allora la risposta sarà veloce, efficace, automatica. Ma ci sono anche altre domande, altri problemi che chiedono prima di tutto di essere posti.
Infatti Heidegger dice:

La domanda “Che cosa significa pensare?” è di un genere diverso. Se chiediamo “Che cosa significa andare in bicicletta?” allora chiediamo qualcosa che chiunque sa. A chi ancora non sapesse che cosa significhi possiamo insegnarlo trattandosi di una cosa comune. Non così per il pensiero. (…) la domanda “Che cosa significa pensare?” non mira alla costruzione di una risposta che risolva nel modo più breve e diretto il problema posto. In questa domanda si tratta invece innanzi tutto e soltanto di una cosa: portare la domanda alla problematicità.

Che cosa significa portare la domanda alla problematicità? Credo che qui sia nascosto un senso molto profondo, che vale la pena di essere approfondito e pensato e che la dice lunga su quello che può fare per noi la filosofia.
Imparare a porsi le domande giuste, e imparare a lasciarle aperte, senza avere fretta di chiuderle, può essere un ottimo punto di partenza per capire che cos'è la filosofia, e che cosa può fare per ciascuno di noi.

Ma cominciamo a dire che cosa la filosofia, ahinoi, non può fare, almeno secondo Heidegger:
  •  Il pensiero non porta al sapere come vi portano le scienze
  •  Il pensiero non comporta una forma di saggezza utile alla vita
  • Il pensiero non risolve gli enigmi del mondo Il pensiero non procura immediatamente forze per l’azione. 
  • Finché continuiamo a subordinare il pensiero a queste esigenze, sopravvalutiamo il pensiero e gli chiediamo troppo. (…)


Con questo ci siamo tolti di torno un bel po’ di luoghi comuni. Mi soffermerei però sull’ultima frase. Heidegger dice che la filosofia non ci può dare la forza per l’azione “immediatamente”. Immediatamente no, quindi forse lo può in modo non immediato? Ecco una domanda che lascio aperta. Ma la lascio aperta in modo ammiccante, lo ammetto… perché secondo me è chiaro che il fatto stesso di imparare a lasciare le domande aperte, e a porle nel modo giusto, procura molta energia personale, fortifica profondamente, forse persino l’autostima. È un modo per mettersi in cammino sulla nostra strada.

Heidegger però va oltre e dice che:

Il pensiero stesso è un cammino. Corrispondiamo a questo cammino soltanto restando in cammino. Essere in cammino sul cammino per costruire questo cammino è una cosa. Altra cosa è invece accostarsi al cammino, arrivando da qualche altra parte, e giunti su di esso chiedersi, se e in che misura i tratti del cammino che nel tempo si sono aggiunti gli uni a gli altri siano differenti e nella loro diversità forse addirittura incompatibili, incompatibili per quelli che il cammino non lo percorrono mai, né si accingono mai a percorrerlo, ma restano al di fuori da ogni cammino, per limitarsi soltanto a rappresentarselo e a discorrerne.

Questo fanno un po’ i filosofi delle università, secondo me. Non basta parlare delle cose in maniera astratta, argomentare e poi argomentare le argomentazioni, all'infinito. Nei problemi, così come nelle domande, bisogna starci dentro, anche imparando a lasciarli aperti. Ma come fare ad essere in cammino? E che cos'è questo cammino che ha a che fare con il pensiero?
Heidegger dice che:

Per arrivare ad essere in cammino dobbiamo cominciare a muoverci. Questo in due sensi: da una parte nel senso che dobbiamo aprirci noi stessi all’apertura e alla direzione che il cammino stesso apre, dall’altra nel senso che dobbiamo recarci sul cammino, compiere cioè quei passi che fanno del cammino un cammino.Il cammino del pensiero non va da un luogo ad un altro luogo, come le strade che percorriamo abitualmente, né è qualcosa che si possa trovare in qualche luogo alla maniera di ciò che è semplicemente presente. Soltanto la marcia, e null'altro prima di essa – qui il porsi pensando a una domanda – è il movimento.

Stare nel cammino, quindi, camminare camminando, pensare pensando e porsi domande domandando. Sembra una banalità, ma a me viene in mente Alan Watts quando, commentando il pensiero Zen, e cercando di tradurlo in termini comprensibili agli occidentali diceva che la spiritualità non è pensare a Dio mentre si pelano le patate, ma pensare a pelare le patate mentre si pelano le patate. Ciò significa stare nelle cose, sostare nelle cose, anzi, così come nelle domande. Siamo capaci di stare nel pensiero in questo modo?



*** I libri citati in questo post sono
Martin Heidegger, “Che cosa significa pensare?”, Sugarco ed. 1996

Alan Watts, “Il Tao. La via dell’acqua che scorre”, Astrolabio 1977