Spilli fitti e punchball - Nicus Lucà


@courtesy l'artista

C'è una canzone di Fabrizio De André e Ivano Fossati che si chiama DolceneraParla della tragica alluvione di Genova del 1972, certo, ma parla soprattutto di un tipo di amore particolarmente nevrotico. In sostanza: un uomo innamorato è solo in casa, ma sogna di incontrare la donna che ama, e di farci l'amore. Lo sogna così tanto e così bene, che lui stesso ci crede e ci crediamo anche noi che, ignari, ascoltiamo la canzone. 
Solo giunti all'ultimo verso capiamo l'inganno. Che l'amore non c'è stato, che è stata tutta un'illusione.

De André stesso raccontava la canzone così:

"Questo del protagonista di Dolcenera è un curioso tipo di solitudine. È la solitudine dell'innamorato, soprattutto se non corrisposto. Gli piglia una sorta di sogno paranoico, per cui cancella qualsiasi cosa possa frapporsi fra se stesso e l'oggetto del desiderio.(...) Ed è talmente avventato in questo suo sogno che ne rimuove addirittura l'assenza, perché lei, in effetti, non arriva. Lui è convinto di farci l'amore, ma lei è con l'acqua alla gola. Questo tipo di sogno, purtroppo, è molto simile a quello del tiranno, che cerca di rimuovere ogni ostacolo che si oppone all'esercizio del proprio potere assoluto."

Mercoledì 5 luglio, per la rassegna Fuori Classe, curata da Daniele Galliano, presso lo spazio espositivo della Conserveria del Pastis, ha inaugurato la mostra TI AMO di Nicus Lucà. 

Le opere in mostra sono due, ma sono molto forti. E mi hanno fatto venire in mente la poesia, ops, volevo dire la canzone di De André.

La prima opera è un punchball di quelli che si usano per la boxe, appeso al soffitto. Rosso fuoco e pieno di scritte tutte uguali. Dice mille volte: ti amo, lo scrive come con un pennarello indelebile.

courtesy @ l'artista

Fa venire voglia di colpirlo, fa sentire tutta la passione che passa dal cuore, dal cervello e diventa azione fisica. L'amore forse negato, magari assente, che non sa fare altro che ripetere il proprio desiderio, affermandolo in una specie di delirio di onnipotenza, in un gesto disperato e sospeso tra voglia di vita e freudiana Todestrieb.

Certo, c'è l'ironia, il gesto che potrebbe essere nullo, fine a sè stesso, un mero sfogo che fa sorridere. Ma la drammaticità potenziale del gesto rimane, e in fondo il fatto che faccia sorridere non fa che accentuare la malinconia.

installation view della mostra presso la Conserveria del Pastis

La seconda opera rappresenta invece il chitarrista spagnolo di Manet (opera del 1860, attualmente conservata al Metropolitan Museum of Art di New York). 
Il soggetto di Manet è rifatto in apparenza in modo molto simile all'originale. Giusto un tratto scuro su fondo monocromo azzurro-blu. 

Ma a ben guardare, ci accorgiamo che il soggeto non è affatto disegnato, né tantomeno dipinto. E' invece composto di spilli. Spilli fitti come piccoli minuscoli punti, o tratti, posti pazientemente uno dopo l'altro, secondo un preciso disegno, a ripetere il capolavoro di Manet, con un gesto ossessivo, attento e preciso.
Gli spilli hanno anche un effetto tridimensionale, e giocano con il riflesso della luce, da certe angolazioni.
Ma è un po' come un rimasticare la storia, ripeterla, farla propria e impossessarsene, come una magia, secondo un gesto ipnotico, che ha qualcosa del rito e della composizione. 
L'opera è in sé stessa una rilettura attenta di un'opera d'arte antica. Il gesto di comporla con gli spilli suona però ossessivo e insistente, proprio come quello di ripetere mille volte Ti amo, magari tirando pugni in solitaria contro un muto e inanimato sparring partner.

La domanda è: ma siamo così noi, quando ci perdiamo dentro le opere dei grandi artisti del passato? Siamo noi che cerchiamo di piegare l'arte alla nostra interpretazione, come innamorati infantilmente tirannici e folli? 
E loro, le opere d'arte del passato, stanno lì a prestarsi docilmente al nostro meraviglioso, vasariano (ok forse sto esagerando, però...) disegno che tutto vuole spiegare? 
Oppure, invece, ci sollecitano, ci incorraggiano ad ascoltarle ancora e ancora, finché non avremmo compreso tutto ciò che hanno da dire al nostro tempo?