Fotonera, 1998, foto nera, supporto, 61 x 61 x 4 cm - Courtesy @l'artista |
Una premessa. In senso del tutto laico, ci tengo a precisarlo, mi ha sempre colpito
molto un brano del Vangelo (Mt 9, 1-8) in cui si racconta di un paralitico che
vuole a tutti i costi guarire. Cioè alzarsi e muoversi, invece di star fermo e
malato sul suo lettino. Già da questo dettaglio non indifferente, si capisce
bene che il paralitico non faceva sua la torinesissima definizione di bogia- nen. Ma va beh.
Ok. Allora, c’è questo paralitico che vuole raggiungere Gesù
perché lui lo guarisca. Siccome c’è troppa gente e non riesce a passare con il
suo lettino, il paralitico e i suoi amici che lo trasportano, mostrano una
caparbietà e una capatostaggine che dire encomiabile è poco. Sti qui pigliano,
salgono sul tetto, levano il tetto (beh non era in muratura, facevano
relativamente in fretta) e calano il lettino del paralitico da lassù, fino ai
piedi di Gesù. Gesù rimane colpito dalla cos. Secondo me deve aver sorriso e
alzato il pollice destro facendo l’occhiolino quando lo ha visto arrivare giù
dal tetto. E anche il paralitico deve aver sorriso. Ma andiamo avanti.
Così, il paralitico chiede di essere guarito. Gesù gli dice:
ok, ti sono perdonati i tuoi peccati.
E basta.
Tutti sono delusi. Ma come! Questo voleva qualcosa di
concreto, mica una cosa che non si vede. Non voleva guarire nell’anima, voleva
guarire nel corpo e camminare. Facile dire le cose che non si vedono, non si
possono nemmeno controllare! E sotto sotto, mah, forse ci stai prendendo in
giro e non è successo proprio nulla perché nulla è quello che si vede.
Gesù allora sospira e scuote la testa (ok, questo il vangelo
non lo dice, ma lo ho immaginato io) e, rivolto alla folla, fa: “Ma che cosa è
più facile dire: ti sono perdonati i tuoi peccati o alzati e cammina?” A quel
punto, solo allora, guarda il paralitico e gli dice: alzati e cammina. E quello
puntualmente, si alza, piglia il lettino in spalla (non glielo portano gli
amici, quelli che hanno disfatto il tetto, nota bene) e se ne va, si presume
dalla porta.
Ora, la domanda, nonostante le apparenze non è: ma chi avrà
pagato i danni del tetto sfasciato? No, la domanda è molto più interessante. E
non è questione di peccati o non peccati, morale o immorale, non si parla di
quello (anche perché secondo me Gesù era un tipo molto più rock’n’roll di
quello che ci vogliono far credere, ma questo è un altro discorso).
Stiamo parlando di ciò che si vede e di ciò che non si vede,
e, anche, della volontà, profonda e sincera, e semplice, di sollevarsi da una
situazione statica e potenzialmente mortale, per finalmente camminare e vivere.
La domanda è: se il paralitico non fosse guarito dentro. Se
non avesse avuto l’entusiasmo e la voglia sincera e semplice di alzarsi e
camminare, si sarebbe mai alzato? Secondo me no.
Ieri sono andata a vedere la mostra di Angelo Candiano da
Guido Costa Projects, a Torino.
Per la verità non so se la parola più giusta sia mostra, per definire ciò che accade nella sala espositiva di via Mazzini.
Per la verità non so se la parola più giusta sia mostra, per definire ciò che accade nella sala espositiva di via Mazzini.
Ciò che si vede esposto in realtà è molto poco. Non quadri o
figure strictu senso, ma carta
fotografica, con foto di foto stampate sopra. Carta fotografica che rapisce la
luce e le ombre e pazientemente le sedimenta e proietta sul proprio fondo,
anima, o macula interiore. E poi? E poi bisognerà attendere. Attendere per
vedere il risultato di questa proiezione, vedere che cosa la luce ha deciso di
lasciare come traccia del suo passaggio.
Ecco perché dico che questa non è tanto una mostra. Più che
altro è un luogo dove avvengono esperimenti, dove l’invisibile prevale sul
visibile. E il saper attendere che, infine, qualcosa accada. E farlo accadere.
Docente allo Ied di Torino Angelo Candiano è un fine
teorico, autore di libri e studi di pregio.
Il risultato del suo lavoro è qualcosa che stimola il pensiero, il
ragionamento. Che va oltre l’oggetto, certo, e ha più l’incedere dell’esperimento
scientifico. Tutto è molto razionale.
Questo sulla mostra. Dopo aver visitato la mostra, però mi
sono fermata a fare due chiacchiere con alcune persone, anche di passaggio. Si
è parlato di arte, del mondo dell’arte e della situazione attuale. Di chi
investe e chi no e di chi fa cultura e chi no. Di chi pensa che la cultura sia
per pochi, per chi ce l’ha già (ma ce l’ha?) e per chi pensa (come me) che la
cultura sia un bene comune e chi ce l’ha (se davvero ce l’ha) non è che possa,
ma deve, quasi per una sorta di imperativo categorico insito in quella passione
stessa, condividerla. Se no a cosa vale?
Il discorso poi è scivolato sulla città di Torino e sui
problemi dell’arte e la cultura qui da noi. Ho notato tristezza, mancanza di
entusiasmo, chiusura. Voglia alla fine soltanto di salvaguardare il proprio
orticello. La frase più ricorrente era “non ho più voglia”. Ok, può darsi pure
che fosse un modo neanche troppo gentile di sottrarsi a una possibile collaborazione
con persone con cui non si ha voglia, legittimamente, di collaborare. Ma quel “non
ho più voglia” suonava talmente convinto che stento a credere che sia così.
La domanda ancora una volta è un’altra. Perché per quante cose belle si siano
fatte in un passato anche recente e si sia capaci di fare, se manca quell’entusiasmo,
quell’anima, quella voglia di vivere, di scoprire il nuovo, di dialogare, tutto
quello che si è fatto fino ad ora a che cosa vale?
E, soprattutto, se non apriamo la mente e il cuore, prima di
tutto, alle altre persone, che arrivano con i loro bagagli di esperienze,
realtà, vissuti e idee e molto altro ancora, come possiamo poi sperare che
quelle stesse persone varchino le soglie delle gallerie (o delle aule
universitarie, o aprano i nostri libri, e ascoltino le nostre parole, è uguale)
per ammirare quel che facciamo e magari
per sostenerlo economicamente, cioè in sostanza darci addirittura i loro soldi?
Se non hai voglia di costruire e fare cultura per passione,
per caparbia volontà di fare cose belle, perché ti aspetti qualcosa e che cosa,
esattamente, ti aspetti?
O, in altre parole, se non hai alcuna voglia e non ti
interessa prendere dalle persone i loro discorsi, i loro interessi, la loro
attenzione e la loro voce, per quanto diversa dalla tua, per dire così, come
puoi desiderare che quelle stesse persone accettino poi di darti nientemeno che
addirittura i loro soldi?
Ripeto, che ti aspetti? Che qualcuno venga da te e,
riconoscendo la tua superiorità culturale, ti ricopra d’oro e ancora ti
ringrazi?
E perché dovrebbe farlo se tu non ha neppure voglia di
rischiare di perdere tempo a sentire come la pensa? Perché non dovrebbe
prendere quegli stessi soldi e comprarsi una cosa che si gode e gli fa piacere
invece, come una macchina, un vestito, un week end al mare? E infatti è così che fa. Ma come dargli
torto?
Pensiamoci. Entrare nelle gallerie per vedere le mostre è
gratis, ok. Ma non basta, perché la percezione di chi vi entra è che a chi sta
lì non interessa nulla di colui o colei che ha varcato quella soglia. Né cosa
pensa, né cosa dice. Nulla che non sia materiale. E questa sensazione è sì,
immateriale, ma si avverte e molto bene. E le gallerie restano vuote.
Ho sempre pensato che sia più facile dire “alzati e
cammina” che guardare dentro le cose. Perché il paralitico si poteva alzare
solo quando ha smesso di essere paralitico dentro, il fuori viene dopo. Solo dopo. (Figuriamoci i soldi! - spero che
cogliate l’ironia)
uno striscione al concerto di Vasco Rossi del primo luglio. Foto dal sito di Repubblica |
Tornando a casa, mentre pensavo queste cose (tralascio su un
incontro fortunato capitato sulla via e per puro caso, ma ciò probabilmente mi
è accaduto perché io l’entusiasmo ce l’ho, tié!). Dicevo, tornando a casa, ho
visto che tutto intorno a me, sui social e non solo, parlava di una cosa. Molta gente fremeva di
emozione e appunto entusiasmo, per un evento che avrebbe avuto luogo di lì a
poco a Modena.
Si trattava del concerto di Vasco Rossi, lo sanno tutti. (E
già qui… Appunto, lo sanno tutti, chi ha orecchi per intendere intenda).
Bene, premetto che io non amo Vasco. Non è nelle mie corde.
Tuttavia lo capisco e soprattutto capisco quelli che sono stati lì, frementi di
entusiasmo e voglia di emozionarsi fino a sotto la pelle, fin dentro le ossa,
per una serata intera. A sentire musica. Saltando, ballando, piangendo e
commuovendosi.
Lo capisco anche se a me non piace Vasco, perché mi emoziono allo
stesso modo per altri musicisti e credo che alla fine cambia la musica, sì, ma
la sostanza di ciò che si prova non cambia ed è bellissimo.
Ok. Mi sono chiesta se quella di Vasco è arte oppure no.
Penso di sì, che sia arte e che
meriti attenzione e credito, e interesse. E, attenzione, non perché populisticamente
piace a tanti - perché io penso che ci siano opere d’arte meravigliose che nessuno
conosce ed è normale, non è quello il punto. Non perché piace a tanti, ma
perché emoziona tanti.
Ok lo so, questo non fa di me una persona abbastanza snob. Sarà
un difetto?
Ma io penso che lì ci sia qualcosa. Perché quella è arte
viva, che fa vivere e dà (e non toglie!) energia al mondo, che è fatto di
persone.
Non è qualcosa che si vede a dare il senso di quell’arte, ma
quel qualcosa di invisibile che quell’arte sa dare. Che è energia e vita e
voglia di vivere.
La gente ama Vasco perché Vasco parla di loro, non parla di
sé. O meglio, perché parlando di sé, parla di loro. Quell’arte è arte perché parla
e prima di parlare ascolta, e quindi parla di sentimenti e vissuti
condivisibili che ciascuno può sentire come propri.
Tocca quel punto in cui ciò che è universale e ciò che è
personale si toccano. E l’artista sta lì, all’incrocio dei venti ed è bruciato
vivo, come diceva un altro grande poeta dei nostri giorni (De Gregori).
Bruciato, forse, ma vivo. Bruciato dalla vita, vivaddio.
Questo dovremmo pensare quando diciamo che “ci piace” l’arte
o che abbiamo una “passione”. Che qualcosa ti piace vuol dire che provi piacere
a farla e vuoi provare sempre cose nuove ancora e ancora. La passione trascina,
genera movimento, ascolta, si apre.
Se ti piace l’arte e hai la passione, ma non hai voglia, la
cosa non suona bene, per niente. Perché dove c’è invece chiusura, polvere
accumulata sull’anima come sui libri che nessuno legge più, sarà molto
difficile prendere alzarsi, prendere il proprio lettino e camminare. Vale per l’arte,
e per la creatività e per la vita in generale.
Certo, a meno che uno, sul lettino, alla fine, ci si trovi
pure comodo e decida di restarci. Immobile, chiudere gli occhi e dormire per
sempre. Pace all’anima sua. Ma allora lì il problema è un altro. E se è così,
beh che dire, questo – e, detto fra noi non il sesso o altre cose amene ;) - in
ogni senso, è davvero un peccato.