Pietro Privitera, #618 Contemplation - @l'artista |
C’era questo film molto carino negli anni novanta, si chiamava C’è posta per te e, ci tengo a dirlo, non aveva nulla, ma proprio nulla a che fare con Maria De Filippi. Era uno di quei gioiellini di Norah Ephron con Tom Hanks e Meg Ryan prima di sfigurarsi con il botox. Film delicati, ironici quanto basta, godibilissimi, leggeri ma capaci di dire qualcosa. Ricordate?
Beh la protagonista di questo film, Meg Ryan appunto, è una romantica lettrice
e libraia che scambia mail piene di belle riflessioni sul mondo e sulla vita
con un misterioso personaggio incontrato in chat. Ma non è di questa storia che
voglio parlare.
È solo che nel film a un certo punto lei dice una cosa che
mi ha sempre fatto sorridere, perché mi ci sono identificata alla perfezione.
A un certo punto lei dice che spesso le capita di incontrare
nella vita cose, situazioni o persone che le ricordano i libri che ha letto.
Succede anche a me, e se siete dei lettori appassionati o appassionati
frequentatori di mostre, capita di continuo anche a voi, ci scommetto.
Ma poi lei aggiunge una riflessione e dice: le cose della
vita a volte mi ricordano libri che ho letto, ok. Ma non dovrebbe essere il
contrario?
Uhm già. Come darle torto? Dovrebbe essere il libro a
ricordarci la vita, i personaggi a dirci qualcosa sulle nostre esperienze
vissute e non viceversa.
Però anche a me (che sono libresca), come alla protagonista
del film di Norah Ephron, capita più spesso il contrario. Vivo una cosa e
subito mi ricorda un libro che ho letto, o un film, o un’opera d’arte che ho
visto.
Ma pensandoci: davvero dovrebbe essere il contrario? Oppure
qui, su questo punto, c’è qualcosa di interessante da capire, che ci sfugge e
che riguarda l’arte, la cultura, la loro storia e noi? E per noi intendo
proprio noi, eh, occhio. Non noi come studiosi o come esperti, ma proprio le
nostre vite, gli affetti, il lavoro, le città, la quotidianità.
Pietro Privitera, #704 Metaphysical Hall @l'artista |
Ho sempre subito il fascino delle opere d’arte che si
mettono in dialogo con altre opere d’arte. Penso a cose tipo Picasso quando fa
Las Meninas di Velasquez, Jeff Wall che rifà Delacroix o Hokusai o altre celebri opere di arte après l'art. Ma mi interessa anche semplicemente le
numerosissime volte in cui un riferimento culturale che appartiene alla storia
dell’arte del passato emerge in un contesto contemporaneo, magari per farsi
portatore di messaggi, approfondimenti, argomentazioni che altrimenti non
sarebbero mai emerse e non così bene.
È un po’ la visione della storia e della memoria che piaceva
a Walter Benjamin, ripreso di recente da Georges Didi-Huberman nella sua teoria
sulle immagini.
In sostanza, secondo Benjamin il passato non è qualcosa che
ci siamo definitivamente lasciati alle spalle, e a cui possiamo guardare come
ad un oggetto finito, da catalogare, dato una volta per tutte. Inutile cercare
di diventare empatici con un mondo che non esiste più, né mettersi nei panni di
coloro che sono vissuti prima di noi. Il passato è da intendersi invece come
memoria viva, che io interpreto con gli strumenti del presente, e con lo scopo
di renderla operativa appunto nel presente.
In parole molto ma molto povere: ad esempio (esempio legittimo visto che Didi-Huberman si ispira anche al metodo psicoanalitico) se tento di ricostruire la storia della mia infanzia razionalmente, facile che racconti a me stessa una versione dei fatti non strettamente oggettiva, magari in buona fede e senza neppure accorgermene. Se invece una memoria giunge spontaneamente alla mia coscienza, può darsi che questa arrivi per portarmi un suggerimento, una suggestione, qualcosa che serve a me ora, per quel che sono adesso. Il passato è dunque in qualche modo sempre presente, vivo e operativo, perché denso di conseguenze.
Pietro Privitera, #696 Space Oddity @l'artista |
In parole molto ma molto povere: ad esempio (esempio legittimo visto che Didi-Huberman si ispira anche al metodo psicoanalitico) se tento di ricostruire la storia della mia infanzia razionalmente, facile che racconti a me stessa una versione dei fatti non strettamente oggettiva, magari in buona fede e senza neppure accorgermene. Se invece una memoria giunge spontaneamente alla mia coscienza, può darsi che questa arrivi per portarmi un suggerimento, una suggestione, qualcosa che serve a me ora, per quel che sono adesso. Il passato è dunque in qualche modo sempre presente, vivo e operativo, perché denso di conseguenze.
Se questo ragionamento è portato in ambito artistico le
conseguenze sono facili da immaginare. La storia dell’arte, ma anche della
cultura e del pensiero, si rivitalizzano, diventano una vera e propria cassetta
degli attrezzi, un tesoro inesauribile a cui attingere per interpretare e
leggere il mondo in cui viviamo in modo sempre nuovo.
La – necessaria – premessa è per dire che sì, aveva ragione Benjamin - e pure Norah Ephron, può succedere anche il contrario.
La – necessaria – premessa è per dire che sì, aveva ragione Benjamin - e pure Norah Ephron, può succedere anche il contrario.
Se è vero che le immagini della storia dell’arte sono sempre
lì pronte a suggerirci nuovi modi di leggere le cose, è anche vero che esse
sedimentano nel nostro inconscio, venendo a far parte del nostro comune e
condiviso bagaglio culturale collettivo senza che quasi noi ce ne accorgiamo.
Tutte queste cose me le ha fatte pensare una mostra molto
molto bella che ho visto che s'intitola Wundergram (cioé un po' Wunderkammer e un po' Instagram). L’autore della mostra è Pietro Privitera, la galleria
Photo & Co (una delle mie preferite a Torino, inutile star lì), i curatori
il gallerista Valerio Tazzetti e il mio collega di università filosofica, l’ottimo
Nicola Davide Angerame.
I bei lavori di Pietro Privitera nascono da una riflessione
su Instagram e un suo uso consapevole da parte dell’autore, che ha collezionato
una serie di foto scattate con lo smartphone per un lungo periodo di tempo.
La serie di foto esposte più intrigante è però quella che s’intitola
Coincidenze.
In sostanza, dopo aver scattato decine e decine di immagini,
l’autore le ha guardate, selezionate e catalogate secondo un criterio del tutto
particolare. È andato a cercare nelle immagini viste intorno a lui la storia
della fotografia. Quella inconscia, per così dire.
Che cosa vuol dire? Vuol dire che scatti la foto di un
fiore, e poi ti ricordi delle immagini di Blossfeldt, oppure fotografi le curve
di un corpo umano che si confondono con il paesaggio, e lì ti ricordi di Bill
Brandt. E via così, in un infinito labirinto di immagini fatto di sincronie, o meglio sincronicità, coincidenze, appunto, significative.
Le foto sono una per una tutte ricondotte al loro modello più o meno inconscio, che appartiene alla storia della fotografia.
Non si tratta di copiare o di rifare, qui la faccenda è completamente diversa.
Si tratta di notare che nel nostro inconscio la storia della
fotografia esiste ed opera, ci fa compiere delle scelte visive, influenza il
modo e i modi di guardare e di inquadrare le cose intorno a noi. E questo accade,
che noi ne siamo consapevoli oppure no.
La storia è memoria viva e operativa, allora, e Benjamin sarebbe stato d’accordo.
Come dire che la storia dell’arte ci circonda e ci parla, attraverso le cose che guardiamo, e attraverso il modo in cui decidiamo di guardarle. Non è meraviglioso? La storia dell’arte se ne sta lì acquattata, in mezzo alle cose, ai paesaggi, bella come non mai. Dobbiamo solo farci caso e andare a scovare dove si nasconde, e lei in cambio di premierà ricoprendoci di bellezza e ampliando sempre più i confini della nostra coscienza e capacità di vedere, capire e abbracciare il mondo.
La storia è memoria viva e operativa, allora, e Benjamin sarebbe stato d’accordo.
Come dire che la storia dell’arte ci circonda e ci parla, attraverso le cose che guardiamo, e attraverso il modo in cui decidiamo di guardarle. Non è meraviglioso? La storia dell’arte se ne sta lì acquattata, in mezzo alle cose, ai paesaggi, bella come non mai. Dobbiamo solo farci caso e andare a scovare dove si nasconde, e lei in cambio di premierà ricoprendoci di bellezza e ampliando sempre più i confini della nostra coscienza e capacità di vedere, capire e abbracciare il mondo.
Quando sono entrata in galleria, l’altra sera prima della
mostra, vedevo il mondo in un modo. Quando sono uscita di là era tutto diverso.
Sapevo che le forme razionali dei palazzi che avrei incontrato più avanti nel
corso della serata, nascondevano da una certa inquadratura la visione del mondo
di Moholy Nagy. Che le mani veloci di un suonatore di contrabbasso, al prossimo
concerto a cui avrei assistito, mi avrebbero parlato di Bragaglia. E così via.
Altro che realtà aumentata. Non c’è realtà potenzialmente più ricca di questa
nostra presente, che già abbiamo ricevuto in dono.
Info su orari, location ecc al sito della galleria www.photoandcontemporary.com
Info su orari, location ecc al sito della galleria www.photoandcontemporary.com