L'incanto della scrittura. I maestri calligrafi giapponesi al MAO di Torino


Un maestro calligrafo all'opera al Mao - immagine fornita dall'ufficio stampa del museo

Narra la leggenda che Steve Jobs fosse alquanto scarso negli studi. Pare che al college un solo corso lo interessasse per davvero e si trattava precisamente, pensa un po’, di un corso di calligrafia. Curioso no? Sembra la cosa più lontana che esista dal Mac, dalla Apple e dalla “poetica” (poetica?!) a cui il nome di Jobs – stay hungry stay foolish – rimanda. E invece…
E invece a ben guardare la calligrafia ha qualcosa a che fare con l’opera di Steve Jobs. Forse per l’attenzione ai fonts, banalmente, o all’aspetto estetico, elegante, dei prodotti Apple tanto amati dai Mac-users. 
Non saprei. Ma chi volesse approfondire la cosa sappia che a Torino è attualmente in corso, presso il Mao – Museo d’Arte Orientale, una bellissima mostra sull’arte della calligrafia. Non quella di Steve Jobs, ovviamente, ma quella doc dei maestri giapponesi.
In mostra sono esposte opere mai viste prima in Italia. I lavori sono ben 95 e si dividono tra le diverse tipologie di questa antica arte orientale. Sono tutte opere magnifiche.


Immagine di alcune opere in mostra fornita dall'ufficio stampa del Museo

Ciò che più colpisce in questi lavori è la visibilità della parola: il suo farsi immagine, figura. Cosa assolutamente magica, la figura nasce da pochi tratti decisi, armonici, tracciati con precisione da questi incredibili artisti.
Poi, avvicinandosi alle opere esposte, si scopre l’altra dimensione, quella che a noi occidentali, ignoranti, sfugge. Ogni disegno, ogni tratto, è una vera e propria poesia. A volte una frase significativa, altre volte un vero e proprio haiku, ma anche soltanto una parola pregna di senso.

Immagine della mostra fornita dall'ufficio stampa del museo

Faccio un esempio. Ad un certo punto alcuni tratti disegnano la scritta “volto”. Non è strano? Di fronte a un’opera d’arte visiva ci aspetteremmo di trovare la rappresentazione di un volto, secondo la comune idea per cui l’arte rappresenta, appunto, mimeticamente il proprio soggetto (ok, sto leggendo Didi-Huberman, si vede?).
Ma qui no, quella che vediamo è la parola che designa il volto. Proviamo a chiederci: a chi somiglia questo volto? La risposta potrebbe essere che quello, così disegnato, non somiglia a nessuno. Oppure somiglia a tutti i volti del mondo. È l’essenza stessa del volto. L’idea, forse, in senso platonico.
Lì dipinta c’è quella cosa che è in tutti i volti e insieme non si trova in nessuno di essi. Il nostro volto, come in uno specchio, oppure il volto della persona che ci sta accanto, magari un altro visitatore della mostra, preso dall’incanto di quelle parole dipinte come lo siamo noi in quel momento. Il volto di chi soffre e quello dei saggi, il volto di un bambino, o di un vecchio. Tutto. L’essere volto del volto. La parola si fa figura, il Verbo si fa carne, traccia, inchiostro.

Immagine di una performance dei maestri calligrafi, fornita dall'ufficio stampa del museo

Certo, rischia di diventare un bel labirinto concettuale. Ma di sicuro, guardando quella parola, ciascuno di noi si rispecchia, legge qualcosa di profondo che riguarda la propria umanità e quella di tutti gli altri.
Ok lo so, sto usando dei concetti appartenenti alla tradizione occidentale e qui c’è dell’altro.

Immagine della mostra fornita dall'ufficio stampa del museo

La calligrafia giapponese è magica. Non si può non rimanere affascinati da un’arte che mette insieme con una semplicità disarmante e estremamente complessa da conquistare (ed eseguire) pittura e poesia. Queste opere delicate e bellissime, nascono da un gesto profondamente mistico, in cui l’io dell’artista si annulla, diventa per così dire una porta attraverso cui passa dell’altro, anzi forse dovrei scrivere Altro, con la A maiuscola.

Un maestro calligrafo all'opera. Immagine fornita dall'ufficio stampa del museo

Sì perché quell’altra cosa che passa e che supera abbondantemente l’io di qualsiasi artista è la Natura stessa, l’Essere, il Sé – scegliete un po’ la parola che preferite, a seconda della scuola di pensiero a cui vi sentite più vicini.
Certo è che l’agire del maestro che scrive è un agire puro, in cui l’azione non ha altro scopo o pensiero oltre se stessa.
In questo senso, per i maestri giapponesi, la scrittura è una vera e propria “via”: qualcosa che conduce a un’evoluzione che parte da dentro, a una maggiore apertura mentale fatta di consapevolezza e attenzione al presente.

;
mmagine della mostra fornita dall'ufficio stampa del museo

Perciò, che altro dire? È colpa di Steve Jobs (ok, non solo sua, ma anche sua) se rischiamo di non saper più quasi scrivere a mano. Prendiamo esempio da lui e andiamo a rifarci gli occhi con queste splendide opere di calligrafia.

La mostra al Mao dura fino al prossimo 19 marzo, non perdetevela.