L'etica dell’immagine e il gelato

 
foto di Chema Madoz, scaricata dal web


 Una delle cose che mi annoiavano maggiormente quando collaboravo con alcune riviste di arte contemporanea molto considerate nel settore, era il fatto che praticamente fosse vietato stroncare qualsiasi cosa. Fateci caso: su quei canali, salvo le lettere al direttore o simili, tutti sono sempre d’accordo su tutto e nelle riviste di settore si trovano bensì critici (d’arte) ma mai, o quasi mai, critiche.
A ragione di ciò ci sono molti fattori, prima di tutto di carattere economico oppure, più banalmente, di pubbliche relazioni. La discussione però poi langue, e non occorre certo spiegare perché.
Dato che questo però è un blog e lo gestisco personalmente, ho promesso a me stessa che in questo luogo scriverò esattamente ciò che penso dei soggetti di cui mi occuperò. Ed ecco un caso perfetto per stroncare qualcosa degno di stroncatura!

Ieri sono stata a un convegno sull’Etica dell’immagine che si svolgeva nelle sale del Goethe Institut di Torino, organizzato da una rivista culturale e che coinvolgeva attori del calibro nientemeno della Fondazione Sandretto (tirata lì dentro chissà come, credo ignara alla fine di quel che accadeva), il Centro Luigi Pareyson (pace all’anima sua) e l’Università di Torino (pace all’anima sua?). L’incontro si presentava come una cosa interessante e di alto livello. Era stato pure anticipato da un articolo sulla rivista di cui sopra con un articolo su Aby Warburg. Uhm, interessante. Perciò ci sono andata.
Ma già dal principio si è rivelato per quello che era: una scatola vuota. O peggio, piena di cose inutili e perniciose.
Per cominciare, la prima sessione di lavori, il pomeriggio del 15 marzo aveva una guest star proveniente dallo ZKM di Karlsruhe, il quale ovviamente non è invece intervenuto. Spesso questo capita ai convegni di filosofia, si millanta la presenza di qualcuno che non c’è. Ma pazienza, tiriamo oltre.
Ammetto di aver assistito soltanto a un intervento e mezzo. Poi sono andata a mangiare un gelato, convinta in questo modo di fare qualcosa di più produttivo che stare lì ad ascoltare. E anche per un’altra ragione che dirò dopo.

All’inizio ho preso diversi appunti, avrei voluto intervenire con delle obiezioni, ma poi mi sono resa conto che le obiezioni sarebbero state davvero troppe.
Dalle banalità finemente tecnico-scientifiche in poi. Tipo: un professore universitario ha confuso quello che Kant dice delle immagini con ciò che Kant dice del bello, per dirne una, e una studiosa gironzolava intorno alla nozione di “aniconicità” della civiltà islamica dimostrando di non sapere un beato nulla della produzione artistica di quella civiltà (nemmeno io sono esperta in materia, ma almeno so che esiste un’arte islamica!). Tutti tesi a dimostrare quanto l'immagine fosse poco importante prima dell'epoca di Debord, dimenticando scioccamente cose imbarazzanti tipo la Bibbia, Genesi I... E via di questo passo.
(Dovrei scrivere un saggio intero per argomentare correttamente e nei dettagli tutto ciò che proprio strideva con il buon senso e francamente non ne ho voglia.)
Ma la cosa peggiore era la sensazione che i relatori non avessero idea di ciò di cui stavano parlando. Né dove si parlava di arte, né dove si parlava di immagine in senso lato.
Sembravano paracadutati su quell’argomento da qualche altezza imperscrutabile, completamente privi degli strumenti per comprendere quel che accade nel mondo della cultura e dell’arte così come esso effettivamente è oggi. La cosa è davvero desolante.
Basti pensare che nessuno di loro e dei loro seguaci (non a caso evito di usare la parola follower) dispone di un profilo facebook o di un account twitter o instagram. Conoscendoli, ho l’impressione che semplicemente non siano in grado di gestirli. (O se qualcuno ne ha uno di account, non lo aggiorna dai tempi dell'apocalisse dei Maya che è lo stesso).
Che cosa voglio dire con questo? Esiste ancora una cultura che giudica se stessa troppo alta per mescolarsi con il mondo, e tuttavia di quel mondo pretende di parlare. E invece ciò che dovrebbe fare sarebbe uscire dalla propria comfort zone e avere il talento (ahinoi) necessario per confrontarsi con il mondo reale in un autentico dialogo, senza porsi fin dal principio come su un piano di superiorità.
Specie quando si tratta di argomenti come l'arte o le nuove tecnologie, dove sono in gioco saperi di altissimo livello tanto quanto la filosofia. Solo che sono saperi "altri", con cui si dovrebbe essere capaci di confrontarsi. 

foto di Chema Madoz, scaricata dal web

Il vero problema è che tutta la questione del rapporto tra arte, immagine e filosofia potrebbe essere sviluppato ben altrimenti e con altri risultati molto più entusiasmanti.
Ciò però non accade perché, se da un lato i filosofi accademici stimano se stessi troppo qualsiasi cosa per mescolarsi con il resto del mondo, è pur vero che nei musei e nelle gallerie d’arte anche di altissimo livello la filosofia è poco conosciuta. 
L’errore – madornale! – su Kant che ho citato prima non poteva essere notato nemmeno dal più esperto studioso di arte, per la semplice ragione che non fa parte del suo percorso di studi. Di conseguenza l’errore non è percepito e semplicemente si accantona il discorso, o lo si segue per vie un po’ scombinate, inutilmente cerebrali, che (come si vede dai fatti) non danno mai e non possono dare frutti. Poi si alza le spalle e ognuno torna a fare i fatti suoi come se nulla fosse successo. E in effetti nulla è successo.
Siccome la filosofia per tutti quelli che non l’hanno studiata è qualcosa di difficile, astratto e fumoso, qualsiasi cosa dica chi si dice filosofo va bene.
Ciò è molto comprensibile. La veridicità e l’affidabilità delle sue riflessioni si basano sul ruolo accademico di chi parla, e non sulla reale competenza in materia. Solo che le due cose, reale competenza e ruolo ricoperto nelle accademie, sappiamo tutti che non sempre sono sovrapponibili, specie nel Bel Paese.
È chiaro che la discussione tra arte e filosofia non si esaurisce in questa esperienza, che c’è molto di meglio e di altro altrove. Altri pensatori producono testi interessantissimi sul tema e andrebbero invitati e ascoltati. Spero di avere prima o poi occasione di discutere di arte e di immagine insieme a loro.
Penso a personaggi giganteschi come Georges Didi-Huberman, ma anche a molti altri in giro per il mondo e per l’Italia, che davvero varrebbe la pena ascoltare.
Mi piacerebbe poterli sentire, poter assistere a qualche loro discussione. Ma vorrei poterlo fare nella mia città, a Torino, oltre e al di là dell’ambiente accademico, se necessario. 
Sarà mai possibile portare qui un po’ di filosofia vera qui, e magari farla? Questa sì che è una bella scommessa.

disegno di Duerer, foto scaricata dal web

Ah, avevo promesso che alla fine avrei detto la seconda ragione per cui sono andata via, a un certo punto.
È che a me piace discutere, ma non fare inutili polemiche. Così, dato che sono andata via, qualcuno mi potrà sempre dire che il convegno DOPO era super interessante e io potrò dire “ah beh può darsi, io sono uscita prima” senza mettermi a litigare. Strategico, no?
Bah, forse no.
Comunque il gelato, diversamente dal convegno, era ottimo.