La politica della bellezza e l'anima della città. Lettura e interpretazione di un saggio di James Hillman
Politica della bellezza è il titolo di una raccolta di saggi scritti da James Hillman, il grande filosofo e psichiatra americano scomparso alcuni anni fa, e già leggendolo (il titolo, ancora prima del libro) viene alla mente l’enorme distanza che separa il concetto di bellezza da quello di politica, almeno per quella che è la comune esperienza condivisa dei nostri tempi. Ma va beh, questa è un’altra storia.
In realtà infatti, come era immaginabile, i saggi raccolti nel libro non parlano di politica in senso stretto, ma spiegano invece perché concetti come la bellezza e la politica (nel senso della polis, cioè del nostro vivere comune e condiviso) intanto hanno profondamente a che fare l’uno con l’altro e poi, soprattutto, hanno tremendamente a che fare con noi e con le nostre vite quotidiane. Anche se noi non ce ne accorgiamo.
A chi volesse approfondire questi temi per intero e in maniera esaustiva rimando alla lettura del testo (James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali ed., Bergamo 2005. Lo trovate tranquillamente sui più noti e-stores on line).
The revolving house, Paul Klee, olio su tela 1921 |
Ciò che mi preme per una serie di ragioni (sto scrivendo una cosa sul tema della città e poi mi sono trovata a riflettere su queste cose in varie occasioni ultimamente) è invece il discorso che, appunto nel contesto di politica e bellezza, Hillman fa sulla città. Come l’attenzione alla bellezza nella città possa incidere sulla qualità della vita dei cittadini in senso profondo, molto al di là degli aspetti meramente ludici e decorativi, secondo Hillman, è un discorso che riguarda la politica da vicino. O dovrebbe riguardarla.
Attenzione, qui non si parla di bellezza in senso edonistico. Hillman ritiene che la bellezza sia in grado di incidere in profondità sulla psiche personale e collettiva delle persone. La bellezza riguarda quindi il nostro modo di vivere e di stare al mondo.
Comincio subito con la mia lettura delle teorie di Hillman, che parte da una parola.
Mi piace usare la parola “incidere” qui, per indicare la profondità di qualcosa che lascia una traccia. Ma meglio ancora sarebbe la traduzione inglese “to affect” o la reciproca “to be affected by”: la bellezza produce un cambiamento, modifica concretamente il vissuto personale e collettivo, a partire dal punto di vista psichico (sempre sia personale, sia collettivo). Ma la bellezza ha anche a che fare con l’affection, l’affetto, l’affezionarsi e le relazioni (e se si parla di polis e di comunità tutto torna…). E soprattutto dalla bellezza (o non bellezza) siamo “affetti”: nel senso che la bellezza “contagia” in qualche modo, s’insinua e diventa tutt’uno con l’anima stessa della persona, così come quella del luogo, e della comunità che lo abita.
Perché il tema del rapporto tra città, bellezza e psiche (o anima) è così affascinante, proverò a riassumere il pensiero di Hillman in alcuni punti fondamentali.
1. Fame di bellezza
Per Hillman (che scrive alla fine degli anni novanta) il mondo vive sempre più una fame di bellezza, senza accorgersene o, peggio, scambiandola per uno sterile edonismo che però, invece, non porta a nulla. La bellezza ha a che fare per Hillman con il concetto rinascimentale di anima mundi, l’anima del mondo. Ciò significa che il bello da un lato è legato strettamente all’armonia e dall’altro riguarda una necessità essenziale dell’essere umano, indispensabile al suo equilibrio psicologico e sociale.
Per Hillman è il nostro senso del bello a portarci fuori di noi, nella comunità o polis, a renderci attivi socialmente e personalmente. Perché il senso del bello ricopre di libido il mondo fuori di noi, rendendolo desiderabile.
Cosa se non la nostra capacità percettiva ci rende sensibili agli stimoli che provengono dall’esterno e risponde all’esigenza di vivere in un contesto armonico condiviso e condivisibile?
Dove però domina l’abnorme (immaginate la parola detta tipo Frankestein Junior, che rende meglio), la sproporzione, il brutto, l’anima delle persone si ribella. È possibile che la cosa non arrivi a coscienza, ma per Hillman il brutto intorno a noi si tramuta per forza di cose in frustrazione, mancanza di rispetto, maleducazione (istinto a deturpare, lasciare rifiuti ecc), rabbia, persino violenza.
La bellezza della città perciò, dal suo punto di vista, è quindi il primo aspetto da curare se vogliamo avere cittadini più felici e una città più efficiente. Ma anche un comportamento sociale più incline alle relazioni, meno violento e intollerante ecc.
E se fosse vero?
La città promessa, Alberto Savinio, olio su tela 1928 |
2. C’è una patologia della cultura
Per Hillman non esistono solo le patologie psicologiche personali, così come invece ci racconta la psicoanalisi tradizionale. Esistono anche, e forse soprattutto, patologie di carattere culturale e collettivo. Faccio un esempio. Il male del secolo: la depressione di cui molti soffrono. E se scoprissimo che la depressione non deriva semplicemente da un trauma personale, collocato magari nell’infanzia, e fosse invece il prodotto di un malessere culturale, della mancanza di vitalità e cultura di un’epoca storica? Alzi la mano chi pensa che il nostro mondo culturale attuale stia bene e goda di ottima salute come non mai. Ecco, nessuno…
Come possiamo pensare che la mancanza culturale a livello collettivo, non abbia a che fare con la qualità della vita delle singole persone? Ripeto, che ne siano consapevoli o meno (ma se il problema è culturale, certo non ne sono consapevoli).
3. La città ideale è fatta così
Al capitolo terzo Hillman approfondisce direttamente il tema della città e dell’anima, andando nei dettagli di ciò che a suo parere una città dovrebbe avere per rendere la vita delle persone più felice possibile. Hillman qui individua proprio delle caratteristiche concrete, che, al di là del fatto che siano o meno condivisibili da un urbanista (bisognerebbe chiederlo, anzi, spero che qualcuno legga qui e mi dica che ne pensa!), sono certo interessanti spunti di riflessione. E il primo punto è proprio:
3. 1 La riflessione
L’anima è associata alla parte riflessiva in noi, alla nostra interiorità. La città quindi dovrebbe avere vetri, specchi, ma soprattutto vetri. Che rispecchiano senza abbagliare.
3.2 Alto e basso
Per cui la città deve avere l’indicazione della profondità. La profondità per Hillman si trova quando individuiamo livelli differenti. Ciò può identificarsi con una variazione delle altezze dei luoghi, ma anche con i materiali, e il loro modo di riflettere e interagire con la luce, la luce stessa. Il senso della profondità per Hillman però è dato soprattutto dalla presenza di piccole strade, vicoli in cui è possibile addentrarsi. Questo addentrarsi avrebbe a che fare con l’interiorizzazione dei vissuti, la profondità, appunto. Occorre mantenere le due direzioni: lo sguardo verso l’alto (tetti, palazzi) e verso il basso, l’interno (vicoli, scale, gallerie ecc.)
3.3 La memoria emozionale
La città deve avere dei luoghi deputati alla memoria collettiva, alla testimonianza storica, al ricordo. Questo va dal monumento (anche in senso moderno, ovviamente, non necessariamente un tipo a cavallo in mezzo a una piazza) fino alla presenza del cimitero, del rapporto con la morte che invece è spesso rimosso.
3.4 L’anima ama le immagini e le vuole fatte a mano
In Tedesco, ricorda Hillman, cultura si dice Bildung, che viene da Bild, immagine. “Una città che voglia avere cultura deve essere animata dalle immagini” perché “senza immagini tendiamo a smarrirci” dice Hillman (p.81), intendendo uno smarrimento dell’identità e della coscienza.
È importante che nella città ci siano immagini di cose fatte dalle mani umane, qualcosa che sia creato e fisicamente forgiato da noi e che queste immagini siano da tutti fruibili. L’arte, la pittura in particolare, qui è la prima cosa che viene in mente. Ma in ogni caso la Bildung, così come la intende Hillman, dovrebbe toccare tutte le cose, che resterebbero se no inanimate. Le immagini di cui abbiamo bisogno, insomma, non sono soltanto i cartelloni pubblicitari, o cose simili, ma qualcosa che ha a che fare con il… fare, a mano, concreto delle persone.
3.5 L’anima si mette in relazione
Beh questo è chiaro come il sole. La città deve favorire la relazione. E qui torna la polis di cui sopra. La relazione tra esseri umani deve essere incoraggiata dalla presenza di luoghi che facilitano l’incontro tra le persone. Questi luoghi devono avere alcune caratteristiche:
- devono essere dei luoghi dove si può fare una pausa, dove ci si può fermare – a pensare, parlare, eccetera;
- devono essere ad altezza d’occhio, per facilitare il contatto tra persone e persone e anche tra persone e cose e rendere tutto spontaneo e naturale;
- devono essere luoghi per il corpo, che consentono un benessere fisico delle persone e incoraggiano al contatto appunto anche fisico, all’intimità addirittura. Luoghi come i pub, i mercati, le pasticcerie, gli spogliatoi, le panchine nel parco (l’elenco è testualmente preso da Hillman, le pasticcerie non l’ho aggiunto io, giuro!) e simili devono essere progettati pensando a queste necessità delle persone.
Marc Chagall, Sulla cità, olio su tela 1918 |
4. La città non solo ha un’anima, ma è l’anima
La città è l’anima. Proprio così. O meglio, la città è il correlativo oggettivo - nel senso di T.S. Eliot – dell’anima. Il che vuol dire che il rapporto con la comunità, e con il mondo fisico concreto in cui abitiamo è molto più profondo di ciò che di solito immaginiamo. È qualcosa che interiorizziamo e che ci portiamo dentro e che fa parte, concretamente, del nostro vissuto. Viceversa il modo in cui immaginiamo le nostre città ha a che fare con questa anima (personale e comunitaria).
Anzi, Hillman arriva a dire che il modo in cui immaginiamo le nostre città è esso stesso l’anima comunitaria.
Mi spiego meglio.
Immaginiamo un sogno, uno qualunque che abbiamo fatto di recente. Immaginiamo come uno psicanalista potrebbe interpretarlo, leggendo la presenza di simboli significanti in ogni dove. Ecco, così, solo in un rapporto dialettico, cioè che implica un dinamismo reciproco tra il fuori della città e l’interiorità della persona.
Il luogo in cui abitiamo è la nostra anima e la nostra anima cambia, il nostro stare al mondo cambia, in relazione ad esso. Riprenderei il termine “affect”, nel doppio senso del genitivo: essere affetti da, incidere, ma anche avere incidenza.
In altre parole: io sono il mio luogo. Perché sono in quel luogo e lo abito, ma anche perché sono fatta dalle percezioni fisiche concrete che il luogo e ciò che lo abita oltre a me mi rende disponibili, imprimendole nella mia memoria e nel mio agire - anche a livello cerebrale, oserei dire.
Io per altro modifico questo luogo, con la mia presenza, il mio agire, ma anche il mio profumo, il mio modo di abitarlo, di usarlo, di muovermi nello spazio ecc.
Inoltre la città, il luogo, è l’anima che abita ciascuno di noi personalmente, e nello stesso tempo il luogo dove ci incontriamo come comunità. Perciò la cura con cui dobbiamo pensare la città progettarne gli scopi e i valori e occuparci della sua bellezza, è una cura che rivolgiamo anche a noi stessi, come singoli e come comunità.
Ne consegue che per Hillman per “chi voglia perseguire lo sviluppo di sé, è necessario l’impegno comunitario” (p.81). Le cose e le persone che mi circondano, il paesaggio in cui abito ha a che fare con il mio essere nel mondo o anzi, meglio e più ancora, con il mio sé più profondo.
L’una cosa interagisce e cambia le altre, l’una e le altre cose si modificano a vicenda. Perciò che cose come il design, l’attenzione alla bellezza e all’armonia degli spazi e dei servizi, non hanno a che fare soltanto con la comodità dell’uso o dell’abuso delle cose, né tanto meno con l’esibizione di uno status sociale.
Il paesaggio, l’architettura, le cose che mi circondano, con cui ho a che fare e dentro a cui mi muovo non influenzano soltanto il mio rapporto con il mondo perché di fatto, oggettivamente, rendono più facili alcune azioni rispetto ad altre (dove funzionano bene i trasporti è più facile spostarsi, come avrebbe detto Pazzaglia di Quelli della Notte).
La cosa va molto oltre. Io non sono la stessa se vivo qua o là, con Tizio o con Caio. La città mi cambia, inesorabilmente. Il mondo in cui vivo cambia il modo in cui vivo. Così come la bellezza (o non bellezza) fuori di me affects – trasforma, affeziona, incide, riguarda, contagia – in un rapporto dialettico chi io sono e come è, come si qualifica essenzialmente, profondamente, il mio stare al mondo.