Bruno Munari e le macchine volanti




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Bruno Munari, Autoritratto, 1990, xerografia originale, 29,5x42 cm.


Fino a giugno al Museo Ettore Fico di Torino è possibile visitare un’ampia retrospettiva dedicata a Bruno Munari.
Per prima cosa dico che è una bella mostra. Ben allestita, curata nei dettagli, sviluppata in maniera logica e coerente, come un discorso ben costruito. Senza nulla togliere all’abilità del curatore, ciò si deve soprattutto alla sostanza delle opere in mostra, per lo spirito che le anima tutte: fatto di creatività ingegnosa, logica e metodo. E tale è la poetica di Bruno Munari, che traspare da ogni esempio della sua multiforme e poliedrica produzione.
La mostra è dunque una fantastica occasione, da non perdere, per conoscere meglio un personaggio che ha animato il mondo della cultura italiana in un periodo storico particolarmente fertile e interessante, nonché vasto, che va pressappoco dal futurismo agli anni novanta, passando per il dopoguerra e gli anni successivi, con tutto quello che ne conseguì dal punto di vista delle trasformazioni storiche, sociali ed economiche del nostro paese.

Bruno Munari, Positivo-Negativo, 1995, collage e acrilico su cartone, 50x50 cm.


Spontaneamente collego l’opera di Munari a qualche altro personaggio attivo in Italia durante quel lungo periodo storico, soprattutto nel periodo che va dagli anni cinquanta agli anni ottanta o giù di lì. Penso a personaggi del calibro di Italo Calvino, Gianni Rodari, un certo Primo Levi (quello che parla della chimica e della fantasia, intendo) e Umberto Eco.
Tutti questi personaggi hanno in comune una visione della creatività e dell’arte – intesa nelle sue varie forme, che vanno dalla letteratura alle arti visive – particolarmente vivace, capace di mescolare il rigore scientifico e la dimensione surreale, in un continuo eccitante andirivieni tra la teoria, la pratica (nel senso del fare e della prassi artistica) e la poesia. Tutto sempre con eleganza, erudizione e proverbiale leggerezza (ho citato Calvino, quindi avete capito benissimo che cosa voglio dire).

Bruno Munari, Negativo-Positivo, 1951, olio magro su faesite. cm 34x34


Sarà l’interesse per la patafisica (ovvero la scienza delle soluzioni immaginarie, come diceva il suo padre Alfred Jarry), sarà un certo spirito, l’intelligenza, banalmente (!). Oppure quel modo per avvicinarsi all’opera, superarla portandola oltre i propri limiti e poi ricascarci dentro, dando vita a un mondo nuovo e tutto da esplorare in cui il fruitore delle opere è condotto per mano, sempre con un piede dentro il mondo immaginario e uno fuori a guardare il “testo” (intendendo il termine testo nel senso ampio che utilizzava Umberto Eco). Come le opere che includono lo spazio, lo scompongono e lo ricompongono, a volte fagocitando al loro interno la cornice, a volte prendendo a prestito lo spazio espositivo, per fondersi in esso, per fondere lo spazio stesso in loro. Per me tutto questo è magico.

Bruno Munari, Prova d’autore, 1983, collage di campioni di tessuti stampati, 25x35 cm.

Ma no, mi direte. Non Munari. Munari era quello del metodo, del design e non dell’arte in senso romantico. Tutt’altro che bohèmien, insomma. Ma è proprio questo il punto. Ci sono persone che si appassionano delle strutture. All’uso creativo ed elegante dell’intelligenza. Persone che si ingegnano a creare strutture, come mondi in cui un elemento rimanda all’altro, simili a formule chimiche, o alchemiche, se preferite. Tutto questo nello spirito creativo del gioco.

Bruno Munari, Sensitiva, 1940-1990, legno dipinto e filo metallico, 25x50x10


Quelle di Munari poi, non sono strutture qualunque. Intanto sono scientificamente impeccabili, come le sue macchine che non servono a nulla. Ma sono soprattutto strutture che si articolano intorno non alla teoria e all’astrazione, bensì a un fare che ha nelle mani, nell’agire pratico concreto, per paradosso, il suo acmé teorico.
Chi ascolta dimentica, chi vede ricorda. Ma solo chi fa impara. Così diceva Munari in una nota lezione allo IUAV di Venezia nel 1992 (per fortuna interamente conservata e fruibile facilmente da tutti su youtube).
Credo che questa frase racchiuda un po’ il suo pensiero, il suo modo di vedere l’arte affrancato dai romanticismi melensi, rivolto al design, all’oggetto utile  nel senso di utilizzabile, anche se poi l’utilizzarlo è tutta un’altra avventura. Lo si userà sì, l’oggetto, ma il modo è tutto da inventare, decontestualizzando e ricontestualizzando ogni volta, scegliendo a piacere il contesto, così come la semantica o l’ordine matematico delle cose in cui inserirlo come un device. Un dispositivo che, diversamente da quello descritto da Agamben, è volto all’uso e trova il suo referente di volta in volta sempre tanto fuori di sé quanto in sé stesso, nell’infinita dialettica tra polo negativo e polo positivo delle cose, yin e yang, pieno e vuoto. Come in un gioco infinito di specchi, dove però alla fine del gioco sei sempre un po’ più ricco – di spirito e di consapevolezza – di quanto non fossi prima.

Bruno Munari, Scultura da viaggio, 1959, cartoncino, 18x30 cm


Vorrei concludere con un’ultima piccola cosa, forse un dettaglio. Mi hanno colpito all’inizio della mostra i primi disegni di un Munari giovanissimo. Cominciò disegnando aerei.
È curioso, mi ha fatto venire in mente un altro poeta dei nostri tempi, uno che in apparenza con Munari non c’entra niente. Si tratta di Hayao Myiazaki (non chiamatelo disegnatore, per me è un poeta!).
Curioso no? Ho pensato che l’aereo è anche un simbolo. La macchina che vola. Che fa volare esseri che le ali non ce le hanno. E li rende mobili, leggeri. Così come la fantasia, o il pensiero. Cose che si innalzano oltre la realtà, sì, ma non tanto per distaccarsene, quanto per averne una visione d’insieme. The bigger picture, insomma, come si dice. Così poi puoi decidere di cambiare quello che non ti piace, e non resti invischiato in una visione piccola, meschina, del mondo e delle cose che puoi vedere. Capisci ciò che puoi fare di quello che c’è, con quello che c’è. Inventi.
Ecco, in questo senso l’opera d’arte, o di design – o di disegno! – è un dispositivo. Qualcosa che fa scattare altre cose, che dispone al fare. Che aiuta ad aprire possibilità, sinapsi, oserei dire, proprio a livello cerebrale, per quanto riguarda il modo che abbiamo di fare uso del nostro cervello.
Una macchina volante, insomma, vera e propria. Per esseri speciali, che  magari le ali già ce l’hanno di loro. Anche se, da fuori, a prima vista, non si vedono.