Daniele Galliano, Bad Trip 2016 - courtesy dell'artista |
Forse è così, io vivo fuori tempo
è vero ciò che sento sotto pelle,
è come una costante sensazione di
mancata appartenenza
è come una costante sensazione di
mancata appartenenza
Con queste parole iniziava una canzone di qualche anno fa dei Subsonica, Le cose che non ho. Guardando le ultime tele di Daniele Galliano mi sono venute in mente in tutta la loro tragicità e, in fondo, dolcezza.
Le tele di cui sto parlando fanno parte della
serie Bad Trip e sono attualmente esposte alla Biennale di Kochi-Muziris, in India, fino alla fine di marzo.
In Bad Trip Galliano prende vecchi lavori non professionali, le “scatole di cioccolatini” di una
volta per intenderci, versione su tela, che si trovano ai mercatini o in posti del genere e vi
inserisce elementi estranei, personaggi tipici del sottobosco urbano a cui da
sempre il suo lavoro fa riferimento. Si crea una tensione ironico/drammatica
tra l’elemento umano e il contesto, per lo più paesaggistico, dello sfondo.
È la sensazione
del sentirsi fuori posto, o fuori ruolo. Una sensazione di disagio, di malessere
esistenziale, qualcosa che gli artisti, insomma, conoscono bene.
Che tenerezza.
Come l’albatros di Baudelaire, le cui ali troppo grandi impediscono il cammino,
questi piccoli uomini caduti sulla terra rimandano a una sensazione per sua
essenza impossibile da condividere, e tuttavia necessaria da vivere, per chi la
prova, fino alle sue estreme conseguenze. Pena la perdita di se stessi.
Che altro
potrebbero fare questi personaggi se non sentire nella propria pelle fino alla
fine lo stridere della loro differenza dal contesto che li ospita? Camuffarsi e
diventare parte del paesaggio non è una buona idea. Serve solo a star peggio, o
a perdere l’anima. E per paradosso allora, per non perdere l’anima non resta
che perdersi nel senso di non appartenenza stesso. Per ritrovarsi forse, poi.
Come dicono i maestri zen.
Daniele Galliano, Bad Trip 2016, courtesy dell'artista |
Se ti chiedo dove sei, non sai dirmi dove sei
Qui c’è un po’
come una composizione chimica in cui gli elementi invece si amalgamarsi, si
respingono. L’olio che sale in superficie in un bicchiere d’acqua, una fusione
che non avviene. Qualcosa del genere. Che sia un bene? È un bene, certo. La
base è un dipinto di pessima fattura, l’elemento estraneo invece, è d’autore.
Se l’umorismo è
per Pirandello il sentimento del contrario, qui l’ironia si tocca con mano. E
se da un lato in questa serie di opere si sente il dramma del sentirsi non a
casa propria, parafrasando Freud, d’altro canto, la tensione generata
dall’elemento estraneo calato in un contesto palesemente unheimlich ha una sua evidente dimensione ai limiti del comico, se
mi si passa il termine. L’artista che ci
ha giocato questo scherzo (mostrarci un’opera originariamente brutta e rimaneggiarla a modo
suo fino a trasformarla in un lavoro contemporaneo parecchio significativo) dev’essere un buontempone. In senso buono, ovviamente.
Infatti la
situazione ha un che di innegabilmente grottesco: il contesto stride con il
personaggio. Uno potrebbe essere una visione dell’altro. Ma chi è l’invasore e
chi è l’invaso? Dal punto di vista psicologico, c’è una difficoltà ad adattarsi
al contesto da parte dell’individuo? Ma il contesto è evidentemente dozzinale,
mal fatto, grottesco.
E in fondo
grottesco è anche il personaggio applicato sullo sfondo a cui non appartiene,
ma nel senso del corpo grottesco di Bachtin: è lui il luogo dello scambio, il “dove
capita qualcosa”. Negazione e trasformazione. C’è qualcosa di alchemico in lui.
Probabilmente suo malgrado.
Che poi qui l’individuo
in effetti, a ben guardare, non è mica un individuo in senso stretto. Spesso è
un typos, un personaggio caratteristico. È qualcuno che incarna l’archetipo di
quello che non si adegua. E che di solito dà inizio alle cose nuove. Di solito.
Ma a che
prezzo? La sola idea di trovarsi in un contesto inadeguato o inospitale spaventerebbe
chiunque, e a ragione. Ma a volte è ancor più il contesto a spaventarsi.
Insomma, chi ha
paura di quello che non si adegua? Di che paura si tratta?
Daniele Galliano, Bad Trip 2016, courtesy dell'artista |
La frase all’inizio
del paragrafo è presa da un’altra canzone dei Subsonica dello stesso periodo
della prima che ho citato, s'intitola Preso blu. Più avanti nel testo
della stessa canzone si legge anche una frase che dice più o meno:
Paura del diverso, paura del possibile
Paura che diverso sarebbe anche possibile
Urca. Quanti
diversi tipi di paura, e di tensione, anche.
Ma che cosa
genera la tensione tra sfondo e personaggio calato lì dall’alto (e la parola
calato ci sta anche bene, visto che pur sempre di bad trip si tratta –
scherzo!), come un deus ex machina che però non è capace di fare niente, se non
di sentirsi a disagio?
Abbiamo visto
che la tensione nasce quando ci accorgiamo che i due, sfondo e personaggio,
sono scompagnati, che non si pigliano, insomma.
La tensione, la
paura, spuntano fuori quando il personaggio sente di non essere a casa, e
quando noi ce ne accorgiamo.
Guardiamo per
un attimo le cose dal punto di vista fantasioso che potrebbe essere quello del
personaggio estraneo al contesto. Abbiamo detto paura, disagio, altre cose
simpatiche che stanno tutte dentro la sensazione di mancata appartenenza di cui
sopra.
Ma, a ben
guardare, non è questa un’occasione? è l’occasione di sentirsi. Mica poco.
In quanti posti
e in quante situazioni al mondo, oggi, nella nostra comune vita quotidiana che
spesso ci sbatte senza pietà da un luogo che è non-luogo ad uno virtuale,
abbiamo l’occasione di sentire noi stessi?
La sensazione
di mancata appartenenza, allora, può essere l’inizio della salvezza, la
partenza verso il proprio personale viaggio interiore ed esteriore. La vita,
insomma.
Perché è
proprio allora, quando sentiamo di non appartenere a nessun branco, quando
sentiamo la differenza, implacabile, dolorosamente feroce, o a volte anche
(solo?) mortalmente noiosa, che cominciamo a sentire noi stessi. Allora
sappiamo con certezza che cosa vuol dire essere nei nostri panni, che cosa vuol
dire essere noi, essere proprio lì, dove ci troviamo, in quel preciso momento.
Anche se è un posto che non ci piace.
Ma allora sentirsi
fuori posto in un quadro dipinto male in fondo è un buon segno. Vuol dire che
le antenne ancora funzionano, malgrado tutto.
Ed ecco che qui
si spalanca il regno delle possibilità, del cambiamento, della trasformazione
sana, vitale. Certo, è una home sweet
home un po’ scomoda per chi ama le abitudini, i cliché, le frasi fatte e la
vita senza sorprese.
Altamente sconsigliata
agli amatori dei non-luoghi esistenziali, ai nichilisti dell’anima, ai cretini,
e a tutti gli insensibili.
Daniele Galliano, Bad Trip 2016, courtesy dell'artista |
PS
C’è anche una
canzone dei Subsonica dedicata al lavoro di Daniele Galliano,s'intitola Dentro i miei vuoti. Ma era troppo
facile citare quella, no? Troppo pertinente, sarebbe stata fuori tema, in
questo contesto. Dove si parla dell’essere fuori tema e dell’essere fuori
contesto e allora… ;)