Una favola (più o meno, per chi non ha letto Propp)



Storia di un Re





C’era una volta, tanti anni fa, un paese Lontano Lontano. No, no aspetta, il Paese dove ha inizio questo racconto si chiamava proprio così: Lontano Lontano, la maiuscola non è un errore. Voglio dire: la doppia maiuscola di Lontano Lontano non è un errore, quella di paese qualche parola dopo invece sì. Aspetta, ricominciamo.
C’era una volta, tanti anni fa, un paese Lontano Lontano. No, no aspetta, il paese dove ha inizio questo racconto si chiamava proprio così: Lontano Lontano, la maiuscola non è un errore. E Lontano Lontano era lontano, ma proprio lontano da dove sei tu che stai leggendo questa favola. Ma così lontano, ma così lontano, che alle fine forse ha fatto tutto il giro del mondo e può darsi che te lo ritrovi in un cassetto, oppure sotto il letto, o sotto la poltrona dove siedi per guardare la tivù.
Com’è, come non è, a Lontano Lontano c’era un castello che stava in mezzo ad un villaggio circondato dai boschi, dove i boschi erano popolati di fate e folletti, gnomi, streghe e tutte le altre creature magiche che ti vengono in mente o di cui ti sei dimenticato, o che non hai mai conosciuto, insomma quelle lì.
Lontano Lontano era governato da un Re molto buono, che però era ormai anziano, debole e malato. Dopo la morte della Regina, avvenuta qualche anno fa, il povero Re era infatti caduto in depressione, era sempre molto triste e guardava dalle finestre del suo castello sospirando, con lo sguardo che scivolava lontano lontano lontano, forse indietro nei ricordi, quando era ancora con la sua Regina che tanto aveva amato. Così, per forza, il re di Lontano Lontano si era ammalato, ma così tanto che la sua malattia era gravissima e lo avrebbe di certo condotto alla morte. Per guarire il Re aveva bisogno di una medicina molto speciale, fatta con i fiori di una pianta magica che cresceva soltanto in cima alla Montagna Più Alta Che C’è, la quale montagna era lontano da Lontano Lontano, che è tutto dire per capire quanto era difficile da raggiungere anche per un Re buono e saggio come era lui, che per di più era malato. Insomma, un casino.
Ora però, il Re aveva tre figli, ognuno dei quali aveva il nome di un colore. Avevano deciso così per gioco lui e la sua amata Regina, dato che lei amava tanto dipingere e faceva bellissimi quadri di paesaggi. Il castello infatti era pieno di dipinti meravigliosi dove si poteva ammirare tutto il mondo, tutto quello che la Regina vedeva nel corso delle sue lunghe passeggiate solitarie a cavallo intorno al paese e al bosco e ancora più lontano, ma soprattutto tutto ciò che lei immaginava nella sua fantasia: storie, favole, racconti e molto altro ancora.
Com’è, come non è, fatto sta che i tre figli del Re si chiamavano Bianco, Rosso e Nero. Bianco era il primogenito, era forte, coraggioso e molto bravo a tirare le frecce con l’arco. Non che la cosa fosse utilissima di questi tempi, ma lui era contento e andava bene così. A dire il vero Bianco era giusto un tantino pretenzioso e pieno di sé e un po’, ma proprio solo un po’ antipatico. Però nessuno glielo poteva dire, dato che lui era il principe primogenito e sai com’è, pure l’erede al trono, perciò Bianco era convinto di essere amato da tutti per la sua dolcezza e magnanimità.
Nero era il secondogenito ed era un ragazzo bellissimo. In caso di qualche problema con Bianco sarebbe andato a lui il trono di Lontano Lontano, e Nero sotto sotto ci sperava. Soprattutto Nero amava però fare l’illusionista, giocare con le carte, tirare fuori i conigli dai cappelli e far sparire e riapparire le persone. A volte si sbagliava e faceva sparire e riapparire le carte, tirava fuori le persone dai cappelli e giocava con i conigli, ma la gente per lo più non faceva caso a questi particolari. Per tutto Lontano Lontano nessuno era bravo come lui con la magia, tanto che al villaggio gli facevano tenere sempre bellissimi spettacoli, a cui il pubblico accorreva folto e numeroso. Nero sapeva di non essere molto simpatico né particolarmente di buon cuore ma, essendo un illusionista, riusciva a fingere bene e ad aggiustare un po’ tutte le frittate, così alla fine la gente, specie se lo conosceva poco o non lo frequentava, gli voleva bene.
Infine c’era l’ultimogenito, Rosso, un ragazzo un po’ ribelle che era molto bravo a suonare la chitarra e a inventarsi poesie, racconti e canzoni. A Rosso non importava molto di piacere alla gente e nemmeno di ereditare il regno. Quando gli capitava di andare al villaggio, e la cosa succedeva spesso a dire il vero, non si vestiva mai da principe, così nessuno lo riconosceva. Lui preferiva di gran lunga così perché si sentiva ibero e sereno e poteva parlare con le persone senza tanti convenevoli e formalità. Sai com’è, la gente quando sa che sta parlando con un principe finisce che si lascia impressionare e non è più spontanea e naturale.
Un giorno, purtroppo, il buon Re si sentì male, ma proprio male, e i suoi figli, che erano tutti intenti nelle loro attività, furono convocati con grande urgenza dal Gran Ministro di Lontano Lontano. Il Ministro disse che era necessario che almeno uno di loro partisse in tutta fretta per andare in cima alla Montagna Più Alta Che C’è per prendere la pianta magica e guarire il loro padre.
Naturalmente, essendo tutti affezionati al Re, i tre i figli erano ansiosi di partire e rendersi utili per il padre e, non sapendo scegliere su chi dovesse affrontare il viaggio, decisero di andare tutti insieme. Così sellarono i cavalli e si misero in cammino, anzi, al trotto, in mezzo alla foresta che circondava il castello ed il villaggio.
Dopo più di un giorno di cammino, durante il quale chiacchierarono amabilmente, mentre Bianco si vantava delle sue gesta, Nero faceva giochi di prestigio e Rosso canticchiava spensierato, i tre giovani si trovarono di fronte a un bivio. Anzi, più che un bivio era una strada che si divideva. Perché se in un bivio le strade sono due, in quel punto la strada si apriva in tre diverse possibilità. C’era anche un cartello, secondo il quale la prima via portava alla vita, la seconda alla ricchezza, la terza alla morte.
Non è che ci fosse molto da discutere, in effetti. L’esito del viaggio appariva chiaro a tutti, ma Bianco si fece avanti per primo e scelse la via della vita:
- Andrò con le mie frecce e sconfiggerò i nemici che incontrerò per strada, fino a giungere in cima alla Montagna Più Alta Che C’è e raccogliere la pianta magica per nostro padre!
- Va pure, uomo noioso! Tanto hai preso la via della vita, che vuoi che ti capiti di brutto?
gli disse Nero scherzando (ma Bianco non capiva tanto gli scherzi e non raccolse, anche se sorrise lo stesso, sentendosi superiore) - Io scelgo la strada della ricchezza, se per caso non riuscirò a trovare la pianta, almeno diventerò ricco e potrò comprare a nostro padre ogni medicina che gli sia utile, altro che pianta magica!
Rosso invece non parlò. Era chiaro che a lui sarebbe toccata la via della morte e neanche a dirlo, lui non era contento per niente. Ma non disse nulla, anzi, si limitò a salutare i suoi fratelli, forse per sempre, sigh. Salì sul suo cavallo e proseguì. Che poi a voler dire tutta la verità, ma proprio tutta, una vocina dentro di lui lo rendeva curioso e forse, con un po’ di coraggio, avrebbe scelto anche da solo proprio quella via che nessun viaggiatore saggio, ma neanche uno un po’ fesso, avrebbe scelto. Comunque sia i tre giovani proseguirono il viaggio ognuno per i fatti suoi.

Per primo Bianco prese la sua strada. Cammina cammina, dopo un bel po’ si trovò di fronte un monastero. Era ormai notte e Bianco si sentiva stanco, così decise di chiedere asilo. Scese dal cavallo e bussò. Gli venne ad aprire un monaco vestito con un saio marrone, un uomo piccolo e ricurvo, molto magro e con una lunga barba, che gentilmente lo accompagnò all’interno e gli offrì qualcosa da mangiare per rifocillarsi dal lungo viaggio.
Il monaco raccontò che il monastero dove Bianco era arrivato aveva a capo una Papessa, una donna molto saggia e bella, dedita soltanto alla preghiera e al culto di qualche misteriosa divinità dei boschi. Bianco avrebbe voluto vederla, parlarle e chiederle aiuto per il Re malato, ma il monaco gli disse che era impossibile. La Papessa non concedeva colloqui né interviste, neppure alla tivù, e neanche la si poteva guardare in volto, nemmeno in fotografia. Si poteva però indovinare la sua figura da un quadro posto proprio nella sala del refettorio. Curiosissimo, Bianco alzò subito il viso e puntò gli occhi dritti sul quadro, affascinato. Un dipinto di grandi dimensioni troneggiava al centro della sala, al fondo delle lunghe file di tavoli di legno, e raffigurava una donna di spalle, di cui non si poteva vedere il viso. Bianco però si immaginò che la donna fosse una creatura bellissima e ne fu così impressionato che quando andò a dormire, nella celletta che il monaco gentile gli aveva assegnato, la sognò per tutta la notte e, nei suoi sogni, se ne innamorò alla follia.
Il giorno dopo Bianco si svegliò che si sentiva strano, gli pareva di aver passato una notte d’amore con una donna non solo bella, ma anche piena di passione, anche se lui avrebbe giurato che nulla era successo. Era di umore languido e innamorato. Comunque sia, prima di partire per proseguire il suo viaggio, si recò dal monaco che lo aveva aiutato la sera prima. Notò come fosse curioso che in quel convento così grande, non si vedesse nessun altro se non quel piccolo monacello magro e barbuto! Ma, com’è, come non è, Bianco chiese al monaco consigli per proseguire nel suo viaggio e quello gli disse tutto quello che lui avrebbe dovuto fare per arrivare in cima alla Montagna Più Alta Che C’è e prendere la pianta magica per guarire il re suo padre.
Bianco aveva scelto la strada della vita, disse il monaco, ma per avere la vita ora doveva proseguire ancora molto il suo cammino, che non sarebbe stato scevro da pericoli. Lungo il suo percorso infatti avrebbe incontrato un drago molto grosso e feroce, famoso perché ghiotto di cavalieri bianchi, belli e che tiravano bene con l’arco (Bianco deglutì). Il drago, proseguì il monacello, stava al di là della valle dove si trovava il monastero, proprio a ridosso della Montagna Più Alta Che C’è. Se Bianco avesse sconfitto il drago, la strada sarebbe stata finalmente libera e lui sarebbe arrivato in cima alla montagna in un battibaleno. Se invece però fosse fuggito e non l’avesse affrontato, beh, allora Bianco non avrebbe trovato la vita, ma la morte. Molti cavalieri prima di lui erano infatti passati da quel luogo, non avevano avuto il coraggio di affrontare il drago e ora giacevano nelle loro tombe, proprio lì, a pochi passi dal monastero. Mentre raccontava queste cose, il monaco scostò la tendina di una finestrella aguzza e mostrò a Bianco un cimitero poco distante, pieno di lapidi di cavalieri bianchi e baldanzosi, quasi tutti abilissimi a scagliare frecce. Bianco rabbrividì, ma fu solo un secondo. Gli venne in mente l’immagine della Papessa, pure se non aveva mai visto il suo volto - però se lo inventò e lo pensò bellissimo - e quel volto gli fece coraggio.
Così prese il suo arco, il cavallo e, dopo aver ringraziato il monaco e lanciato un bacio in segreto alla bellissima Papessa irraggiungibile, partì tutto fiero ed arrogante. Arrivò dopo la valle che era quasi già buio, e quando fu lì preparò arco e frecce. Era pronto a combattere, ma il drago si era accorto di tutto, quasi come se qualcuno lo avesse misteriosamente avvertito in anticipo dell’arrivo di Bianco. Lo aspettò nascosto nel buio, gli fece un agguato e se lo mangiò.
Rimasero per terra l’arco e le frecce e il cavallo corse via, forse verso il vecchio monastero ormai lontano. Ma una cosa strana era capitata. Il drago aveva mangiato Bianco e ora Bianco e il drago erano diventati la stessa cosa. Bianco era trasformato in un drago: nel drago anzi, proprio in quel drago lì. Così sputava fuoco, si arrabbiava moltissimo, mangiava la gente e non aveva il minimo senso dell’umorismo. Non che fosse cambiato moltissimo, insomma, ma ora faceva tutte le cose che fanno i draghi, altro che fierezza, coraggio e tutto il resto.

Nel frattempo, anche Nero aveva proseguito il suo cammino. Cammina cammina, presto si era trovato nel folto di una foresta sempre più fitta, finché non aveva visto aprirsi davanti a sé una strada. Al fondo di quella strada risplendeva un magnifico castello molto sfarzoso, bello grande e decisamente trendy, che sembrava progettato da una pagatissima archistar. Lì vicino c’era anche un villaggio e Nero vi sostò per un po’, per capire qualcosa su come fare a intrufolarsi nel castello, che evidentemente sarebbe stato la sua fortuna, in qualche modo misterioso che Nero intuiva ma non sapeva ancora. Dalla gente del villaggio Nero scoprì che si trattava del castello di una principessa molto ricca, ma così ricca, ma così ricca che chi l’avesse sposata avrebbe fatto la sua fortuna, anzi non solo la sua, ma la fortuna delle quattro generazioni successive, ma proprio come minimo. A Nero brillarono gli occhi, che ovviamente erano neri, come capita ai cartoni animati giapponesi quando sul lato in alto a sinistra della pupilla si vede luccicare una stella dalle punte lunghe e si sente una musichina che fa “tan tan!”.  Non ebbe dubbi nemmeno per un secondo ed entrò nella corte del castello.
In quella bellissima sera di luna piena, Nero intrattenne tutti con le sue arti magiche finché non gli riuscì di farsi invitare a cena. La principessa però non si vedeva. Passò l’aperitivo, passò la cena. Tutte cose buonissime da mangiare, per altro, e servizio impeccabile, ma niente principessa. Nero provò a chiedere di lei, ma la gente non diceva nulla, glissava, faceva strani sorrisetti, si scambiava (ironiche?) occhiate d’intesa senza che gli scappasse neppure una parola. Nero però non si demoralizzò. Aspetta aspetta, più tardi, ma molto più tardi, Nero venne fatto accomodare nelle stanze della giovane, addirittura dentro il suo letto bellissimo, tutto di seta. Gli dissero che lei sarebbe arrivata presto per amarlo tutta la notte. Nero era felicissimo e soddisfatto, per altro era certo fin dal principio del suo fascino! Per un attimo, è vero, durante la cena aveva temuto che quella della principessa fosse una bufala o uno scherzo, ma ora lui si sentiva al settimo cielo, pregustando la sua futura ricchezza. Per lui e per le quattro generazioni successive, ovviamente.
A notte inoltrata la principessa arrivò, quando Nero si stava già un po’ abbioccando, complice il lauto pasto di quella sera. La sentì entrare nella stanza e scivolargli accanto languidamente. Voleva aprire gli occhi, ma forse non ci riusciva o gli parve di sognare, perché non vide una donna, una donna vera, ma una strana creatura. Quando Nero capì di non stare sognando affatto, ma che quella era la realtà, era già troppo tardi. La principessa ricchissima infatti era un licantropo, o peggio ancora: com’è, come non è, la principessa era un lupo femmina molto molto feroce, che prima lo rapì e gli rovinò la costosissima mise di Armani (che Nero indossava SEMPRE quando andava a cavallo per le foreste, com’è ovvio) e poi se lo mangiò. Così, in modo non molto diverso da suo fratello Bianco, Nero si trovò suo malgrado trasformato in un lupo. Un lupo crudele, sempre affamato e mai contento.

Intanto anche Rosso aveva preso il suo cammino. La via della Morte non è che uno la prenda con tanto entusiasmo, diciamo la verità. Però con curiosità sì, e Rosso fin da bambino era stato sempre molto molto curioso. Cammina che ti cammina, però Rosso non aveva trovato nulla di particolarmente interessante, tanto che si annoiava persino un po’. Uno prende la strada della Morte, si immagina una cosa molto rock and roll come minimo insomma. E invece niente. Strada liscia e senza problemi, ruscelli, fiori e uccellini, locande amene con brave persone che lavorano e salutano cordiali. Rosso sperava in qualcosa di un tantino più divertente, e in cuor suo cominciava a dubitare del cartello che aveva trovato con i suoi fratelli dove la strada si divideva in tre. Forse era uno scherzo di qualche burlone, che poi c’era da aspettarselo, perché in un bosco pieno di folletti e spiritelli e tutto il resto uno non può mai stare tranquillo. In effetti, avrebbe dovuto capirlo prima, si diceva.
Mentre pensava queste cose, Rosso procedeva così, un po’ a piedi e un po’ a cavallo, canticchiando fra sé. A un certo punto vide davanti a lui un fiume, con un ponticello da passare per arrivare dall’altro lato della via. Stava per proseguire, quando una vecchina gli si avvicinò e gli chiese se per cortesia poteva accompagnarla oltre il ponte. Era una vecchina tipica di quelle che uno si immagina di incontrare nelle favole, dentro a un bosco popolato dai folletti eccetera. Vecchina, appunto, vestita di nero, sembrava la strega di Biancaneve di Walt Disney, le mancava giusto la mela. Però, a differenza della strega di Biancaneve, questa vecchina aveva una faccia abbastanza simpatica, mite, per quanto può essere mite una vecchina che uno incontra nel bosco delle favole eccetera eccetera, come abbiamo detto prima. Non è che Rosso non avesse mai letto una favola in vita sua, poi, quindi qualche cosa se l’aspettava, però, anche per far succedere qualcosa finalmente in quel giorno così monotono, acconsentì. Così, tutto cerimonioso e gentile, scortò la vecchina oltre il ponte, sull’altro lato del fiume.
Una volta toccata terra, si sarebbe aspettato di vedere la vecchina trasformarsi in una donna bellissima, che lo avrebbe steso a terra con un bacio. Oppure in una strega mostruosa che avrebbe tentato di ucciderlo. Oppure ancora in un misto delle due cose, cosa che sarebbe stata molto sexy. Ma la vecchina si limitò a dire semplicemente - Grazie giovanotto! e se ne andò per la sua via. Rosso a quel punto era davvero stufo. Che razza di avventura gli era capitata! Non succedeva mai nulla! Tutto prevedibile! Una palla unica! Nemmeno la routine delle favole con i mostri, le streghe e tutto il resto. Rosso sbuffò, prese le redini del suo cavallo e si diresse indietro, pronto ad attraversare il ponte e a ripercorrere tutta la strada a ritroso, fino al bivio delle strade che però erano tre, e fino al regno del paese Lontano Lontano.
Va beh, abbiamo scherzato! – Papà - avrebbe detto al Re - Piantala una volta con sta storia della pianta magica! Chiamiamo un medico normale! Ma non possiamo fare come le persone qualunque? Non puoi prendere gli antibiotici come tutti?
Mentre borbottava fra sé questi e altri improperi. Rosso stava ripercorrendo il ponte. Ma proprio in quel momento la vecchina di prima gli riapparve davanti. Stava per dire qualcosa tipo - Signora la prego, si sposti, gentilmente! tutto stizzito, quando la vecchina gonfiò le guance forte fortissimo e poi emise un soffio gigantesco. Si vide una specie di nuvolone grosso e rosso e Rosso cadde a terra, spaventato e sorpreso. Quando il nuvolone rosso si dissolse davanti a lui non c’era più la vecchina, ma una figura altissima, avvolta in un mantello nero, con un cappuccio enorme che le copriva il volto e i piedi che non si vedevano e parevano sfumare nel nulla. Rosso era un pochino spaventato, giusto un po’ (non è vero, era terrorizzato, ma non voleva ammetterlo nemmeno con se stesso). Ovviamente la figura davanti a lui era la Morte, nientemeno, con tanto di falce luccicante nella mano destra. Rosso fece per alzarsi, non sapeva che cosa fare, ma stare in piedi gli sembrò fosse un’idea migliore che giacere mezzo sdraiato per terra, con la Morte che si ergeva davanti a lui tutta fiera e orgogliosa.
- Ragazzo! disse la Morte. Rosso si voltò, non c’era nessun altro.
- Dice a me?
- Certo che dico a te! Vedi qualcun altro?
- No, no, ma non si arrabbi! Stia tranquilla!
- Ti sembro un tipo tranquillo? E poi dammi del tu! Cosa sono ‘sti convenevoli…
Rosso scosse la testa, cercando di sorridere e di fare il simpatico per salvare la situazione come poteva. La Morte era lì e voleva dargli del tu. Che spavento.
Ma, com’è, come non è, la Morte parlò con Rosso. Non che Rosso avesse proprio voglia di chiacchierare, ma in quel frangente non c’era molta scelta e Rosso dovette stare lì a sorbirsi tutta la manfrina della Morte che era stanca, che lavorava troppo, che non ce la faceva più, e che tutti parlavano male di lei e nessuno che riconoscesse il suo lavoro eccetera eccetera. A Rosso venne anche un po’ sonno, ma abbozzò e fece finta di sentire tutto e di essere d’accordo. Rispondeva cose tipo  - eh!- già! - eh beh, d’altronde è così! E altre cose inutili di quelle che si dicono giusto per troncare il discorso e non dare corda all’interlocutore, come – eeeh signora mia che cosa vuoi, sempre così! c’è chi sgobba e chi si diverte! e altri luoghi comuni. A un certo punto gli scappò anche un – e che ci vuoi fare? Però non lamentiamoci! Solo alla morte non c’è rimedio!
Quando disse questa cosa si rese conto di aver fatto un errore e si corresse subito, sperando che la Morte fosse spiritosa. Lo era, per fortuna. Ma in quel lungo discorso Rosso capì perché la gente ha paura che la morte la porti via con sé.
La Morte invece, dopo essersi sfogata, sembrava proprio contenta e rilassata, tanto che si offrì non solo di lasciarlo andare, ma anche di fare qualcosa per lui, qualsiasi cosa di cui avesse bisogno. Rosso ci pensò su proprio poco, perché aveva le idee molto chiare su quello che voleva, e chiese alla Morte di poter arrivare subito in cima ala Montagna Più Alta Che C’è, trovare la pianta magica e guarire suo padre. La Morte acconsentì e stava per andarsene, quando Rosso ci ripensò.
Un attimo, si disse, ma la Morte è stata vicino a me e mi ha parlato, potrebbe mentirmi e portarmi via con sé quando io non me ne accorgo, forse nel sonno.
- Aspetta – disse – Fermati. Se te ne vai, vivrò sempre nel terrore del tuo ritorno improvviso, quando ti avrò scordato. Vieni con me, non ti voglio nascondere ai miei occhi, voglio provare a capirti. Viaggiamo insieme, così che io ti possa conoscere meglio e tu forse avrai pietà di me e non mi ucciderai. Vuoi?
La Morte sorrise, anche se non era abituata a farlo, e acconsentì.
- Tranquillo, Rosso. Prima o poi verrai con me - rispose - ma non ora. Verrai quando sarà il momento, quando sarà giusto. Io non sono cattiva, sono una parte della vita, e tu lo hai capito. Chi sceglie la vita senza di me, invece, potrebbe avere qualche guaio, perché io e la Vita siamo legate strette e ci conosciamo molto bene.
- Vuoi dire che Bianco… - Rosso si preoccupò, pensando al fratello, ma la Morte lo interruppe subito, solerte, che uno non se lo aspetterebbe mai da una come lei.
- Eh no Rosso, ognuno è autore del suo destino. Bianco ha scelto come ha voluto, ora vivrà le conseguenze delle sue scelte, è nella natura delle cose.
- E la Natura delle cose sei tu?
- Sì, cioè no, non sono io, ma io ne faccio parte, ed è semplicemente così.
Rosso voleva sorridere, chiedere perché, ma sapeva che non avrebbe avuto risposta e si sentiva triste. Ma riprese il suo cammino, senza nascondersi la Morte al suo fianco. E adesso la Morte taceva, per fortuna.
Dopo un po’ che procedeva sentendosi così turbato, Rosso si accorse del profumo delle fragole, che veniva da un cespuglio sul suo cammino. Udì il rumore fresco dell’acqua di un ruscello. E le margherite del prato, che graziose e che profumo buono! Per non parlare dei pini. E gli animali. E la natura. Com’era bello il mondo, e la vita, com’era bella. La Morte accanto a lui sorrise tra sé, pensò che Rosso aveva capito, ed era così contenta che una lacrimuccia le scese sulla guancia. Fortuna che il manto nero le copriva il volto e nessuno vide nulla.
Da quel momento la strada per Rosso fu facile e piena di fiori, ma mai noiosa. Gli alberi avevano bellissimi frutti, i prati erano pieni di fiori e gli animali si accoppiavano felici. Rosso suonava la sua musica e la Morte ballava, anche se faceva un po’ ridere per il suo modo goffo di danzare.
Dopo un po’ di cammino la Morte parlò di nuovo, questa volta seriamente: - Rosso - disse la Morte - ora che hai accettato la mia presenza e sei pronto a lasciare andare la tua vita io so che hai capito qualcosa di molto importante e me ne posso andare. Ci vedremo quando sarai vecchio e sazio di anni, oppure quando non te lo aspetti, ma nel tuo cuore saprai che è venuto il momento di cominciare un altro cammino. Non ti scordare mai di quello che hai imparato oggi.
Poi la Morte fece una corsa stranissima. Si avvicinò a Rosso, si scostò il cappuccio dal viso e lo baciò sulla fronte. In quel momento Rosso spalancò gli occhi, stupito. Solo allora si accorse che la Morte aveva il volto di sua madre, la Regina che era mancata qualche anno fa e che a lui mancava da morire nel profondo del cuore, anche se faceva di tutto per non farlo vedere.
Profondamente commosso, Rosso si sedette sotto un albero e si addormentò. La Morte se n’era andata, sua madre con lei, e lui era solo. Si rese conto che poteva avere contemporaneamente due stati d’animo diversi nel suo cuore: serenità, e gioia per aver rivisto il volto di sua madre, ma anche tristezza e una strisciante e intensa inquietudine, come quando si capisce di essere di fronte ad un mistero tanto grande. Tuttavia Rosso si addormentò e al suo risveglio trovò accanto a sé una sorpresa meravigliosa.
Com’è, come non è, una splendida creatura aveva trovato un riposo per la notte poco distante da lui, sullo stesso prato. Era una donna bellissima che nulla aveva in comune con la Morte, anzi, profumava di vita fin nelle ossa. Rosso se ne innamorò subito e attese il suo risveglio. Quando lei aprì gli occhi anche lei si innamorò di Rosso, volle ascoltare il suo racconto e decise di accompagnarlo nel suo viaggio. La donna si chiamava Fantasia, ed era la donna più bella che sia mai nata sulla terra.

Così, dopo un po’, tra una chiacchiera e una confidenza, ridendo e scherzando (si fa per dire), Rosso arrivò finalmente alla Montagna Più Alta Che C’è, insieme con la donna bellissima che si chiamava Fantasia. Ma proprio ai piedi di quella montagna incontrò un drago feroce e cattivissimo. Ovviamente si trattava di Bianco, solo che Rosso non lo sapeva, né tanto meno la donna. Fantasia non ne fu spaventata neppure per un secondo, anzi uccise il drago e lei e Rosso se lo mangiarono a colazione.
Proseguirono così lungo le pendici della montagna, finché fu sera e i due viaggiatori incontrarono un lupo. Era Nero, solo che Rosso non lo sapeva, e nemmeno Fantasia. Così Rosso uccise il lupo e i due se lo mangiarono per cena.
Dormirono molto bene e fecero l’amore, e il giorno dopo, sazi e riposati, giunsero in cima alla montagna. La pianta magica era lì, pronta per essere prelevata. I due però ebbero cura di non strapparla, ma la presero con cura, ponendone le radici al sicuro in un sacchetto di tela grezza pieno di umida terra, di modo che la pianta potesse arrivare fino a Lontano Lontano ancora viva e palpitante. Poi Fantasia e Rosso presero la via del ritorno, dall’altra parte della montagna, felici e contenti come mai sono state due persone. Sembrava un miracolo, però a pensarci bene non lo era. Rosso e Fantasia erano felici come sono sempre le persone quando si innamorano senza fingere e senza farsi problemi che non esistono.
Nonostante questo però, dopo un po’ di cammino Rosso e Fantasia si accorsero però che i loro problemi non erano finiti. Dal lato da percorrere per il ritorno, la montagna era infatti abitata da un mostro molto brutto, dalla pelle grigia che sembrava di cemento, alto alto come un grattacielo che copre un panorama. Il mostro si chiamava Casciabanco ed era prigioniero della montagna. Era stato bloccato lì per sempre da una strega cattiva. Il fatto risaliva minimo minino, almeno a due secoli fa e, dopo tutto questo tempo di prigionia senza potersi mai sgranchire le gambe con una corsetta, Casciabanco era diventato veramente brutto e decisamente nervoso, vorrei vedere voi. Chissà perché la strega dispettosa l’aveva legato per il collo alle pareti della roccia con un guinzaglio di ferro e una catena che nessuno poteva spezzare. A dir la verità nessuno ci aveva mai nemmeno provato a spezzarla, quella catena. Non meraviglia pensare che, quando la gente vedeva Casciabanco, semplicemente ringraziava il destino che ci fosse quella catena a tenerlo fermo e correva via sui suoi passi per scendere dall’altra parte della montagna.
Ma Rosso e Fantasia non avevano tempo di tornare indietro, dovevano correre se volevano salvare il Re.
Quando Casciabanco li vide arrivare si mise a gridare, al suo solito, pieno di rabbia e di rancore com’era. Rosso e Fantasia però non si lasciarono impressionare, anzi, cercarono di fare amicizia. Rosso infatti pensava che Casciabanco era brutto e grosso e anche un po’ (tanto) nervoso, ma magari poi aveva anche lui delle qualità, chi può dirlo, e Fantasia era d’accordo. Com’è, come non è, per la logica che le cose non seguono mai nessuna logica sensata, anzi, qui i fatti vanno uno dietro l’altro per i fatti loro, appunto, invece di difendersi dal mostro Rosso e Fantasia ne ebbero pietà e lo liberarono. Casciabanco fu così felice e grato che non solo non se li mangiò, ma li prese sulle sue manone giganti color della pietra e li portò giù dalla montagna in un minuto, e loro fecero il viaggio felici e leggeri come non mai.
Quando giunsero alla valle Casciabanco, Rosso e Fantasia si giurarono eterna amicizia e si salutarono con grossi bacioni e abbraccioni e pacche sulle spalle. Tanto che Rosso cadde giù per la troppa foga di Casciabanco nel dargli una maschia pacca sulle spalle e tutti risero come matti.
Poi Rosso e Fantasia ripresero il viaggio e in pochissimo tempo furono di nuovo al bivio da cui era partita la storia dei tre fratelli, che poi non era un bivio, ma una strada che si divideva in tre diverse possibilità. Rosso pensava che lì avrebbe incontrato Bianco e Nero, ma ovviamente non c’era nessuno ad aspettarlo. Lui non poteva saperlo, ma Bianco e Nero se li era mangiati lui stesso, con Fantasia, qualche giorno prima, perché erano stati trasformati nel drago, Bianco, e nel lupo, Nero.
Dopo un po’ però i due fratelli arrivarono, tutti acciaccati e stanchi. Ma come! Direte voi. Che era successo? Niente, solo che, senza saperlo, quando Rosso e Fantasia avevano mangiato i due, inconsapevolmente li avevano liberati dai loro incantesimi. Infatti Rosso era diventato il drago quando il drago lo aveva mangiato, e così era successo a Nero, quando era stato mangiato dal lupo. Così Rosso e Fantasia, mangiando drago e lupo avevano liberato i due ragazzi, riportandoli in vita. Evviva! Solo che c’era un piccolissimo problema, anzi due. Bianco ora sputava fuoco quando parlava e Nero ringhiava come un lupo e aveva sempre fame, non si sa bene di che. Rosso non sapeva che fare, ma poi si rassegnò. Pensò che in fondo lui era felice, aveva preso la pianta, aveva incontrato Fantasia. È vero che aveva due fratelli un po’ così, che sputavano fuoco e ringhiavano… e va beh! Mica si può avere tutto! Così i quattro ripresero la via verso casa, Rosso e Fantasia felici e contenti, Bianco e Nero un po’ meno, ma, cosa volete che vi dica, speriamo che gli passi presto.
Giunti a casa, Lontano Lontano, i quattro trovarono il Re ancora ammalato. Rosso si precipitò ad offrirgli la pianta magica, ma inaspettatamente lui la rifiutò e non ne volle sapere. Il re raccontò che la Morte era stata lì e lui aveva imparato a conoscerla, anche se questo gli aveva procurato molta sofferenza e un profondo dolore. Però dopo un po’ il dolore era cessato e lui aveva capito che se ne doveva andare. Il regno di Lontano Lontano aveva bisogno di un nuovo re, giovane e coraggioso, con un cuore grande e un gran senso dell’umorismo. Rosso non era il prescelto per natura, ma aveva dimostrato di avere queste doti molto più dei suoi fratelli e quindi il Re abdicò e gli donò la sua corona, con grande commozione.
Così il Re invecchiò che non era più re e un giorno, che però era ancora lontano lontano da venire, morì. Rosso sposò Fantasia, e la pianta magica venne coltivata in un meraviglioso giardino segreto, al centro del castello, ma in un posto che nessuno conosceva se non il Re e i due sposi.
E gli altri? Beh, Bianco mise su un’azienda farmaceutica specializzata in caramelle balsamiche contro il bruciore di gola e sposò una farmacista. Nero invece aprì un ristorante con la nonna di Cappuccetto Rosso, che allora era ancora giovane e molto molto bella, e che indossava certi vestitini rossi attillati che facevano girare la testa a tutti i folletti della foresta. E niente, la favola finisce così, che erano tutti felici e contenti e lo sarebbero stati ancora per molti anni.
Ah dimenticavo una cosa. Fantasia era anche lei una principessa e quando lei e Rosso si sposarono i regni dei due sposi si unirono e ci fu una grandissima festa. Tra l’altro, alla festa c’era anche un monaco che portò gli auguri della Papessa, la quale si scusava, ma non era potuta venire. C’era poi una signora vestita di nero, che non si mostrava mai in volto e che nessuno ricordava di aver invitato. Ma non era questo che volevo raccontare, volevo dire un’altra cosa.

Tenete presente che Rosso era cavaliere di nome e di fatto, e così, quando il suo regno si unì a quello di Fantasia, Rosso rinunciò volentieri al nome del suo paese antico. Il nuovo regno, nato dal matrimonio con Fantasia, prese il nome di quello della sua consorte. Voleva però il caso che il regno di Fantasia si chiamasse Vicino Ma Molto Vicino. Praticamente Qui (anche con il punto tra Vicino e Praticamente, ennedierre), cosa che sembrava fatta apposta, come una contraddizione tra ciò che è lontano e ciò che è vicino. E davvero è un nome strano per un regno no? Eppure era proprio così, che cosa volete che vi dica. E com’è, come non è, fatto sta che adesso ciò che era Lontano Lontano è diventato Vicino ma Molto Vicino, Praticamente Qui - e Fantasia è davvero molto contenta.