Lo Spirito dell’Utopia
di Maria Cristina Strati
non
trovi. Peggio ancora poi se il tempo che devi dedicare a cercare è rubato a un
giorno che
credevi
infine tranquillo, in cui progettavi di dedicarti a qualcosa per te importante.
Una piovosa
domenica
d’autunno che sembrava fatta apposta per scrivere e per meditare, Dea non
trovava più
un
libro essenziale per il suo lavoro: sembrava che la libreria l’avesse ingoiato,
senza lasciarne
traccia.
Era
una domenica come tante, per tutti, ma non per Dea, che approfittava dell’assenza
di Roberto,
il
suo compagno, per scrivere in santa pace. Recentemente per lei era difficile
trovare un po’ di
tempo
per concentrarsi, tra lavoro, fidanzato e problemi vari: ma quel giorno Dea era
piena di
buoni
propositi. Il saggio sul concetto di futuro a cui stava lavorando la
entusiasmava, perciò,
nonostante
fosse domenica, si era alzata presto. Caffè, brioche, pigiamone e occhiali: il
look
perfetto
dello scrittore al mattino presto. Ma sul più bello, quando le sembrava di aver
trovato il
ritmo
giusto, si era ricordata di quel volume che le serviva. E niente, il libro era
sparito, non si
trovava
Dea
era parecchio seccata, nella sua mente vedeva sgretolarsi la chimera di quel
mattino, con lei
nei
panni dello scrittore intento nella sua opera, con buona musica in sottofondo,
il gatto
accoccolato
vicino e la città ancora addormentata, insolitamente quieta là fuori, quando è
ancora
buio.
Oltre
agli studi, Dea lavorava da poco per una start up di e-commerce, un po’ per
sostenere il suo
lavoro
di ricerca e un po’ per aiutare Roberto, che faceva l’artista esordiente e di
soldi non ne
vedeva
mai. “Ok. Prendiamo te, almeno sei decorativa!” le avevano detto al colloquio.
A parlare
non
era stato, come ci si potrebbe aspettare, che ne so, un marpione qualunque,
magari alle soglie
dell’andropausa,
ma una donna come lei, una tipa con l’aria (a quanto pare, falsamente)
progressista.
Comunque sia, il lavoro è lavoro e mica si può dire di no.
Così
Dea, trentotto anni, laurea con il massimo dei voti e master in comunicazione,
che parlava tre
lingue
e pubblicava testi su testate a diffusione nazionale da un bel po’, si era
trovata a scrivere
testi
di botanica per un sito di vendita di piante online. Quello che si dice un
lavoro sicuro - se non
altro
per i prossimi sei mesi, con promessa di rinnovo del contratto.
Dea
avrebbe voluto approfondire gli studi, scrivere libri, occuparsi delle sue
passioni e farle
fruttare
trasformandole in lavori veri. Sì, borbottava la sua vocina interiore: forse in
un altro
mondo!
Difatti le cose non andavano come nei sogni e la vita stava costringendo Dea a
fare altre
scelte.
Le amiche e i suoi non mancavano mai di farle notare che il tempo passava, che
era ora di
sposarsi,
metter su famiglia, e a questo scopo Roberto pareva a tutti il candidato
ideale.
Talentuoso,
con la battuta pronta, simpatico e con l’aria del bravo ragazzo, serio quanto
basta:
insomma,
un buon marito con cui, mal che vada, chiudi un occhio su una scappatella ogni
tanto. Al
principio
anche Dea aveva subito il fascino di Roberto, ma ora forse lui la tradiva e l’incanto
era
svanito.
Sapeva di non esserne più innamorata, ma alla fine questo non era che un
particolare.
Dea
diceva che andava bene così, che bisogna accettare qualche piccolo compromesso,
insomma,
bisogna
tenere i piedi per terra.
Mentre
cercava il libro e pensava queste cose, Dea si rese conto di aver perso lo
spirito dell’utopia.
Lo spirito dell’utopia è il
titolo di un noto testo del 1918 opera del filosofo tedesco Ernst Bloch.
Certo,
come si dice, ironia della sorte: un titolo, un programma.
Dea
cercò ovunque: libreria, cassetti, armadi, scaffali della cucina e frigorifero.
Niente spirito
dell’utopia.
Trovò vestiti di cui si era scordata, come quello scollato che aveva messo a
capodanno,
e un
paio di scarpe con il tacco alto che non indossava più da tanto perché non c’erano
occasioni.
Com’erano
belle, però. Cedette alla voglia di provarle davanti allo specchio e,
nonostante il
pigiama,
vide che le stavano molto bene. Che belle gambe. Roberto queste cose non gliele
diceva
più,
toccava dirsele da sola.
Deambulando
sui tacchi, cercò anche tra le cose di Roberto: qualche dvd, vestiti da lavare,
un paio
di
libri del tutto vergini da lettura umana. Niente, lì dello spirito dell’utopia
non c’era traccia.
A
malincuore Dea rinunciò ufficialmente alla mattinata di scrittura. Si vestì, si
mise un filo di trucco
e,
chissà perché, anche le belle scarpe di prima e una gonna lunga e colorata che
non metteva più
da un
sacco di tempo, ma che le donava molto. Poi si recò a casa dei suoi, per
fortuna poco
distante,
per vedere se per caso il libro fosse rimasto là.
La
visita fu inutile. Anche lì non trovò nulla, a parte lo sguardo ironico di sua
sorella maggiore che,
fissandole
le scarpe alzò un sopracciglio e mormorò un simpatico “ma come ti sei conciata?”.
Poi le
chiese
se aveva qualche soldo da prestarle, dato che era eternamente in bolletta. Dea
mostrò le
tasche
vuote, scosse la testa e se ne andò.
Fu
così che, una domenica che Battisti non avrebbe esitato a definire uggiosa, Dea
prese atto che
lo
spirito dell’utopia si era dileguato dalla sua vita. Lo Spirito dell’Utopia,
volevo dire.
Pioveva
e Dea camminò a lungo, cercando nelle bancarelle del centro una copia del
libro. Ma
Bloch
era introvabile e Dea si sentiva delusa e anche sola. Accelerò il passo per
tornare a casa e
salvare
il salvabile di quella mattina perduta che, come la sua vita, d’improvviso le
appariva
sprecata
e senza direzione.
Siccome
però alla sfiga non c’è mai fine, un passante la urtò e Dea scivolò sull’asfalto,
storcendosi
una
caviglia, complice il tacco festaiolo poco adatto alla mattina di pioggia. Si
rialzò e nonostante il
dolore
al piede, si trascinò in un bar vicino, dove si sedette e chiese qualcosa da
bere e da
mangiare.
Il barista era gentile, sorrise, le servì con sollecitudine un panino e una
brocca d’acqua
fresca
con un bicchiere per servirsi.
Era
una brocca antica, o così sembrava, decorata con il volto di un uomo barbuto in
rilievo, una
specie
di pirata Barbarossa dallo sguardo torvo e serio. Dea sorrise, era un bell’oggetto:
senza
senso,
ma bello. Probabilmente era stato prodotto in serie e comprato al mercatino di
un qualsiasi
lungomare,
ma Dea s’immaginò che fosse fatto a mano, dipinto da qualcuno con impegno un
giorno
d’estate.
Strano
trovare una brocca così in un bar del centro: sembrava la caricatura di un’altra
brocca,
quella
da cui Ernst Bloch prende le mosse per la sua riflessione filosofica nelle
prime pagine di un
libro
pieno zeppo di belle cose da pensare. Dea era affascinata dalla curiosa
sincronia e la sua
fantasia
si animò. Versò un po’ d’acqua nel bicchiere e bevve un sorso. Era fresca, le
faceva bene.
Quasi
si scordò il dolore alla caviglia, lo sguardo di sua sorella, la giornata ormai
perduta, Roberto
e la
pioggia.
Non
accadde nulla, eppure in un momento il mondo di Dea cambiò. Un po’ come quando
si viaggia
dal
Piemonte verso la Liguria: dopo una curva d’improvviso vedi il mare, così,
senza che niente lo
annunciasse
solo un secondo prima. E c’è sempre un bambino di qualsiasi età che spalanca
gli
occhi,
indica col dito e dice “Il mare!”.
Una
volta le brocche come quella si facevano a mano, forgiandole con amore e
dedizione. Come
sarebbe
bello lavorare con quello spirito, pensò Dea, e farci da sole a mano la nostra
vita, come le
nostre
nonne si cucivano da sé i propri vestiti. Si ricordò di aver letto da qualche
parte il mito di
Urdr,
che in una lingua antica vuol dire destino. Questa divinità femminile dal nome
impronunciabile
presiedeva alla fonte della vita, cioè una sorgente dorata che indicava ai
morti la
strada
per l’aldilà e ai vivi la via nella vita. Urdr sapeva che cosa andava lasciato
e che cosa invece
doveva
essere coltivato e incoraggiato. Lasciar morire ciò che deve morire e lasciar
vivere ciò che
deve
vivere: questo è il coraggio, tutto femminile, che serve, nient’altro, pensò
Dea. E per un
attimo
la vide, come in un sogno. Era Urdr, ma anche Iside, Diana, Venere. Era Maria e
miliardi di
altre
donne che hanno vissuto, sofferto, gioito e combattuto nei secoli dei secoli.
Era come se
fossero
tutte lì, dentro il suo cuore.
Fuori
non accennava a spiovere, anzi, la pioggia batteva sempre più forte, come i
tamburi di
un’antica
danza tribale. Sembrava acqua benedetta, che pulisce l’aria e apre il respiro.
Nonostante
il
tempo e il piede dolente, Dea si diresse zoppicando verso casa.
Varcò
la soglia del bilocale ancora vuoto, si cambiò in fretta gli abiti bagnati e si
buttò pensosa sul
divano.
Abbassando lo sguardo, vide qualcosa sotto la gamba claudicante del tavolino
davanti alla
tv.
Ecco dov’era finito Lo Spirito dell’Utopia: a reggere la gamba di un tavolo che non stava più in
piedi.
Solo Roberto poteva averlo messo lì. Perché lui, questo ormai le era chiaro,
non aveva capito
niente
dello spirito dell’utopia.
Dea
prese in mano il libro. Il tavolino crollò di lato, alcune riviste scivolarono
in terra, ma lei non ci
fece
caso. Si ricordò perché quel libro le piacesse tanto. Alla sua mente ingenua e
visionaria di
matricola,
Bloch era servito per capire che l’utopia non è per gente con la testa tra le
nuvole, ma è
qualcosa
di molto concreto, che vuole essere realizzato. Ogni cosa è illuminata, diceva
qualcuno:
anche
la pioggia che batte per terra come una danza africana, un libro, un tavolo che
non sta dritto
e un
paio di scarpe col tacco.
Dea
decise di lasciare Roberto e il lavoro decorativo. Nonostante il piede dolente,
tirò fuori la sua
valigia,
la riempì e poi se ne andò. Non sapeva ancora che cosa sarebbe stato di lei:
certo avrebbe
finito
il suo studio, poi chissà.
L’ho
incontrata quando usciva, quella domenica di pioggia. Mi ha salutato con la
mano ed ha
sorriso,
lo sguardo pieno di speranza di chi vuole andare avanti con le proprie gambe,
anche se zoppica un po’.