Pubblico anche qui il testo in catalogo per la mostra:
@ Riccardo Costantini Contemporary, Torino
dal 20 giugno 2013
a
cura di Maria Cristina Strati
Immagini di città
“Viaggiare non è solamente partire, partire e tornare,
ma imparare le lingue degli altri, imparare ad amare”
(Francesco De Gregori)
Principalmente, che ne siamo coscienti o meno, per il mondo
del mercato generalizzato in cui viviamo e ci muoviamo, siamo tutti
consumatori.
Occasionalmente, per alcuni brevi e fortunati periodi prima
delle elezioni politiche, amministrative, o prima di qualche referendum, ci
trasformiamo in rispettatissimi elettori, degni di ogni diritto ed attenzione.
Qualche volta poi siamo clienti, o utenti di questo o quel servizio; altre
volte contribuenti o pazienti. Più raramente siamo lettori o spettatori,
oppure, più genericamente - anzi indiscriminatamente - siamo “pubblico”, più o
meno pagante.
Altre volte ancora, e ancora più raramente, ci ricordiamo però
di essere quello che in realtà, grazie al fatto di vivere in una comunità e in
uno stato democratico, dovremmo sempre sentire di essere: cioè, cittadini.
La parola cittadino ha radici antichissime e un profondo
significato, intriso di connotazioni culturali, ma anche, in qualche modo,
emotive, sedimentate nel corso dei secoli e nel susseguirsi degli avvenimenti
storici.
Nell’antichità essere cittadino romano significava godere di
diritti particolari, costituiva un vero e proprio status sociale. Ad esempio, secondo
gli Atti degli Apostoli, quando Paolo di Tarso è catturato, all’epoca delle
persecuzioni contro i cristiani, si salva dichiarando il suo essere cittadino
romano “di nascita”[1].
Ai tempi della Rivoluzione Francese invece il cittadino, il citoyen, era portatore dei diritti di
libertà e uguaglianza sanciti dalla Dichiarazione
dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789); e il documento del 1789
divenne la base della Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo adottata dalle Nazioni Unite nel 1948.
Se dunque il cittadino è colui che vive in una città e la
abita, questo suo abitare, vivere, lavorare e lasciarsi contaminare dallo
spazio urbano e dalle possibili interazioni con il resto della popolazione, assume
un significato particolarmente intenso, denso di connotazioni storiche, sociali
e, nel senso più ampio, politiche. Il termine stesso “politica”, com’è noto,
viene infatti dal greco Polis, città.
Essere cittadini, vivere la città, ha dunque un senso e un
significato molto più ampio e profondo di quanto non sembri a un primo sguardo
superficiale o nei discorsi della quotidianità.
Mario Daniele, Nei musei #1, 2012 |
Esiste un libro di Walter Benjamin, pubblicato postumo, dal
titolo Immagini di città[2].
Peter Szondi, curatore del volume, ha raccolto diversi scritti del filosofo
tedesco, ognuno dedicato a una città descritta da Benjamin secondo la propria
esperienza. Scorrendo le pagine del libro, davanti ai nostri occhi scorrono le
immagini di Mosca, Marsiglia, Napoli e altri luoghi, che il filosofo interpreta
e legge con la sua profonda sensibilità, alternando visioni a meditazioni,
osservazioni, motivi personali, psicologici, filosofici e molto altro.
Immagini di città
potrebbe tranquillamente essere il titolo di questo progetto espositivo. Seguendo
il percorso fatto di immagini fotografiche – che siano più o meno fedeli alla
realtà o interpretate di volta in volta dall’autore - possiamo vestire i panni
del viaggiatore o del flâneur di
benjaminiana memoria e lasciar vagare il nostro sguardo alla deriva, nei
meandri di percorsi e paesaggi urbani differenti. Incontriamo immagini di
luoghi, strade, monumenti, dall’Italia a New York, dai musei alle piazze, fino alle
stazioni del metrò, come turisti alla ricerca di suggestioni e impressioni.
I fotografi coinvolti nel progetto sono (in rigoroso ordine
alfabetico): Mario Daniele, Gianpiero Fanuli, Pierpaolo Maggini, Piero Mollica,
Patrick van Roy e Silvio Zangarini.
Pur vantando tutti una grande abilità tecnica dal punto di
vista dell’esecuzione dei lavori, gli autori selezionati per questo progetto
provengono da diverse esperienze professionali e umane, e hanno tipologie di
ricerca tra loro anche molto dissimili. Proprio per questa ragione è quindi interessante
leggere i lavori senza porre limiti all’immaginazione, lasciandosi guidare
dalle suggestioni che le opere suggeriscono, in un viaggio virtuale (o meglio,
interiore) fatto di sguardi, visioni e modi di osservare il mondo metropolitano,
cogliendo ogni volta spunti e aspetti ogni volta nuovi.
Il titolo di questo progetto espositivo non è però Immagini di città, ma evoca, come appare
immediatamente, il verso di una famosissima canzone di Giorgio Gaber, anch’essa
ovviamente ispirata al tema della città. Com’è
bella la città è una canzone del 1969 in cui Gaber, con geniale ironia,
mentre sembra vantare l’indomita vitalità e la produttività della metropoli,
nell’esecuzione del brano e nella sua rappresentazione teatrale, arriva a porre
in evidenza gli aspetti nevrotici della vita cittadina: l’essere sempre di
corsa, l’ansia del reddito, la mancanza di pace, di meditazione e condivisione,
e persino (a volte) di allegria.
Ampliando la riflessione, dal punto di vista di Gaber, chi
vive in città rischia di trasformarsi prima di tutto in un consumatore un po’
nevrotico, che si muove affannosamente tra traffico e vetrine, abbagliato dalle
luci e dalla smania produttiva. In altre parole, il tipo umano di cui parla
Gaber in questa canzone, pur sinceramente innamorato della propria città, non
somiglia molto al viaggiatore benjaminiano che osserva, annota e riflette,
pronto a cogliere ogni spunto di suggestione e di bellezza, né tantomeno si
ricorda di essere prima di tutto, appunto, un cittadino.
Questa riflessione è interessante perché i lavori proposti
dai fotografi in mostra indagano il rapporto tra contesto urbano e
architettonico, ma soprattutto pongono l’accento sul ruolo dell’essere umano
inserito in questo stesso contesto. È vero che, in quasi tutte le immagini
esposte, l’essere umano è percepito spesso piuttosto come un’assenza, a volte
quasi metafisica; oppure resta non identificato, confuso con una massa anonima,
che annulla l’individuo e lascia prevalere il silenzio e la mancanza di dialogo
interpersonale. Ma proprio questa assenza allude, pure se in maniera antinomica,
alla sua presenza. Già solo perché tutto, nei luoghi ritratti, è frutto del
lavoro dell’essere umano, prodotto della sua azione e creatività.
Piero Mollica, NYC, 2012 |
Nelle fotografie di Piero Mollica, ad esempio, l’autore pare
indovinare negli scorci cittadini, visioni composte ed euritmiche. È l’anima
dei luoghi che traspira e si riconosce nei ritmi cromatici e geometrici creati
dalle costruzioni e dai palazzi che si
intersecano l’uno con l’altro, come mosaici, nelle visioni cittadine; qui a sua
volta la fotografia si fa gesto, sogno da inventare, occasione da cogliere.
Nelle visioni plastiche e luminose dei lavori di Gianpiero Fanuli,
che evocano per certi versi ambienti dall’atmosfera vagamente affini alla
pittura metafisica e per altri i deserti urbani di Hopper, l’essere umano
invece finalmente appare, ma spesso di spalle, quasi affogato nell’ambiente di
cui fa parte, solo, e senza che sia possibile identificarlo, dargli un nome
proprio.
Gianpiero Fanuli, Urban Landscape 2013 |
Come sostiene Giorgio Agamben,
porre l’accento sulla continua tensione tra singolarità e appartenenza a una
comunità, ossia sull’esser-qualunque
inteso come qualcosa a metà strada tra singolare e universale, è caratteristica
propria del mezzo fotografico[3].
Mentre la pittura, nel ritratto, ambisce formalmente a rendere l’unicità e l’irripetibile
individualità della persona, la fotografia coglie invece i corpi e volti umani nel
loro esser-qualunque: in un’immagine
fotografica il corpo umano diventa parte del paesaggio stesso, è “emancipato dai suoi modelli teologici”[4],
riconoscendosi infine uno fra tanti e proprio per questo qualcuno in cui tutti
e ciascuno possono ritrovarsi.
Nei lavori di Pierpaolo Maggini l’individuo è infatti
assorbito dalla folla e in esso confuso. Al contempo però l’autore sente di
doversi riappropriare formalmente della visione restituita dall’obiettivo
fotografico, ridipingendo, tratto dopo tratto, l’immagine prima scattata. Con
questo gesto Maggini opera una sorta di redenzione, di rappacificazione tra
spazio e individuo, non-luogo e abitabilità.
Patrick Van Roy, Osseghem, Bruxelles, 2005 |
Le fotografie di Patrick Van Roy mettono invece in luce un
atteggiamento un po’ virtuosamente voyeuristico: soggetti delle sue immagini sono
momenti qualunque di persone qualunque, come le famiglie spiate, letteralmente,
dalle finestre senza serrande tipiche delle città nordiche. Ci si aspetterebbe
veder scivolare l’inquadratura della telecamera andando più vicino: un volto
specifico assumerebbe allora più determinati contorni e avrebbe inizio una
storia, una vicenda. È questa la città vissuta, quella delle storie normali e
personali - spesso romanzi inespressi, che restano sospesi nella ragnatela di
una prosaica quotidianità.
In questo senso diremo, sempre con Agamben[5],
che ciò che la fotografia coglie dell’essere umano – così come del luogo
ritratto nell’immagine – non ha solo e semplicemente a che fare con una persona
individuale, ma rimanda invece a qualcosa di misterioso, archetipico, insieme
molto più essenziale e generalmente valido.
Pierpaolo Maggini, A sud di nessun nord n.7, 2012 |
La fotografia mostra qualcosa del singolo individuo in cui però
ciascuno può riconoscere se stesso, così come altre persone che gli sono care,
e qualcosa di simile capita con i luoghi e gli scorci cittadini riprodotti
nelle immagini fotografiche. Seguendo Agamben, ciò che appare della persona o
della città nella foto, è la sua anima, o la sua aecceitas[6]: è, in altre
parole, l’unicità essenziale di essere umano che ciascuno di noi condivide con
gli altri suoi simili, come voleva il filosofo medievale Duns Scoto[7].
Vengono in mente le antiche credenze, ancora diffuse in qualche civiltà, per
cui la fotografia “ruba l’anima delle persone”. L’affermazione non è del tutto
falsa, anche se va presa, ovviamente, come una metafora poetica. Perché ciò che
appare nelle foto, ciò che la foto testimonia, è la nostra essenza imprescindibile:
è ciò che fa di noi molto più di semplici consumatori o turisti. È quel quid difficile da descrivere a parole,
che rende possibile il nostro essere, in senso profondo, cittadini di una
polis: sia questa una polis-città specifica e fisica, delimitata da un preciso
piano regolatore, oppure (e soprattutto) un’idea molto più ampia e variegata,
che ha a che fare con l’identità culturale e con la possibilità del dialogo con
gli altri.
A proposito di cultura e identità culturale, nei lavori di Mario
Daniele osserviamo la gente in visita al museo. Qui la location quasi
sacralizzata e vagamente funebre del museo, è profanata da una presenza umana
allegramente invadente. Le sale del museo non sono rese come accade, nella loro
spesso inospitale inviolabilità, ma sono viste con gli occhi dei turisti che le
abitano e le vivono, salendo e scendendo le scale o fermandosi per riposarsi o
magari mangiare un panino.
Gli occhi di Silvio Zangarini scorrono invece su e giù per
le scale di luoghi storici, o lungo l’ampiezza e profondità delle piazze
italiane, svelando linee barocche e imprevedibili effetti alla Escher: a
mostrare l’intrinseca mobilità e plasticità delle umane percezioni e ad
indicare la possibilità che gli stessi spazi fisici, esterni o interni, possano
mettersi essi stessi in dialogo con chi li abita.
Alla fine, dal percorso tra queste visioni e opere, emerge
una visione della città che ha a che fare con un atteggiamento soprattutto
poetico. Il rapporto tra città e cittadino si scopre biunivoco, ricco di
aperture e dialoghi possibili.
Riflettendo scopriamo infatti che, in un senso immediato, il
cittadino crea e dà forma alla città, non soltanto attraverso leggi, decreti e
scelte urbanistiche e architettoniche di chi di dovere, ma anche e soprattutto
per il modo in cui ciascun singolo la abita e letteralmente la anima, attraverso
i propri vissuti, scelte di vita e visioni.
Ma, nel contempo, ci accorgiamo però che è vera anche la
reciproca: anche lo spazio urbano può, a sua volta, collaborare alla presa di
coscienza della persona, così come alla sua mistificazione (s’intende, della
coscienza). Come ci raccontano le immagini in mostra, la città parla a noi, di
noi, tanto quanto noi possiamo parlare di lei.
In una notissima favola di Michael Ende[8],
a un certo punto il ragazzino protagonista della vicenda incontra una casa
magica fatta di fiori e frutti, capace di trasformarsi e rinnovarsi
continuamente e così facendo di trasformare anche colui che la abita. Può
succedere qualcosa di simile a chi vive in una città o la visita, abitandola
per un po’? I lavori dei fotografi selezionati per questa mostra paiono volerci
dire che qualcosa del genere capita anche a noi, e si gioca nel rapporto tra
noi e la città, o le città, che abitiamo. Perciò possiamo dire che la città ci
accoglie e ci trasforma, con le sue immagini, sapori, ricordi: si forma intorno
a noi, dentro di noi, e ci dà forma. È però nostro compito decidere il modo in
cui vogliamo abitarla: se da semplici turisti, romantici voyeur, voraci consumatori
o cittadini consapevoli.
Silvio Zangarini, Palazzo Granieri della Rocca, 2011 |
Oggi la città del futuro si autodefinisce smart e si vede fatta di areee pedonali,
giardini, futuribili biciclette, car
sharing e wi-fi per tutti (e
quando lo dice sembra che si atteggi un po’, come chi si mette in posa per una
fotografia). Ma c’è una visione ancora più poetica e più ricca della città, qualcosa
che le fotografie in mostra non lasciano inespressa.
Un famoso e fulmineo racconto di Jorge Luis Borges narra di
un uomo che vuole disegnare il mondo, tutto il mondo. Per anni e anni,
ques’uomo disegna tutto quello che vede e che sente, e intanto vive e diventa
vecchio. Poi, poco prima di morire, riguardando il disegno tracciato nel tempo,
scopre di aver raffigurato il proprio volto. Così è l’esperienza della città, specie
quando ha la fortuna di essere filtrata dalle visioni dell’arte e della
fotografia: come dire, in altre parole, che le visioni delle città, dei luoghi,
ci parlano o, meglio, parlano di noi. Sentirsi cittadini ha dunque anche questo
senso poetico: trovare noi stessi. A volte, chissà, magari anche scoprire cose
di noi che neppure immaginavamo.
Ma, come sappiamo, tutto questo ha soprattutto un senso
politico. Infatti, ciò che emerge dall’analisi delle opere ha a che fare con
una presa di coscienza, indica anche e soprattutto la necessità di una
riflessione e di una scelta conseguente. Perché, se lo vogliamo, e ce ne
ricordiamo, possiamo essere molto più che abitanti di una città, nient’altro
che numeri stimabili in cifre e sondaggi statistici.
Siamo cittadini: magari cittadini che sanno viaggiare, non
più appartenenti ad una sola città, ma abitanti consapevoli di un contesto
molto più ampio, oggi europeo.
Un film di Wim Wenders del 1994, narra la storia di un uomo
che vaga per Lisbona alla ricerca di un vecchio regista, portando sulle spalle
una videocamera che registra tutte le immagini, qualsiasi immagine, e così
racconta poeticamente la vita del luogo. All’inizio del film il protagonista si
trova alla dogana e, quando si accorge di non dover mostrare il passaporto per
varcare il confine, dichiara orgogliosamente, in uno stentato portoghese: “io
sono europeo”[9].
Qualcosa del genere capita anche a noi, cittadini di oggi, chiamati a costruire
la nostra identità culturale attraverso una molteplicità di visioni e di
incontri sempre nuovi e diversi, con tutti gli entusiasmi, le difficoltà e le
responsabilità che questo comporta.
Tornando a Giorgio Gaber, per concludere, cittadino non è
dunque soltanto e semplicemente colui che vive in una città “coi grattacieli sempre più alti e tante
macchine sempre di più”. Cittadino è invece anche e soprattutto chi
riconosce a se stesso il diritto/dovere della partecipazione alla vita della
comunità a cui è chiamato dalla vita e dalla storia (personale e non solo) ad
appartenere. Prerogativa del cittadino è la libertà, nel senso profondissimo
del termine.
Ma la libertà non è poter fare quello che si vuole tout-court, come se si potesse (o fosse
desiderabile) retrocedere ad uno stato brado animalesco. Libertà non è nemmeno
vagare a zonzo senza una meta o un’idea. La libertà non va poi confusa con il
libero arbitrio o con la mera l’assenza di controllo o limitazioni morali o
ideologiche: la libertà non è poter avere o, peggio, comprare tutto quello che
si vuole. Certo, alcune di queste sono condizioni importanti per una buona
qualità della vita (altre, in effetti, meno!): ma la libertà è molto più di
questo.
Essere liberi è essere e riconoscersi (anche reciprocamente,
l’uno con l’altro) cittadini: con tutti i diritti e doveri che questo comporta,
molto oltre – e più essenzialmente – di qualsiasi ius sanguinis.
Occorre quindi abbandonare l’atteggiamento passivo, e
decidersi per la libertà che, in quanto cittadini, ci compete. L’arte (in
generale, ma nelle ricerche di questi artisti in particolare) in questo senso
può essere di grande aiuto alla necessaria presa di coscienza.
Qualcuno si sarà accorto che prima stavo ancora,
tacitamente, parafrasando il grandissimo Giorgio Gaber. Perché non si può non
essere d’accordo che il senso dell’essere cittadini stia anche e soprattutto nel
capire che: “Libertà non è stare sopra un
albero, non è neanche il volo di un moscone. La libertà non è uno spazio
libero. Libertà è partecipazione[10]”.
Maria Cristina Strati
[1]Cfr. Atti degli Apostoli 22,25
[2] Walter Benjamin, Immagini
di Città, a cura di Peter Szondi, Einaudi, Torino 2007
[3] Giorgio Agamben, La
Comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp.42/43
[4] Ibidem
[5] Giorgio Agamben, Profanazioni,
Ed. Nottetempo, Roma, 2005, p. 29
[6] Cfr. Agamben op. cit.
[7]
Citato sempre da Agamben, ibidem
[8] Mi riferisco a La
Storia Infinita, edita in Italia da Corbaccio, 2011
[9] Wim Wenders, Lisbon
Story, 1994
[10]
Giorgio Gaber, La Libertà, 1972