Qui sotto il testo per la mostra Chic chic chic (chck chck chck) di Ubay Murillo @ Riccardo Costantini Contemporary.
La mostra inaugura il prossimo 16 maggio. Buona lettura!
Ubay Murillo, Leer , oio su tela, 2012 |
#OccupyPainting? Come fare la rivoluzione senza perdere la
testa. O anche no
Di Maria Cristina Strati
Avviso alle fashion victims: il titolo di questa mostra, Chic chic chic (chck chck chck), ha poco
a che fare con il mondo della moda, dei vari trends e delle insalate bionde[1].
Lungi dal configurarsi come un invito ad assaporare il fascino discreto della
borghesia, il titolo scelto da Ubay Murillo per la sua prima mostra personale a
Torino si ispira al nome di una punk rock band e rimanda, in modo ironico e
onomatopeico, al suono procurato dalla lama di una ghigliottina nell’atto di
calare la lama sul collo di un condannato. E tagliare.
Le figure riprodotte nei dipinti a olio di Murillo sono infatti
tutte senza testa, spesso anche senza corpo, e, oltre alla ghigliottina, non
mancano in mostra altri riferimenti a strumenti di tortura o di morte: Vergini
di Norimberga (o Iron Maiden, con altro richiamo musicale implicito), mazze ferrate
e altro ancora.
Attenzione ancora una volta, però: il tema non è soltanto la
moda, ma nemmeno il Barone von Masoch. Il riferimento è, molto più
concretamente, all’attuale situazione sociopolitica, in Spagna (paese natale di
Murillo) in particolare, e in tutta Europa.
Il rimando alla tortura e alla pena capitale è ovviamente
ironico, ma nel senso che Pirandello dava al termine ironia: evoca cioè lo
studiato conflitto tra l’apparenza dell’opera e il suo contenuto tragico.
Scegliendo i propri soggetti e gli stilemi con cui riprodurli, Murillo crea infatti
uno spazio di tensione emotiva e concettuale che ambisce a dar luogo a
discussione, dialogo, riflessione, prima ancora che mettere punti fermi, o
formulare tesi iderogabili.
Ubay Murillo nasce a Santa Cruz de Tenerife, Isole Canarie,
nel 1978. È un artista giovane, ma con alle spalle un’intensa carriera
espositiva a livello internazionale, che ha portato già alcune volte in Italia
il suo lavoro.
I lavori presentati in questa mostra appartengono a due diverse
serie: i dipinti e i collages.
I collages sono ispirati a uno stile minimalista e
realizzati componendo tra loro strisce di carta tratte cataloghi di case di
moda come Diesel o Naf Naf o riviste di moda come Elle, Vogue o Harpers Bazaar,
alla ricerca di una nuova armonia compositiva. Per quanto concerne la pittura,
Murillo presenta invece alcune tele di medie e grandi dimensioni, tutte, come
dicevamo – e qui sta il senso della ghigliottina - aventi come soggetto
personaggi privati della testa.
In entrambi i casi, la poetica che anima le opere ha a che
fare con l’atto del tagliare o strappare. Tutto sempre si gioca puntando a un
risultato elegante, attento alle proporzioni, alle luci, alle alchimie
cromatiche e compositive: ma anche se il lavoro appare esteticamente appagante,
i soggetti e i temi hanno in sé qualcosa di inquietante.
Per comprendere, occorre entrare nel vivo del progetto
artistico di Ubay Murillo senza farsi tentare da facili scorciatoie, appunto
estetizzanti.
La domanda che Murillo si pone è in sostanza la seguente:
può oggi un artista essere autenticamente rivoluzionario? O sarà alla fine
reintegrato, volente o nolente, consapevole o meno, proprio nel sistema oggetto
delle sue critiche?
In tempi di mutamenti politici profondi, di rivolte più o
meno latenti che serpeggiano un po’ ovunque in Europa, la ghigliottina è un
riferimento molto forte ed evidentemente canzonatorio. L’invenzione di Monsieur
Guillotin rimanda immediatamente al periodo del Terrore in Francia, all’epoca
della Rivoluzione e, con molto sarcasmo, - per carità, solo e unicamente in
senso metaforico e sbeffeggiante – all’urgenza avvertita da molti, di un
radicale mutamento sociale e politico.
Lungi dall’istigare, com’è chiaro, comportamenti giacobini, Murillo
vuole piuttosto indicare un pericolo che ci riguarda tutti molto da vicino.
Le vittime predestinate della ghigliottina e della Vergine
di Norimberga non sono infatti i capi di governo, né i bancari o tutti coloro i
quali sono genericamente identificati quali principali attori o artefici dei
drammi sociali con cui ci troviamo a fare i conti. Le vittime di quegli
strumenti di tortura rischiamo invece di essere proprio noi: la gente normale
che vive, lavora, cerca di fare cultura o arte come può. Nella visione di
Murillo, siamo noi i martiri di un sistema giunto alla sue estreme conseguenze,
dove la tensione al rinnovamento e all’evoluzione si fa sentire in modo ogni
giorno più urgente.
Viene in mente lo Hegel della Fenomenologia dello Spirito, precisamente la figura del Terrore.
Per Hegel il Terrore rappresenta la ragione come libertà assoluta, che
sacrifica a qualcosa di totalmente astratto la libertà del singolo. La morte
che nasce da questa libertà è però privata del proprio significato: persino
tagliare una testa diviene un gesto freddo e indifferente, emotivamente intenso
quanto lo potrebbe essere, dice Hegel, “tagliare la testa di un cavolo”. Per
Hegel la via d’uscita dal Terrore à la
Robespierre ha allora a che fare con il risveglio della soggettività
libera, e quindi con la scoperta della dimensione morale[2].
A proposito di questi temi, un riferimento filosofico
dichiarato da Murillo è Walter Benjamin. Non tanto il Benjamin noto e
stracitato in ambito artistico de L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, quanto quello dei
“passages” di Parigi e dei commenti a Baudelaire, che affronta il tema della
storia e del rapporto tra storia e soggetto, o meglio, mondo e soggetto.
Come il flâneur di
Baudelaire – cioè, brevemente, colui che, senza cadere nel dandysmo, passeggia
per le strade di Parigi pronto a cogliere i riferimenti, le suggestioni e tutte
le possibili declinazioni artistiche, poetiche o filosofiche - l’artista, per
Murillo, è esposto alle seduzioni del mondo come una specie di vittima
sacrificale, in maniera compiacente, ma anche un po’ violenta.
Come spiega il filosofo Sergio Givone, articolando il
pensiero di Benjamin, il flâneur “è attratto dall’esperienza medusea. Il
flâneur non seduce, ma è sedotto. A sedurlo (…) è il grande teatro del mondo.
Però il principio di questa teatralizzazione e di questa spettacolarizzazione
non è, come nel caso dell’esteta, in suo potere. Il flâneur non è che specchio
delle cose, e le cose lo invadono, trovando in lui accoglienza indiscriminata,
a misura del suo reificarsi (…) Al punto che la sua esperienza è caratterizzata
(…) dal fatto che il soggetto è, tra la folla, urtato come un oggetto. Eppure
in lui (…) persiste tenace la memoria dell’antica soggettività perduta e del
primato della coscienza”[3].
Ubay Murillo, Evaporar, olio su tela 2013 |
In tal senso i lavori di Murillo s’iscrivono in questo punto
preciso: nello spazio di tensione che esiste tra il soggetto consapevole e la
dimensione storica e sociale all’interno della quale egli si trova.
In altre parole, siamo continuamente rimbalzati, esposti ogni
volta a inaspettati condizionamenti. Siamo tesi nello spazio di gioco tra due
possibilità: da un lato il fluire della storia che travolge il pensiero del
singolo e, dall’altro, l’affermarsi dell’individuo e della sua visione
particolare.
Come sarà possibile, allora, liberarsi dai condizionamenti e
dai vincoli sociali ed essere finalmente se stessi? Ed inoltre, qual è lo
spazio culturale ed espressivo disponibile, per un artista che voglia farsi
interprete della rivoluzione sociale in atto?
Ponendosi queste domande, Murillo è però specialmente
interessato ad un passaggio cruciale. Vi è un momento in cui si passa, come in
una trappola, dall’atteggiamento rivoluzionario, che ambisce al cambiamento e
al rinnovamento sociale, al ritorno dentro quello stesso sistema che si voleva
rivoluzionare. Questo passaggio agli occhi dell’artista appare inevitabile: per
quanto ci dichiariamo rivoluzionari, finiremo tutti per essere risucchiati,
“reintegrati nel sistema” – per usare una terminologia oggi in disuso – come Alexander
Burgess[4].
In altre parole, se ai suoi tempi Picasso poteva sostenere
in un noto aforisma che “la pittura non è fatta per decorare gli appartamenti,
ma è uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico”, oggi forse
i tempi sono cambiati, e la pittura va intesa “in a weak way (in a Vattimo’s way maybe?)”, come (mi) scrive Murillo. Ovvero: sempre di lotta si tratta, ma di
una lotta che, pur sempre esprimendo una tensione interna molto profonda, si
gioca e si libera in superficie per il mezzo dell’ironia, dell’eleganza formale,
della leggerezza. È un contenuto tragico, ma travestito di un’apparenza
esteticamente seducente.
L’artista sa, inoltre, che il soggetto della pittura è
sempre un’immagine e quindi un simulacro. Perciò, così come per il pittore ha
un senso approfondire e studiare il rapporto tra la figura rappresentata e lo
sfondo su cui questa si staglia, allo stesso modo, dal punto di vista
sociopolitico, è necessario che egli si ponga delle domande circa il rapporto
del soggetto con il suo entourage politico e sociale. E dal punto di vista di
Murillo il rapporto tra figura e sfondo sarà sempre dialettico, di tensione, di
potenziale conflitto.
In questo senso, la concezione a cui si rifà Murillo
(artista colto e consapevole) ha molto a che fare con la struttura delle
rivoluzioni scientifiche teorizzata da Thomas Kuhn. Come sosteneva Kuhn,
semplificando, ciò che nasce come rivoluzione non tarda, con il passare del
tempo e delle vicende storiche, a trasformarsi in paradigma, in metafora morta
e ormai spenta, che a sua volta inciterà a una nuova fase rivoluzionaria.
Allo stesso modo, l’artista sottolinea l’alternanza delle
condizioni: l’anelito alla rivoluzione e al cambiamento e la capitolazione al
sistema e alle sue seduzioni, in un moto circolare e vizioso potenzialmente
infinito.
Ma allora, se così stanno le cose, da dove può mai giungere
una via d’uscita o di salvezza?
Nella seconda Considerazione Inattuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), Nietzsche
sostiene che una caratteristica propria della modernità è la malattia storica.
Noi siamo epigoni e la grande storia del passato ci appare come un magazzino di
abiti e costumi di cui non sappiamo più fare a meno, dove ciascun abito equivale
all’altro: basta scegliere di volta in volta quale indossare.
In maniera analoga, nei lavori di Murillo gli abiti sono
costumi sontuosi, dai colori vividi e i drappeggi elegantissimi, tanto da
sembrare opere astratte, belle di per sé. Però, come recitava un film di cassetta
degli anni ottanta ispirato al mondo delle top models, sotto il vestito non c’è
niente.
(Chck chck chck - rumore di ghigliottina e conseguente testa
tagliata).
Dove cercare dunque una soluzione al dilemma? Riformulando:
è possibile trovare una via d’uscita alla tensione tra rivoluzione e sistema,
individuo, contesto e storia, possibilmente senza perdere la testa?
Cercando tra i possibili riferimenti letterari e culturali,
il taglio della testa fa venire in mente il mito di Medusa.
Medusa era una delle tre Gorgoni e, come racconta la
leggenda, era così bella e affascinante che da rendere pietra chi ne incontrava
lo sguardo. Simbolicamente, la Medusa ben rappresenta lo stato di fascinazione
e di seduzione prodotta dal capitalismo esasperato e dai suoi simulacri.
Per uscire dalla trappola medusea, bisogna fare come Perseo,
che le taglia la testa ricorrendo a un escamotage: non la guarda negli occhi,
ma soltanto nel riflesso sul suo scudo, e le taglia la testa.
Come spiegava Carl Gustav Jung (che nello sguardo di Medusa
vedeva l’inconscio), il significato profondo del mito giace proprio nel ricorso
alla riflessione, cioè, letteralmente, ad un’immagine riflessa. La riflessione costituisce
una possibile via d’uscita, nel senso della consapevolezza, del pensiero.
Se Perseo, per uccidere il mostro, deve rifletterne
l’immagine sulla superficie dello scudo, noi siamo invitati a riflettere in
altro senso: siamo invitati a esercitare la nostra coscienza e la nostra
capacità personale di giudizio, senza farci abbagliare o distogliere da falsi
miti e altri condizionamenti sociali o culturali.
Ma è possibile mantenere a lungo una tale integrità dello
sguardo? Soprattutto per noi, donne e uomini del ventunesimo secolo, sedotti
baudrillianamente dalle immagini e costantemente connessi al mondo che ci
guarda, giudicando ogni nostra mossa tramite social, web e tutto il resto?
Alla fine, il senso profondo del lavoro di Murillo si gioca
forse proprio nel fatto che la sua pittura non ambisce a proporre risposte o
tesi già fatte e confezionate, quanto piuttosto a suscitare nuove domande. Non
dimentichiamo perciò che in questo lavoro coesistono più significati.
Guardando le figure senza testa che animano i lavori viene
in mente, tra le altre cose, il modo di dire per cui è possibile perdere la testa per qualcuno, qualcosa.
Che succede quando perdiamo la testa? Che ne è allora degli
abiti, degli habitus e delle varie maschere sociali che normalmente siamo
abituati ad indossare?
Ciò che resta della “maschera sociale” può essere una sorta
di uomo invisibile, di cui si vede il vestito, i guanti, ma non il volto. Una
vecchia pellicola d’autore degli anni trenta, e prima un romanzo di
fantascienza, raccontavano la storia dell’uomo invisibile[5]:
sostanzialmente un signore antisociale, che disprezza il prossimo e vuole
conquistare il mondo, che scopre il modo di apparire invisibile e che alla fine
viene ucciso dalla sua stessa smania di potere.
Questo è indubbiamente un modo per perdere la testa, che si
sia artisti con deliri di onnipotenza o meno, ma, come insegna il racconto, non
sembra molto funzionale e praticabile.
Si può poi perdere la testa per la rabbia. Ma neanche questo
sembra consigliabile o utile.
Perdere la testa può però avere anche il significato
positivo di riscoprire la dimensione istintuale e intuitiva, più naturale, che
va oltre la maschera, i condizionamenti e i vizi del sistema. Perdere la testa
vuol dire anche togliere di mezzo la dimensione razionale e calcolante a tutti
i costi, per privilegiare il mondo delle relazioni leggère, dell’innamoramento,
della sovversione dei valori consueti. Può essere la rivalsa di un mondo di
sensazioni e sentimenti che il grigiore quotidiano tende a relegare tra le cose
inutili, infantili o addirittura nocive, ma che forse custodiscono in loro una
verità molto più profonda e intensa di quanto a prima vista non appaia.
Nella prima delle Lezioni
americane, Italo Calvino esalta la leggerezza, proprio citando il mito di
Medusa. “L’unico eroe capace di tagliare
la testa della Medusa – scrive Calvino -
è Perseo, che vola coi sandali alati”[6].
Perseo taglia la testa alla Medusa perché privilegia una visione riflessiva,
indiretta, laterale, e soprattutto perché vola, leggero, sui sandali alati, sostenendosi
su vaporose nuvole fatte di aria e di acqua. Ma c’è di più, dal sangue della
testa tagliata di Medusa, come fa notare ancora Calvino, nasce Pegaso, magico
cavallo alato: cioè qualcosa di meraviglioso, salvifico e senza peso, ancora
una volta simbolo di levità, leggerezza, libertà. Perdere la testa, insomma, in
senso figurato, ha a che fare con la sorpresa, l’incoscienza, il colpo di testa
(appunto) e l’entusiasmo contagioso. È essere senza peso, leggeri sebbene
precisi e determinati, “comme l’oiseau,
et non comme la plume”[7].
Nei lavori di Murillo qualcosa, tra le pieghe degli abiti
dipinti e gli sfondi da cui essi emergono, pare suggerire la possibilità di
questa interpretazione. Se fosse questo il modo migliore e un po’ folle in cui
possiamo immaginare la nostra prossima, personalissima, rivoluzione?
[1]
Mi riferisco al blog di moda molto noto
www.theblondesalad.com
[2]Una curiosità: è interessante notare, di passaggio,
come la citazione della testa di cavolo tagliata torni nella prima delle Lezioni americane di Calvino, quella
sulla leggerezza. In quel luogo Calvino non sta parlando di Rivoluzione
Francese, ma di atomismo e di Cyrano de Bergerac. Poeta francese del seicento,
che poi ispirò la celebre commedia di Ronstand, Cyrano vedeva nella natura, e
tra la natura e gli esseri umani, una ironica, ma profonda e poetica
fratellanza, capace di annullare, dice Calvino, in un solo gesto secoli di parrochialism antropocentrico. Cfr.
Italo Calvino, Lezioni Americane, Mondadori, 1993, p. 28
[3]
Sergio Givone, Storia del Nulla, Sagittari Laterza 1995
[4]
Mi riferisco ovviamente al protagonista del film
di Stanley Kubrick A Clockwork Orange
del 1971
[5] Il romanzo è: The
Invisible Man, di H.G. Wells, 1897. Il film tratto dal romanzo, per la
regia di James Whale, risale invece al 1933.
[6]
I. Calvino, op. cit. p. 8
[7]
I. Calvino cita Paul Valèry, op. cit. p. 20