Il numero del
movimento
Francesco Vezzoli e Pablo Bronstein after De Chirico
Articolo pubblicato su Juliet, n. 161, febbraio-marzo 2013, pp. 52/53
di Maria Cristina Strati
Andando con la memoria alle immagini più note e condivise
nell’immaginario collettivo delle opere di Giorgio De Chirico, è facile pensare
immediatamente all’immobilità e stasi delle figure statuarie e dei manichini
dai colori fermi; alla presenza di un tempo che possiamo definire trascendente,
come fosse a sua volta sottratto al tempo ordinario e al suo naturale scorrere;
alle piazze vuote, rese astratte e teatrali; agli ambienti statici e alle
composizioni enigmatiche.
Presso la Galleria Franco Noero, a Torino, due artisti
contemporanei sono stati chiamati a confrontarsi con la poetica di Giorgio De
Chirico in occasione della mostra inaugurata il 10 novembre 2012, per la Notte Bianca dell’arte dell’ultima edizione di Artissima. La mostra si
dislocava nelle diverse sedi della galleria, ospitando un’installazione di
Francesco Vezzoli e una performance di Pablo Bronstein.
Il lavoro di Vezzoli era ispirato appunto all’opera del grande
maestro della Metafisica ed era situato nella sala inferiore di Casa
Scaccabarozzi, appositamente allestita in modo da poter essere vista
dall’esterno. Nelle due salette di Piazza Santa Giulia, si svolgevano invece rispettivamente
l’esposizione di un’opera dello stesso De Chirico e una performance di Pablo
Bronstein.
Su quest’ultima, sostituita dopo i giorni della fiera, da
un video che la documenta e la testimonia, si concentra il presente articolo.Senza
nulla togliere all’interessante installazione di Vezzoli, il lavoro di
Bronstein è infatti particolarmente affascinante e si presta a un
approfondimento specifico.
Fedele alla sua poetica, in cui elementi architettonici e
legati alla storia dell’arte antica si mescolano e confrontano con altri fattori
che hanno invece da fare con la contemporaneità, l’artista argentino torna
ancora una volta al tema della danza, come per altro già avvenuto in moltissime
occasioni, tra cui ricordiamo un recente evento presso la Tate di Londra,
trasmesso tra l’altro on line in diretta worldwide tramite internet.
Tuttavia, nel contesto attuale della performance torinese
il discorso relativo al balletto, e il ricorso a un ballerino professionista
come performer, è declinato in questo caso in modo decisamente inaspettato. Al
ballerino l’artista chiede infatti di confrontarsi non con il moto, ma con
l’immobilità. Nella performance ideata da Bronstein infatti il tempo si gela in
un eterno presente, mentre il rapporto allo spazio fisico e architettonico si
gioca su un piano del tutto inatteso, ricco di spunti e suggestioni storiche,
storico artistiche e filosofiche, non senza un certo lirismo.
Il ballerino impersonava la nota statua di Riccardo Cuor
di Leone custodita nella Basilica di Rouen. Simile ad un altare dove è posto e
conservato il corpo di un santo, la performance consisteva in ciò: il ballerino
giaceva disteso su un supporto bianco simile a una antica e preziosa tomba
regale, le mani giunte come in preghiera e i gomiti leggermente alzati. La posa
era quindi mantenuta per cinque ore consecutive ogni giorno, con brevissime
pause.
In seguito alla chiusura della fiera, la mostra
proseguiva nei giorni successivi non più con la presenza del ballerino, ma con
la proiezione di un video a documentazione dell’avvenuta performance. Il video
era però proiettato nella sala in modo da dare l’impressione dello svolgimento
reale della performance così come era stata eseguita.
Un solo dettaglio differiva volutamente dall’esperienza
originale: il corpo del ballerino, e il suo supporto, erano proiettati in scala
leggermente maggiore rispetto alla realtà, con un sottile effetto di
straniamento sottile che produceva un senso di meraviglia e di incanto.
È interessante ricordare che la Project room della galleria
– cui in questa occasione il pubblico non aveva accesso fisicamente - dà sulla
piazza dove campeggia la Chiesa di Santa Giulia, una delle poche chiese in
stile neogotico di Torino. Essendo ad essa prospiciente, il profilo della
chiesa si specchiava nelle vetrine della Project Room, e quindi sul corpo
dell’uomo disteso, così come si udivano le ore scandite dal suono antico delle campane.
Questi dettagli avvolgevano la visione della performance documentata dal video
in un’atmosfera quasi magica, intensa, appunto, metafisica. Il ballerino
disteso si adattava del tutto al contesto, apparendo a sua volta simile a una
reliquia o a un’immagine sacra.
Com’è noto il ricorso all’immobilità nella performance ha
attraversato e attraversa la storia dell’arte contemporanea trasversalmente,
coinvolgendo il lavoro di artisti anche molto lontani tra loro per poetica e
stile, come Beecroft o Abramovic, solo per citarne alcuni tra i notissimi.
Nel caso di Bronstein la realizzazione di una performance
che ricorra all’immobilità del performer e al silenzio, con le ovvie
conseguenze dal punto di vista della realizzazione e della percezione del
lavoro, si configura però come una categoria diversa rispetto ad altre
situazioni apparentemente analoghe. Qui il riferimento, in modo apparentemente
paradossale, resta il movimento, o addirittura la danza.
Se secondo Aristotele il tempo è il numero (o la misura)
del movimento, la visione di Bronstein in questo caso specifico implica invece
un rapporto al tempo che ha la cifra dell’eternità, della continuità, di un
eterno respiro: il numero qui è lo zero, un punto di partenza, un niente, un
nulla che però nasconde in sé la totalità dell’essere. Perciò, in certo senso,
l’immobilità è qui un modo del movimento, e quindi un modo di danzare. Questo non
solo perché ci vuole una discreta dote atletica per restare fermo e immobile,
ma anche per la profondità che il gesto (o meglio, il fatto di non compiere
alcun gesto), in questo contesto, assume. Si tratta di danzare con la storia,
con l’architettura e l’ambiente, con le immagini che vengono dal passato e dal
presente, come con chi guarda e partecipa, spiando il più piccolo tremolio dei
muscoli o un leggerissimo movimento degli occhi.
È una danza che cattura, affascina, rende il pubblico
attento e partecipe. Come un serpente è incantato dal suono di un flauto
indiano, così chi cammina per la via Giulia di Barolo a Torino, interrompe il
suo passo, guarda, e spia tra i riflessi delle antiche architetture, attraverso
i vetri, per vedere il corpo di un Re Cuor di Leone fisso, immobile eppure
vivissimo.
Non bisogna infatti dimenticare che la performance
rappresenta un monumento: l’arte contemporanea è quindi chiamata a confrontarsi
qui con la dimensione monumentale, che sa di passato, memoria, commemorazione
di epoche trascorse, con tutto ciò che questi riferimenti significano. Qui il
monumento a stento nasconde la sua vitalità: impercettibilmente, esso si muove,
interrompe il continuum del tempo metafisico e, a suo modo, danza.
Per le immagini Courtesy l'artista e Galleria Franco Noero, Torino
Per le immagini Courtesy l'artista e Galleria Franco Noero, Torino
Foto di Sebastiano Pellion di Persano