Testo per la mostra personale di Maurizio Bongiovanni, Galleria Uno+Uno, Milano
visitabile dal 15 novembre 2012 all'undici gennaio 2013
di Maria Cristina Strati
“L’esperienza dell’ambiguità è costitutiva dell’arte, come l’oscillazione e lo spaesamento; sono queste le sole vie attraverso le quali, nel mondo della comunicazione generalizzata, l’arte può configurarsi (non: ancora, ma forse: finalmente) come creatività e libertà”
(Gianni Vattimo, 1989)
Una chiave di lettura del lavoro di Maurizio Bongiovanni si trova in un apparente paradosso: Maurizio Bongiovanni non è un pittore.
Ovvero lo è, ma, nonostante la dimensione oggettuale delle opere - che sono inevitabilmente, ma non solo, dipinti - il suo lavoro va ben oltre la pittura, per toccare un più ampio spettro di indagine. In generale, la ricerca artistica qui s’inscrive nel contesto dell’arte contemporanea di ispirazione postmoderna, che ha come obiettivo la messa in discussione dello statuto dell’opera d’arte.
Tra i vari argomenti della ricerca di Bongiovanni vi è inoltre, come egli dichiara, la nozione di ipertesto. Il titolo di questo progetto espositivo - As we may think (Come potremmo pensare) - è infatti mutuato da un articolo pubblicato nel 1945 dallo scienziato statunitense Vannevar Bush, dove per la prima volta (o una delle prime volte) veniva definito il concetto di ipertestualità. Altro riferimento caro all’artista, cui si allude in alcuni lavori, è poi la ruota dei libri: una macchina divenuta recentemente popolare perché antesignana dei moderni sistemi ipertestuali, opera di un fantomatico ingegnere del 1500 che rispondeva al nome di Agostino Ramelli.
Bongiovanni non si sofferma però tanto sulle implicazioni semiotiche o filosofiche di questi temi, sottolineandone piuttosto gli aspetti che hanno a che fare con le immagini e la dimensione visiva.
Il lavoro si articola infatti principalmente intorno alla messa in gioco del concetto tradizionale di pittura e, nel contempo, dell’autorialità dell’opera d’arte. Ciò è vero non solo perché Bongiovanni si cimenta con diversi linguaggi espressivi, quali il video, la performance, la scultura ed altro, ma anche e soprattutto per il metodo di lavoro da lui adottato.
Rievocando in parte il percorso concettuale che fu di grandissimi maestri del calibro di Boetti, e ispirandosi alle modalità di produzione pseudo-aziendali delle factories postmoderne, Bongiovanni si affida a una sorta di team di collaboratori, cui delega una percentuale importante della realizzazione concreta dei lavori.
Il
tiro è poi calibrato sul piano della globalizzazione: il team (anzi, i team) a
cui Bongiovanni fa riferimento, si trovano infatti in Cina. Come si immagina,
la Cina non è una scelta casuale: sia perché Bongiovanni ha svolto una
residenza d’artista proprio a Beijing; sia perché la Cina rappresenta oggi,
come è noto, una potenza economica e culturale emergente, con tutte le
criticità e le riflessioni da “apocalittici e integrati” che da ciò derivano.
Nei
dettagli il procedimento di realizzazione dell’opera si svolge nel modo
seguente: l’artista idea il lavoro dal punto di vista del soggetto e della
composizione, creando un’immagine virtuale. L’immagine è poi inviata per via
telematica ai collaboratori cinesi, che la concretizzano pittoricamente seguendo
le indicazioni dell’autore - seppure con
inevitabili, benché sottili, sfumature interpretative. A volte, a discrezione
dell’artista, viene chiesta agli esecutori una partecipazione maggiore dal
punto di vista della lettura del soggetto e dell’invenzione. Poi il lavoro è spedito
in Italia, dove Bongiovanni effettua eventuali ritocchi, fino a giungere al
prodotto finale.
In
questa mostra il percorso compositivo appena descritto è illustrato, nei tratti
salienti, dai lavori esposti nella prima sala della galleria. In un caso
emblematico il punto di partenza è il tema del cielo stellato, nato tanto dal
riferimento culturale ad opere storicizzate e classiche (si pensi alla Nuit étoilée di Van Gogh, per citarne
soltanto una), quanto, soprattutto, da suggestioni un po’ sentimentalistiche e
poetizzanti (il tema del cielo inteso come ciò che ricopre tutti, unendoci in
una sola e condivisa dimensione di vita umana). Il cliché è poi progressivamente modificato, in una sorta di processo
di reificazione del soggetto originario, per giungere a nuove storie e
interpretazioni.
La
pittura, proprio come la questione dell’autorialità del lavoro, osserva qui una
sorta di lenta, ma inesorabile dissolvenza dei propri confini fisici e
concettuali. È un processo di alleggerimento profondo, in cui forme e colori
sembrano letteralmente scivolare fuori, uscire da sé, oltrepassare il limite
della tela e metaforicamente evaporare.
La
mostra ospita poi anche un lavoro video, proiettato su uno schermo di piccole
dimensioni. Ma il video qui non è altro che una nuova incarnazione della
pittura: o forse, appunto, l’atto del suo disincarnarsi, muoversi e sottrarsi
ad ogni definizione già codificata, alla ricerca di una nuova, ulteriore
dimensione espressiva.
In
tutti i lavori sono ricorrenti temi di carattere esistenziale e atmosfere
metafisiche, cui si contrappone la riflessione sul linguaggio e la composizione
pittorica. Ovunque è presente un senso di fluidità, come un dissolversi della
materia sulla superficie delle opere.
Si
attua così un progressivo, ma inesorabile processo di disidentificazione; si
direbbe, tanto delle opere e dei soggetti che le abitano, quanto della stessa
riconoscibilità dell’autore e della sua “mano”. E se a prima vista questo
procedimento può apparire come una deriva, o una deviazione imprevista
all’interno di un contesto ordinato, a ben guardare essa appare tanto sfuggente
e melliflua quanto decisa, fatalmente inaggirabile.
La tavolozza
ricorda certe tonalità di De Chirico, mentre dal punto di vista della composizione
ricorrono alcuni stilemi: una o più figure si stagliano su uno sfondo astratto,
anch’esso dal sapore un po’ metafisico, dove però la forma si perde, si
frantuma e si dissolve in un gioco di scivolamenti e contaminazioni.
Le
immagini paiono così rimbalzare dall’idea alla materia e dalla materia all’idea.
Come in una fusione chimica, ogni figura si scompagina, si confonde e scivola
oltre la propria maschera, fino a perdersi e a cancellare i propri confini.
Il
senso della fluidità, del dissolversi della materia in una dimensione in certo
senso acquatica e oscillante, si mantiene anche nelle sculture, che completano
il progetto. Si tratta di sfridi, sorta di objet
trouvé, scarti di materiale industriale recuperati a nuova vita.
La
mostra si chiude così idealmente con un’azione artistica insieme antica e
moderna (o meglio: moderna e contemporanea): quello che era materiale di scarto
diviene opera a tutti gli effetti, come un attuale ready made, seppure in versione rivisitata e un po’ sognante.
Fluente
come le opere in mostra, il percorso espositivo nel suo complesso si snoda in
tal modo attraverso molteplici tipologie di opere e risultati, come in un
diario minimo di narrazioni, dando luogo a una ricerca continuamente foriera di
nuove possibili letture e interpretazioni.
La
riflessione sul linguaggio pittorico e artistico si apre a una dimensione
progettuale dove ciascun lavoro è esaltato anche e soprattutto per il proprio
potenziale evocativo, come dove l’autore e il fruitore agiscono quali sorta di lector in fabula (cooperando cioè, in
maniera anche inconscia o involontaria, al processo interpretativo). Come in
gioco di specchi e rimandi, segni e inferenze, il lavoro pare quasi perdere se
stesso e le forme del proprio contenuto in una storia figurata di invenzioni
dalla struttura volutamente assente. Per apparire infine opera aperta al
dialogo e perciò virtualmente in(de)finita.