L'installazione totale di Ilya e Emilia Kabakov. Da Lia Rumma, a Milano

Articolo pubblicato su Juliet n. 158, giugno 2012

di Maria Cristina Strati



Nel gennaio 2012 la sede milanese della Galleria Lia Rumma, ha inaugurato una mostra personale di notevole interesse, dedicata al lavoro di Ilya e Emilia Kabakov. L’esposizione, di carattere antologico, si concentrava sui molteplici aspetti del lavoro dei due artisti russi, testimoniandone, lungo il percorso articolato negli spazi della galleria, le declinazioni secondo i diversi generi artistici ad loro affrontati: pittura, scultura, disegno e soprattutto installazione. Si è trattato della seconda mostra personale italiana dei coniugi Kabakov. La prima risale al 2000 e si svolse sempre per la Galleria Lia Rumma, ma nella sede di Napoli. Ilya Kabakov e la moglie Emilia sono entrambi originari della città di Dnepropetrovsk, in Russia, ma vivono e lavorano ormai da molti anni negli Stati Uniti, a Long Island. Nato in Russia nel 1933, dopo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Mosca, Ilya Kabakov cominciò occupandosi di illustrazioni per l’infanzia. Dopo essere approdato alla pittura e all’arte contemporanea, fece parte del gruppo di artisti concettuali di Mosca, la cui poetica si qualificava per la decisa opposizione politica al governo sovietico. Emilia, nata nel 1945, preferì invece gli studi musicali e diede inizio alla sua carriera nel mondo dell’arte lavorando come curatore e art dealer. I due coniugi hanno dato inizio alla loro proficua e vitale collaborazione artistica a partire dalla fine degli anni ottanta. Il loro lavoro si caratterizza in modo particolare per la qualità di unire in sé, in maniera totalmente armoniosa e proporzionata, una ricerca concettuale particolarmente intensa e sentita dal punto di vista intellettuale, con la marcata attenzione all’aspetto estetico e alla bellezza nel senso profondo del termine. Le loro opere sono sovente caratterizzate dalla scelta di temi con un acceso interesse in ambito sociale. Tematiche difficili, come ad esempio le condizioni di vita nella Russia post-stalinista, sono sviluppate in modo da allargare la visuale e la riflessione del fruitore oltre i singoli fatti concreti descritti nel lavoro, per giungere a toccare la condizione umana e nel senso più ampio e alcune problematiche che la concernono a livello universale. Non a caso i Kabakov sono oggi considerati tra i più importanti artisti sovietici viventi a livello internazionale. Ad oggi i Kabakov hanno esposto i loro lavori in sedi prestigiose quali (solo per citarne alcune) il Museum of Modern Art di New York, lo Hirshhorn Museum di Washington, lo Stedelijk Museum di Amsterdam, la Kunsthalle di Berna, il Centre Georges Pompidou di Parigi e Documenta IX, partecipando inoltre alla Biennale di Whitney nel 1997 e alla Biennale di Venezia nel 1993 e alla Biennale di Mosca del 2009.



Con gli anni ottanta, oltre a dare inizio alla collaborazione con Emilia, Ilya Kabakov diede vita alla nozione di “installazione totale”. Nel 1988 recuperando opere e lavori pittorici da lui stesso realizzati tra gli anni sessanta e settanta, Ilya Kabakov realizzò un’unica opera installativa. In questa opera era così mantenuta la dimensione pittorica, ma questa era restituita nello spazio tridimensionale, in modo da offrirla alla fruizione del pubblico come una grande scultura o installazione. Il lavoro risultava così articolato proprio attorno alle opere d’arte e attraverso di esse, fino a creare una nuova opera finale. L’installazione così concepita acquistava inoltre una marcata struttura narrativa, che Ilya Kabakov, (a partire dal 1988 e soprattutto nel corso degli anni novanta insieme con la moglie Emilia), cominciò a proporre anche nell’ambito del contesto museale, sia all’interno, sia all’esterno. L’idea di “installazione totale” ha dunque a che fare con la possibilità da parte dell’opera d’arte di trasformare interamente lo spazio espositivo, considerando la stessa nozione di spazio come una componente plastica, flessibile e cedevole, secondo il volere degli artisti e della loro ricerca. Ma all’interno dell’opera così concepita un ruolo particolare è riservato anche al pubblico, la cui interazione diventa anzi fondamentale per la riuscita dell’opera. In un’intervista del 1993, riportata sul sito del Moma, Ilya Kabakov definisce lo spettatore addirittura la “vittima” designata del suo lavoro. Egli è vittima nel senso che è portato a subire l’opera e i suoi effetti, sia a livello di percezione, sia di effetto drammatico (anzi, si potrebbe dire drammaturgico, dato che il lavoro ha sempre una fortissima componente teatrale). Lo spazio espositivo si trasforma infatti in una sorta di teatro, diviene un ambiente che coinvolge direttamente lo spettatore in prima persona. Al fruitore non è più chiesto soltanto di stare in piedi di fronte all’opera e osservarla, mantenendo una distanza fisica, ermeneutica e psicologicamente “igienica”. Nei lavori dei coniugi Kabakov lo spettatore è invece quasi condotto a subire l’opera, come se essa potesse controllarne le reazioni e guidarne gli impulsi. Chi guarda assume così un doppio ruolo: egli è nello stesso tempo coinvolto nel gioco espressivo e percettivo dell’opera, e d’altro canto ne è l’osservatore che esamina il tutto dalla distanza e che giudica il lavoro dell’artista. Per quanto concerne la mostra da Lia Rumma a Milano si è scelto di proporre un lavoro installativo di grandi dimensioni nelle sale al piano terreno dello spazio espositivo. Si trattava di un’opera realizzata ancora una volta alla fine degli anni ottanta, in occasione della retrospettiva presso il Museum van Hendendaagse Kunst Antwerpen, ed esposta in questa occasione per la prima volta in Italia. Il titolo del lavoro, Someone is Crawling under the Carpet (Qualcuno striscia sotto il tappeto) è descrittivo: un meccanismo particolare simula una presenza umana nascosta sotto un grande tappeto posto al centro della sala. La persona idealmente rintanata sotto il tappeto, pare muoversi ossessivamente, in modo circolare e ripetitivo. Chi guarda si sente coinvolto: avverte insieme un sentimento vago di disagio e incertezza, ha l’impressione di poter essere spiato da qualcuno presente nella stanza, che però resta celato alla vista. Lo spettatore è però anche fortemente incuriosito dalla misteriosa presenza e dal meccanismo del suo funzionare. Il lavoro mette così in gioco una serie di meccanismi psicologici abbastanza intensi. Colui che osserva è posto di fronte a una fantomatica presenza che si nasconde, che assume così le sembianze di qualcosa a metà strada tra un ritorno del rimosso e un’esperienza che mette in gioco insieme i sensi e il desiderio di conoscere, svelare e portare alla luce ciò che si nasconde in primo luogo dentro noi stessi. Dal punto di vista poetico e narrativo, ma anche psicologico, l’uomo nascosto è un altro me stesso, ma un me stesso nascosto, perturbante e forse sconosciuto. La nozione dell’alter ego ritorna nei lavori di pittura esposti al primo piano della galleria, insieme con le riflessioni su alcune correnti artistiche novecentesche, in particolare il Modernismo. Si tratta di lavori della serie The Studio Of Totti Kvirini e del progetto Life and Creatvity of Charles Rosenthal (2000). In questo caso l’alter ego è visto come una presenza auratica e necessariamente segreta, impalpabile, irraggiungibile e intrisa di mistero. La mostra proseguiva poi con lavori scultorei e ceramiche, sottolineando la versatilità tecnico-espressiva degli artisti. Al secondo piano, Lia Rumma proponeva in seguito un altro lavoro installativo di grandi dimensioni. L’opera, che porta il titolo Evening, è stato esposta una prima volta nel 2005 presso il Nikolaj Contemporary Art Center di Copenhagen, in occasione di una doppia personale dei Kabakov con Joseph Kosuth. Si tratta di un lavoro dalla struttura narrativa e di forte impatto lirico e suggestivo. Come in un gioco di matrioske, lo spazio espositivo è concepito come una sorta di grande scatola, che contiene al suo interno un’altra stanza. Dentro la stanza costruita dall’artista appare una finestra, dalla quale si osserva una montagna, illuminata artificialmente, ma con effetti intensamente realistici. Al suo interno la montagna custodisce poeticamente un piccolo carillon. Lungo le pareti sono esposti dipinti che rappresentano ancora la montagna magica. Lo spettatore non può varcare la soglia della stanza, ma solo spiarne il contenuto da due ulteriori finestre. L’atmosfera fiabesca, carica di sogno e di poesia, rimanda all’universo delle favole di Andersen, a cui il lavoro è dedicato.



Le immagini sono pubblicate in questo articolo courtesy Galleria Lia Rumma, Milano