Storie di deserti e altre macchinazioni - Silvio Zangarini a Fotografia Europea 2012

Di Maria Cristina Strati

testo per la mostra di Silvio Zangarini per FOTOGRAFIA EUROPEA - Ateliers Viaduegobbitre, 12 maggio 2012, Reggio Emilia



Qualche giorno fa (siamo nella piovosa primavera del 2012) un noto quotidiano italiano riportava una notizia riguardante la cosiddetta “camera anecoica”. Una Società del Minnesota, la Orfield Laboratories, avrebbe creato una camera, verosimilmente utile ad astronauti in allenamento, scienziati pazzi e altri nottambuli, la cui caratteristica è di essere insonorizzata al 99,99 per cento. Ciò significa che dentro quella piccola stanza è impossibile sentire anche il minimo suono proveniente dall’esterno. Le conseguenze a quanto pare sono fortemente destabilizzanti per qualsiasi essere umano. Pare che un’altissima percentuale di persone, dopo meno di quarantacinque minuti all’interno della stanza, da soli, presenti rischi di gravi episodi psicotici. Non è difficile credere che il silenzio artificiale induca l’essere umano alla follia, perché privo in sé di qualsiasi misticismo o allure meditativa come potrebbe essere il silenzio animato di un bosco, o quello più profondo e ascetico del deserto. Nella totale assenza di suono, l’uomo è costretto ad ascoltare null’altro che se stesso: il battito del proprio cuore, il gorgoglìo del proprio stomaco e il respiro dei propri polmoni. Pare che la situazione sia a dir poco intollerabile. L’enfer c’est l’autre, diceva Sartre. Ma è molto peggio se ci manca la compagnia infernale del prossimo, e siamo soli: soli noi stessi con i nostri incubi, le nostre paranoie, i nostri stomaci inaspettatamente gorgoglianti e i nostri cuori, che ci sbattono dentro sordi a ogni richiamo o monito, senza darci retta. Eppure il silenzio naturale, nell’epoca dominata dall’imperante inquinamento acustico, fatto di clacson, sferragliamenti di metropolitane, caos vario, televisioni e brutta musica commerciale, potrebbe avere molto da donare. Sarebbe questo però un silenzio non violento, che attutisce i respiri e i battiti del cuore. Un silenzio delicato, che svela, che lascia venire alla luce e alla porta dei nostri sensi, con dolcezza, sensazioni e sentimenti da vivere in prima persona e da condividere con il prossimo. È un silenzio musicale, quello delle cadenze, delle pause: quello che fa la musica tanto quanto il suono. Allora il silenzio naturale, lungi da quanto accade per gli spazi freddi e anaffettivi delle varie camere anecoiche (vere o metaforiche che siano), diviene lo spazio per la relazione possibile: quella che si mette in gioco con gli altri, ma prima ancora con noi stessi.
Il silenzio protagonista delle opere di Silvio Zangarini pubblicate in questo libro somiglia più a quest’ultimo. Sensibile all’approfondimento teorico del lavoro, quanto alle sollecitazioni culturali che provengono da diversi settori del mondo dell’arte e della cultura internazionale, con Deserti di Pietra Silvio Zangarini ha dato vita ad un progetto che coniuga in sé tanto la ricerca e lo studio dal punto di vista tecnico e tecnologico, quanto l’aspetto che concerne l’approfondimento tematico. Al contempo soggetto e argomento del progetto è la nozione di piazza, che nella nostra epoca contemporanea spesso e volentieri perde la sua funzione sociale e aggregativa e fisicamente si svuota, per lasciare lo spazio a modalità di incontro e dialogo assai diverse e non sempre soddisfacenti dal punto di vista esistenziale. Al posto del contatto reale e coinvolgente, vis à vis, di sguardi che si incrociano e si pongono domande, predominano invece modi di relazionarsi con gli altri legati al mondo della tecnologia, sempre più lontani dall’esperienza diretta, dalla percezione concreta e personale. Per fare un esempio si pensi alla nozione, oggi assai diffusa, di 3D, o peggio ancora di 4D o 5D. Le dimensioni non possono che essere tre, in qualche maniera dal gusto vagamente kantiano: altezza, larghezza e profondità. Ma non sono rare le situazioni (anche artistiche) o i giochi in cui ci è promessa, a poco prezzo, la possibilità di vedere anche noi stessi, finalmente, magicamente, in 3D. Come se non lo fossimo già. Come se non fossimo già anche noi, nel contempo res cogitans e res extensa, e viva e sensibile al contatto. Come si vedrà il gioco con la percezione, con le dimensioni e il loro essere plastiche, malleabili e plasmabili è una cifra fondamentale del lavoro di Zangarini. Ma cominciamo a dire che, attraverso la visione delle piazze italiane vuote, o meglio svuotate dalla gente, come a voler sottolineare un assenza o una mancanza, è indicata una condizione sociale ed esistenziale contemporanea ampiamente condivisa.
Le piazze fotografate e rappresentate nel progetto sono tra le più note di città italiane come Torino, Roma, Venezia e Milano, solo per citarne alcune. Dal punto di vista visivo e compositivo, le immagini ricordano ambienti metafisici alla De Chirico. I luoghi appaiono sempre vuoti, privi di ogni presenza umana. Ma soprattutto, le immagini sono volontariamente dilatate, trasformate, distorte, fino a rendere i paesaggi irriconoscibili, secondo un atteggiamento compositivo intenzionalmente straniante da parte dell’autore. Ogni linea si fa piega: una piega che si spiega, si dipana e si ripiega su se stessa mille volte, in modo analogo a ciò che pensava Deleuze per la filosofia di Leibniz e l’arte barocca. Inoltre le fotografie sono quasi tutte scattate in notturna e sono organizzate come una serie di polittici, dove ancora una volta dominano linee curve e forme ripetute, ridondanti: quasi come se l’immagine rendesse conto dell’eco di una voce che risuona, sola in un vuoto deserto urbano. L’idea del deserto allude poi a una componente quasi mistica, a presenze segrete o silenziose, di cui ci è dato soltanto di immaginare. Ecco allora tornare il silenzio. Un silenzio che nasce dal vuoto, dal placarsi della vita del giorno e della veglia, animata dall’ansia di produzione – spesa – realizzazione, insomma una grigia e sorda progettualità senz’anima. Questo è il luogo del vuoto, che nasce al placarsi del movimento forzato e confuso della quotidianità, che insieme allude a uno spazio, a una realtà altra, e anche ad un’assenza. Un’assenza che è altrettanto ridondante come lo sono le forme baroccheggianti a cui Zangarini letteralmente piega ogni sagoma reale. È l’assenza delle persone per cui la piazza, come un organismo in sé, originariamente nasce, vive di vita anche propria e, quotidianamente, cerca e trova la sua forma. Guardando queste foto ce la immaginiamo come una forma viva e palpitante: che gira tra le gambe delle persone che la percorrono e in mezzo ai loro passi, alita nelle loro parole, si scalda e cresce intorno alla melodia dei loro dialoghi e movimenti, e vola via con i pensieri e i sogni melanconici e solitari. Le linee allora si susseguono, si inseguono, si piegano su se stesse: quasi come fossero alla ricerca di qualcuno, una persona, una traccia. Qualcosa che forse è stata e forse no. Un’esistenza, se non presente, viva almeno in un ricordo, che sia possibile riacciuffare con la memoria, attraverso l’identificazione di qualche segnale, indizio o impressione. Forse, quando cade il silenzio, l’anima della città si ridesta, di notte? Le piazze palpitano, vivono e trattengono i sogni? O al contrario li lasciano scorrere lungo le loro fibre più profonde, gli danno vita e respiro? Il lavoro di Silvio Zangarini accenna a una verità misteriosa, un po’ magica, ma molto concreta ed in se stessa essenziale. La sua è una visione fantasiosa, ma vivida. È profondo desiderio di socialità e di rapporti significativi e sinceri: è un invito cordiale e sincero a ripopolare le piazze, rendendole di nuovo piene di gente, voci, persone, storia, storie e soprattutto molta vita. Insomma, luoghi riconoscibili perché in esse è possibile riconoscersi.

per le immagini courtesy Silvio Zangarini