Susan Norrie. Ecologia e testimonianza

(articolo e intervista a Susan Norrie, pubblicato su Juliet n. 157, aprile-maggio 2012)




Ho avuto occasione di discorrere (seppure via mail) con Susan Norrie, artista australiana nota a livello internazionale, protagonista alla 52esima Biennale di Venezia, alla Triennale di Yokohama dello scorso anno e di recente di una personale a Torino presso la Galleria Persano. Il nostro dialogo è riportato di seguito. Per conoscere i retroscena di una ricerca artistica intensa e affascinante, in cui i confini tra cinema, video arte e reportage si fondono in maniera eccelsa.

Maria Cristina Strati: Nei tuoi lavori ti occupi spesso di questioni molto serie ed importanti, come l’ambiente, l’inquinamento o grandi disastri ecologici. Perché questi temi?

Susan Norrie: I mutamenti climatici, l’inquinamento e I disastri ecologici sono aumentati per colpa dell’intervento umano nell’ordine naturale del nostro delicato e biodiverso ecosistema. Come artista, cerco di far sì che la gente si renda conto del legame tra ciò che l’uomo fa e i disastri naturali.
Mi interessa particolarmente l’impatto sulle comunità indigene e agricole e lo sfruttamento delle loro terre da parte delle multinazionali e dei governi corrotti per ricavarne profitti in petrolio, gas, urano, bauxite ecc.
Mi interessa anche il discorso sull’energia e su come il Trattato di Versailles sia stato usato e manipolato dall’America e dalla Gran Bretagna per poter controllare vaste aree delle risorse naturali mondiali.
Per fortuna, mentre cercavo una storia da proporre per la 52esima Biennale di Venezia ho trovato un articolo molto significativo sul disastro ecologico dei pozzi di petrolio a East Java, in Indonesia. Così ho deciso di seguire questa vicenda e i suoi complessi sviluppi.
Il lavoro che presentai a Venezia in quell’occasione si chiamava Havoc. Si trattava di un’installazione video sviluppata in tre stanze. In questo lavoro ho voluto trattare della capacità di recupero della gente contro la cattiva gestione delle loro terre e la mancanza di rispetto nei loro confronti. In quel momento sentivo fortemente l’urgenza di portare a Venezia quella vicenda, proprio perché era stata occultata dai governi corrotti.




MCS: Che cosa pensi possa fare l’arte per l’ecologia? Pensi che possa aiutare la gente a prendere coscienza del futuro del nostro pianeta?

SN: Gli artisti spesso sono romantici rivoluzionari e vorrebbero essere portatori di un cambiamento. Io penso che l’arte contemporanea debba sempre trattare dell’attualità e questo comporta occuparsi di questioni politiche, che riguardano l’ambiente e l’umanità. L’arte non è un media preposto all’informazione, ma io uso molte fonti per la mia ricerca e sono interessata a comprendere il mondo in cui i media distorcono e a volte sopprimono le informazioni. Come artista sento la responsabilità di raccontare le storie dalla prospettiva della gente. Cerco di ascoltare bene i miei collaboratori e colleghi, ma alla fine prevale sempre il mio interesse nell’arte dello storytelling.
Sebbene oggi l’arte contemporanea si rivolga a un pubblico piuttosto ristretto, ho avuto la fortuna di esporre alla Triennale di Yokohama lo scorso anno e posso testimoniare il potere dell’arte: moltissimi giapponesi hanno visitato la Triennale, nonostante lo stato di necessità in cui si trovavano a causa del terremoto. Avevano bisogno di credere in qualcosa al di là della situazione catastrofica che li circondava. Gli stessi curatori e organizzatori della Triennale dovettero fare molti sforzi per arrivare a realizzare il progetto, e alla fine ce l’hanno fatta.
A Yokohama ho presentato un lavoro intitolato Transit. In questo lavoro ho usato internet, oltre alla mostra effettiva, in modo da poter portare il mio messaggio al maggior numero di persone possibile.
Gli sciamani che ho intervistato da Okinawa erano molto colpiti dal mio progetto e lo hanno incorporato nel loro blog (http://prayer-circle.typepad.jp/blog/2011/10/messege-from-susan-norrie-in-sydney.html). Penso che ricorrendo ai social media, oltre ai metodi tradizionali per distribuire ed esporre un progetto artistico, si possa raggiungere un nuovo pubblico.
Transit è stato un lavoro unico, per la situazione e il contesto molto particolare in cui si è svolto. Sto lavorando a un documentario/film d’arte su questi temi. Spero di poterlo proporre non soltanto in una galleria d’arte, ma anche nel contesto di un film festival. Ho inoltre intenzione di espandere la mia ricerca. Vorrei occuparmi dell’Isola di Sakhalin, che si trova 40 km a nord del Giappone. Questo progetto è il frutto di tutto il mio lavoro dal 2006, ed è basato fondamentalmente sul tema dell’energia.
L’arte può far prendere coscienza alla gente delle questioni che concernono i disastri ecologici, anche se gli artisti spesso dicono la loro verità attraverso metafore.
Per questa ragione ho sentito sempre una grande affinità con il movimento dell’Arte Povera. È stato un movimento radicale, e forse non a caso è emerso negli anni sessanta, quando il mondo si trovava in un momento di profondo cambiamento. Gli artisti allora avevano un ruolo nei confronti del sistema e penso che questo valga anche per noi oggi.

MCS: I tuoi video sono pensati e realizzati come documentari. Come mai questa scelta?

SN: La tecnologia digitale è un mezzo ideale per gestire la quantità di informazioni con cui abbiamo quotidianamente a che fare nel nostro mondo sempre più dominato dai media. L’uso dello stile documentaristico non differisce a mio parere dalla pittura storica o dal realismo sociale in arte. Vedo i miei video come film sperimentali.
Nel mio lavoro ricorro al concept, a procedimento di montaggio e persino alle tecniche di editing del regista russo Esenstein. Eisentein parla di un approccio dialettico al film, che secondo lui è a dir poco fondamentale. Infatti il processo di editing è cruciale per la mia visione, è la che io costruisco completamente il lavoro finale. Di solito io testimonio l’evento con il mio proiezionista, poi costruisco le immagini e la storia fino a completare il progetto.
Mi piace molto anche il fatto che il video sia immediato e poco costoso. Non c’è bisogno di molte persone che ci lavorino e si può vedere subito il risultato. Il video inoltre, per me rende in maniera più autentica le storie della gente, specie quando si tratta di comunità povere.

MCS: Secondo la tua opinione ed esperienza, qual è la profonda differenza tra un lavoro di videoarte e un documentario?

SN: Questa è una domanda interessante. Penso che i miei lavori si collochino a metà strada tra video arte, documentario e film. Penso di aver a che fare qui con dei tabù, ma io sono sempre alla ricerca di un nuovo linguaggio e di un nuovo modo di guardare il mondo attraverso l’immagine in movimento.

MCS: Pensi che il reportage sia un medium estetico e artistico compiuto? Dal tuo punto di vista il tuo lavoro ha qualcosa a che fare con il reportage?

SN: Sì, penso che il fotogiornalismo sia una forma d’arte e io certamente sono stata influenzata da questo genere. Penso anche che nella storia dell’arte, fin dai tempi dei surrealisti, le immagini della guerra viste sui giornali avevano un’influenza profonda sugli artisti. Dal mio punto di vista può capitare che l’artista interpreti un’immagine che viene dal mondo dell’attualità, sia che sia lui stesso a riprendere quell’immagine con la sua videocamera.
In molti dei miei progetti l’artista diventa giornalista, cioè qualcuno che fa delle ricerche per capire una storia nella sua complessità. Inoltre, mi trovo spesso in situazioni in cui la stampa e I governi corrotti sopprimono o distorcono le informazioni, così che la verità resta semplicemente nascosta. Mi meraviglia sempre scoprire quanta poca libertà di parola esista in tanti paesi del mondo, dove la stampa è spesso al servizio del potere e delle multinazionali. Perciò vorrei che il mio lavoro avesse a che fare con il reportage, per la sua caratteristica di essere testimonianza. Facendomi carico di tutti i rischi, io cerco di dare un punto di vista equilibrato sulle diverse situazioni che racconto.

MCS: I tuoi video sono sempre il risultato di un work in progress, che coinvolge molte persone: giornalisti, esperti e altri. L’idea di work in progress è importante per capire il tuo lavoro?

SN: È una questione etica per me riconoscere sempre il lavoro di quelli che lavorano con me. Sia che si faccia un progetto di video d’arte, un documentario o un film è sempre necessaria la collaborazione di molte persone. Ora, quando lavoro con altri ricorro al modello del film, anche se mantengo sempre il mio ruolo di autrice. Come artista, io pongo le domande, ma non pretendo di avere la soluzione dei problemi in una prospettiva escatologica.
L’idea di un work in progress non è dissimile dalla “vita”: c’è sempre un aspetto della vita che si rivela o che si racconta nel tempo. Ancora una volta mi ritrovo ad avere a che fare con la misteriosa natura dell’arte, dove l’artista spesso lavora a un livello altamente intuitivo, che a volte è difficile da dipanare… così nasce il work in progress.
Un aspetto davvero fondamentale nel mio lavoro è ciò che io chiamo il sublime tecnologico. Molti film realizzati negli anni cinquanta e sessanta sia in Europa (Pasolini), sia soprattutto in Giappone (Kurosawa) e in Russia (Tarkovsky) mostrano un mondo radicalmente mutato dopo Hiroshima e Nagasaki e la Guerra Fredda. Il film di Antonioni Il deserto rosso è particolarmente significativo nell’uso di ciò che io chiamo sublime tecnologico, che comincia a prendere il posto del sublime naturale. Film come Stalker di Tarkovsky e Il deserto rosso di Antonioni avevano a che fare con le moderne ecologie della distruzione.



(per le immagini courtesy Galleria Giorgio Persano, Torino, e l'artista)