(Qui di seguito il mio testo completo per la mostra)
“Premiata Sartoria Tonin & Figli”
Mostra personale di
Francesca Arri @ Paolo Tonin Gallery
A cura di Maria Cristina Strati
La ricerca artistica di Francesca Arri si rifà ad alcuni filoni dell’arte contemporanea più o meno recente, approfondendone le letture e cimentandosi in una interessante interpretazione originale e personale.
Il progetto di Francesca Arri per la sua prima mostra personale è incentrato su uno dei temi fondamentali della sua poetica: il rapporto con il corpo. Il tema della corporeità, com’è noto, è stato letto e interpretato nella storia dell’arte in svariati modi da artisti di altissimo livello internazionale, da Francis Alys fino a Matthew Barney, solo per fare alcuni nomi.
Nel progetto in mostra la dimensione corporea è vissuta dall’artista con una costante tensione drammatica. È la volontà del soggetto di riconoscersi e di aderire ad un modello esterno, a cui adeguarsi anche forzatamente, a costo di usare violenza a sé stessi e alla propria personale integrità fisica.
Il corpo diventa allora qualcosa da costruire artificialmente, come fosse un oggetto o un abito. Ogni parte del corpo è da cucire alle altre, da creare e scegliere in un gioco sadico e sofferente, ma anche ironico. L’abito diventa il corpo stesso, esterno e interno si confondono. Come una novella Orlan, ma in modo diverso e soprattutto metaforico, la Arri invita lo spettatore a costruire e decostruire la propria immagine fisica. E questa appare, dal punto di vista esistenziale, come un fardello pesante da portare avanti nell’altalenante gioco della vita.
Nella visione di Francesca Arri il senso della pesantezza e la molle rotondità delle forme sono volutamente esasperati. Benché il risultato del lavoro sia spesso molto interessante dal punto di vista estetico, rifacendosi a un linguaggio espressivo denso di rimandi e intenzionalmente carico per luci, colori e composizione, il corpo qui è trattato il più delle volte con ironia, ma anche con accenti neanche troppo velatamente violenti, ai limiti della brutalità o addirittura della crudeltà.
Il senso ossessivo del corpo, delle forme onnipresenti, del peso e il concomitante desiderio di spezzarne il giogo, al fine di ritrovare una forma fisica socialmente accettata, è portato così costantemente all’estremo.
In questo contesto la metafora della sartoria è da intendersi in un doppio senso: da un lato è la teatralizzazione di un corpo ormai perdutamente mercificato. Siamo nel luogo del corpo misurato, pesato e valutato in ogni suo centimetro, una sorta di macabra sala operatoria dall’aspetto pericolosamente obiturale, dove la carne e non la stoffa è tagliata e cucita, perché è forzata a rientrare in canoni prestabiliti e, anche solo per questo, soffocanti.
Ma dal punto di vista diametralmente opposto, la metafora della sartoria afferma anche, e con altrettanta violenza, o addirittura con virulenza, la volontà incoercibile a tornare padroni del proprio corpo, riaffermando un diritto personale su di esso, un potere ai limiti della hybris.
Nonostante la repressione e la violenza del metaforico taglia-e-cuci, il corpo continua però a dominare su tutto, e non solo per quanto concerne l’aspetto della visione.
Chi guarda i lavori della Arri vede sì un corpo offeso, ridicolizzato, vessato e portato ogni volta all’estremo. Ma nonostante i tentativi di addomesticarlo, è sempre il corpo che vince, che appare sopra tutto, che deborda, insiste, si piega e non si spezza, fino a restare l’unico, ostinato dominatore della scena.
Assistiamo così a una dura lotta, la vera e propria mise-en-scène di un conflitto che è innanzitutto interiore e, in un’epoca abituata a privilegiare rigidi schemi razionalistici e strategici, ampiamente condivisibile.
È la lotta tra l’istinto - rappresentato dalla carne, dal corpo fisico con la sua presenza pesante e inaggirabile - e una razionalità ormai sclerotizzata, vuota, morta e mortifera nei suoi effetti, che fa il paio con la società dell’immagine e dello spread, della depressione e dei problemi del comportamento alimentare.
Certo, la visione finale, il risultato della ricerca di Francesca Arri, non è una gioia o un tripudio della carne, tutt’altro.
Qui siamo nel momento della massima tensione, assistiamo al tentativo della sottomissione totale, della morte auspicata dell’istinto, portavoce del caos, dell’inconscio e delle sue ombre, a favore di una legge ostile e fredda. Una legge che fa del corpo un’immagine finta, che vuole portare ordine, ma è troppo astratta e sa solo stringere, costringere e tagliare, bramando di imporre ad ogni costo un vuoto buon senso comune, contro ogni buon senso.
Forse qui la speranza, sopita e silenziosa, non ha nulla a che vedere con la ricerca di un accordo tra istinto e ragione. Giace piuttosto, forse, proprio nella coesistenza delle due forze opposte e contrarie.
L’accento cade così, ancora una volta, sulla corporeità irredenta, che però è viva e sfacciatamente sensuale: sicuramente ironica, ma anche impudica e immaginifica, come una moderna Gradisca di felliniana memoria.
Francesca Arri (Asti, 1983) vive e lavora a Torino ed è oggi alla sua prima mostra personale. Diplomata presso l'Accademia Albertina di Belle Arti, ha partecipato a numerose mostre collettive in Italia e all'estero, esponendo in sedi prestigiose come l'Hangar Bicocca a Milano, il Museo di Arte Contemporanea di tel Aviv e la Red Fish Factory di Anversa.
per l'immagine courtesy l'artista e Paolo Tonin
“Premiata Sartoria Tonin & Figli”
Mostra personale di
Francesca Arri @ Paolo Tonin Gallery
A cura di Maria Cristina Strati
La ricerca artistica di Francesca Arri si rifà ad alcuni filoni dell’arte contemporanea più o meno recente, approfondendone le letture e cimentandosi in una interessante interpretazione originale e personale.
Il progetto di Francesca Arri per la sua prima mostra personale è incentrato su uno dei temi fondamentali della sua poetica: il rapporto con il corpo. Il tema della corporeità, com’è noto, è stato letto e interpretato nella storia dell’arte in svariati modi da artisti di altissimo livello internazionale, da Francis Alys fino a Matthew Barney, solo per fare alcuni nomi.
Nel progetto in mostra la dimensione corporea è vissuta dall’artista con una costante tensione drammatica. È la volontà del soggetto di riconoscersi e di aderire ad un modello esterno, a cui adeguarsi anche forzatamente, a costo di usare violenza a sé stessi e alla propria personale integrità fisica.
Il corpo diventa allora qualcosa da costruire artificialmente, come fosse un oggetto o un abito. Ogni parte del corpo è da cucire alle altre, da creare e scegliere in un gioco sadico e sofferente, ma anche ironico. L’abito diventa il corpo stesso, esterno e interno si confondono. Come una novella Orlan, ma in modo diverso e soprattutto metaforico, la Arri invita lo spettatore a costruire e decostruire la propria immagine fisica. E questa appare, dal punto di vista esistenziale, come un fardello pesante da portare avanti nell’altalenante gioco della vita.
Nella visione di Francesca Arri il senso della pesantezza e la molle rotondità delle forme sono volutamente esasperati. Benché il risultato del lavoro sia spesso molto interessante dal punto di vista estetico, rifacendosi a un linguaggio espressivo denso di rimandi e intenzionalmente carico per luci, colori e composizione, il corpo qui è trattato il più delle volte con ironia, ma anche con accenti neanche troppo velatamente violenti, ai limiti della brutalità o addirittura della crudeltà.
Il senso ossessivo del corpo, delle forme onnipresenti, del peso e il concomitante desiderio di spezzarne il giogo, al fine di ritrovare una forma fisica socialmente accettata, è portato così costantemente all’estremo.
In questo contesto la metafora della sartoria è da intendersi in un doppio senso: da un lato è la teatralizzazione di un corpo ormai perdutamente mercificato. Siamo nel luogo del corpo misurato, pesato e valutato in ogni suo centimetro, una sorta di macabra sala operatoria dall’aspetto pericolosamente obiturale, dove la carne e non la stoffa è tagliata e cucita, perché è forzata a rientrare in canoni prestabiliti e, anche solo per questo, soffocanti.
Ma dal punto di vista diametralmente opposto, la metafora della sartoria afferma anche, e con altrettanta violenza, o addirittura con virulenza, la volontà incoercibile a tornare padroni del proprio corpo, riaffermando un diritto personale su di esso, un potere ai limiti della hybris.
Nonostante la repressione e la violenza del metaforico taglia-e-cuci, il corpo continua però a dominare su tutto, e non solo per quanto concerne l’aspetto della visione.
Chi guarda i lavori della Arri vede sì un corpo offeso, ridicolizzato, vessato e portato ogni volta all’estremo. Ma nonostante i tentativi di addomesticarlo, è sempre il corpo che vince, che appare sopra tutto, che deborda, insiste, si piega e non si spezza, fino a restare l’unico, ostinato dominatore della scena.
Assistiamo così a una dura lotta, la vera e propria mise-en-scène di un conflitto che è innanzitutto interiore e, in un’epoca abituata a privilegiare rigidi schemi razionalistici e strategici, ampiamente condivisibile.
È la lotta tra l’istinto - rappresentato dalla carne, dal corpo fisico con la sua presenza pesante e inaggirabile - e una razionalità ormai sclerotizzata, vuota, morta e mortifera nei suoi effetti, che fa il paio con la società dell’immagine e dello spread, della depressione e dei problemi del comportamento alimentare.
Certo, la visione finale, il risultato della ricerca di Francesca Arri, non è una gioia o un tripudio della carne, tutt’altro.
Qui siamo nel momento della massima tensione, assistiamo al tentativo della sottomissione totale, della morte auspicata dell’istinto, portavoce del caos, dell’inconscio e delle sue ombre, a favore di una legge ostile e fredda. Una legge che fa del corpo un’immagine finta, che vuole portare ordine, ma è troppo astratta e sa solo stringere, costringere e tagliare, bramando di imporre ad ogni costo un vuoto buon senso comune, contro ogni buon senso.
Forse qui la speranza, sopita e silenziosa, non ha nulla a che vedere con la ricerca di un accordo tra istinto e ragione. Giace piuttosto, forse, proprio nella coesistenza delle due forze opposte e contrarie.
L’accento cade così, ancora una volta, sulla corporeità irredenta, che però è viva e sfacciatamente sensuale: sicuramente ironica, ma anche impudica e immaginifica, come una moderna Gradisca di felliniana memoria.
Francesca Arri (Asti, 1983) vive e lavora a Torino ed è oggi alla sua prima mostra personale. Diplomata presso l'Accademia Albertina di Belle Arti, ha partecipato a numerose mostre collettive in Italia e all'estero, esponendo in sedi prestigiose come l'Hangar Bicocca a Milano, il Museo di Arte Contemporanea di tel Aviv e la Red Fish Factory di Anversa.
per l'immagine courtesy l'artista e Paolo Tonin