Quel che resta del vuoto

Henrik Olesen da Franco Noero a Torino

di Maria Cristina Strati
(pubblicato su Juliet n° 156, febbraio marzo 2012)



Fino febbraio 2012 la Galleria Franco Noero di Torino ospita una mostra personale dell’artista danese Henrik Olesen.
Nato a Esbjerg nel 1967, Olesen attualmente vive e lavora a Berlino. Ha esposto i suoi lavori in tutto il mondo, in gallerie private e in celebri locations istituzionali, tra cui la Project Gallery del Moma di New York, che gli ha dedicato una mostra personale nei primi mesi del 2011.
Il suo lavoro si qualifica come indiscutibilmente concettuale. Estremamente rigoroso dal punto di vista visuale, Olesen dà infatti vita a lavori intensi, sempre caratterizzati dalla povertà dei materiali scelti.
Si tratta di interventi finemente calibrati, che interagiscono però, in certo senso, anche violentemente con lo spazio espositivo, in un gioco di pieni e vuoti, luci e ombre, tanto sottile quanto profondamente calcolato e studiato. Dal punto di vista delle tematiche, Olesen privilegia argomenti di carattere sociologico e antropologico, sviluppati però secondo una prospettiva teorica e filosofica notevole.
Ad esempio, in occasione di questa personale torinese, Olesen ha pensato un progetto site specific per la particolare location di Casa Scaccabarozzi, la cosiddetta “Fetta di Polenta” opera dell’architetto Antonelli, dove la galleria di Franco Noero ha la sua sede principale.
Il progetto artistico si configura qui come una vera e propria indagine circa la struttura della società occidentale contemporanea. Olesen si spinge però ben oltre le dinamiche che appaiono e si palesano in superficie, cercando di mettere in luce le contraddizioni evidenti, come le sottili e più recondite incoerenze che costituiscono le maglie del tessuto sociale, attraverso una ricostruzione più concettuale, quasi matematica, che visiva.
L’artista ha immaginato che ogni piano della casa rappresentasse un livello della società contemporanea.
Al piano più basso si parte da uno spazio vuoto, simbolo del primo livello sociale. Qui l’artista lascia volontariamente le tracce dei chiodi e degli stucchi, tracce della mostra che ha precedentemente avuto luogo nella galleria: questo particolare qualifica immediatamente lo spazio non come intonso e vergine, ma come svuotato, reso vuoto dalle presenze di un passato appena trascorso e di cui restano le impronte. Il vuoto qui rappresenta la povertà degli strati sociali più bassi e la loro scarsa facoltà di “contare qualcosa” ed esercitare un potere.
Al secondo piano, sulle pareti e sulle finestre – fatte chiudere dall’artista con cartongesso, a pilotare in maniera ricercatamente più fredda la luminosità dell’ambiente - ci sono lavori realizzati con lunghe file di chiodi incollati in maniera seriale e ripetitiva su larghi pezzi di tela. Queste “immagini”, come sono quasi provocatoriamente definiti i lavori nei titoli, rimandano alla dimensione massificata e fortemente inquadrata dei ceti medi.
Il piano ancora più in alto mostra il livello dei più fortunati, dove però la massificazione e l’annullamento delle individualità si fa sempre più evidente. Inoltre qui le file dei chiodi si alternano secondo un ritmo che ricorda l’andamento sincopato e sempre uguale della musica techno.
La sezione di chi gestisce il potere è rappresentata al piano ancora più alto da alcuni fili elettrici incollati al pavimento e su una porta, quali allegorici elementi di raccordo, attraverso cui soltanto scorre l’energia che muove ogni dinamica sociale.
In ultimo, a conclusione del percorso, al piano più alto di tutti, si assiste il ritorno al vuoto delle classi più basse: a significare che la società contemporanea vive come un organismo, in cui tutto si muove circolarmente in un continuo scambio e ricambio energetico.
Lungo tutto il percorso espositivo un ruolo fondamentale, tipico della poetica di Olesen, è giocato dallo spazio vuoto, il quale, in modo del tutto inaspettato, assume una dimensione quasi narrativa, pronta ad accogliere i giochi di forza creati dalla luce e dai pochi e poverissimi oggetti presenti.
Lo spazio “non produttivo”, come è definito nel testo critico di Josef Strau, si fa così paradossalmente generatore quasi elettrico di reazioni inaspettate e insolite.
Lungi dal tentare di sedurre o affascinare il suo spettatore, Olesen lo pone di fronte a una vacuità che concerne soprattutto una dimensione di interiorità. La ricercata povertà dell’allestimento pare infatti quasi volta a riflettere le sensazioni fisiche e cinestetiche di chi guarda e si muove nella galleria, come in uno specchio che ingigantisce i contorni di quello stesso vuoto.
Il nulla dello spazio vuoto, o svuotato dall’artista, assume così una sua dimensione propria, tanto presente da apparire, per contrasto, quasi ingombrante.
Per questa ragione il vuoto di Olesen sembra aver poco a che vedere con le correnti minimaliste o con un’eventuale lettura che si ispiri alle filosofie orientali. Il nulla, o il vuoto di Olesen ricorda piuttosto una serie di referenti filosofici occidentali di tutto riguardo, quali il concetto di Ni-entità di heideggeriana memoria, dove il Niente si contrapponeva all’essere con una sua propria forza specifica, oppure il processo di riduzione fenomenologica tematizzato da Husserl, in cui il giudizio sul mondo era filosoficamente sospeso, o, ancora, alcune teorie di Merleau-Ponty.
Ma in ogni caso, e in parole povere, qui ci troviamo in una situazione potenzialmente spiazzante: il nulla, il vuoto dello spazio espositivo, non rimanda necessariamente a qualcosa che non c’è, palesando i contorni di una dolorosa assenza.




Lungi da configurarsi come mero spazio vuoto, il nulla di Olesen ha a che fare con un atto di rimozione di tutto ciò che occasionalmente reifica lo spazio. È vuoto creato, voluto e ricercato, per nulla innocuo, ma denso di effetti.
Perciò, a mio parere e nonostante le innumerevoli possibili citazioni, questa mostra non va tanto intesa come una rivendicazione estrema della portata filosofica e concettuale dell’operare artistico, oltre ogni aspetto estetizzante o formalizzante. Qui la dimensione interessante si svela proprio nell’operazione di svuotamento praticata dall’artista e la cui soluzione sfugge, in qualche senso – e, sia ben chiaro, volontariamente - all’artista stesso.
Lo spazio lasciato vuoto trova infatti una sua nuova abitabilità ad un secondo livello di lettura e di esperienza, oltre ogni misura o azione precedentemente prevedibile.
In altre parole, si direbbe che ciò che resta, nel vuoto dell’arte nullificata dall’incessante e intensissima ricerca concettuale, si dipana in un modo di stare al mondo che si trova molto più fuori che dentro lo spazio espositivo, che vive e si muove al di là dello spazio fisico della mostra. È qualcosa che ha a che fare con i suoni che provengono dalla strada antistante; con i colori e le luci che penetrano dall’esterno, oltre le pareti e le finestre provvisoriamente murate dal cartongesso; fino alla tonalità emotiva arrecata alla lettura dell’esposizione da parte dello stesso fruitore.
Così, dove l’arte annienta e svuota se stessa dei suoi propri contenuti, il vuoto ricreato nel laboratorio alchemico dello spazio espositivo si fa foriero di un nuovo e inaspettato movimento. Movimento che però, per sua natura, forse non può che sfuggire ad ogni possibile controllo razionale, che rimanda, per contrasto, al suo opposto: una vita brulicante ed affollata di stimoli caldi, confusi e torbidi, che mal si adattano ad apparire sotto la lente limpida e ripulita di un rigoroso e asettico pensiero filosofico tradizionale.


(per le immagini courtesy Galleria Franco Noero, Torino)