Sleeping beauties. Intervista a Luigi Gariglio

(articolo e intervista pubblicati su Juliet, n. 154 ottober/novembre 2011

La versione che leggete qui è quella integrale, senza correzioni di bozze, e quindi un pochino più lunga... buona lettura!)




Ho incontrato Luigi Gariglio in occasione della sua mostra personale inaugurata a Torino da Photo & Co, lo scorso 27 maggio. È un artista e studioso serio ed entusiasta, che crede nel proprio lavoro e lo realizza con una semplicità plastica che è in realtà il frutto di una tecnica e uno studio attentissimi e precisi.
Intervistarlo è stata un’esperienza gratificante: un vero e proprio confronto di idee e l’approfondimento di una ricerca seria e interessante, dai temi sociologici al racconto degli ultimi lavori.
L’ultimo progetto, in mostra da Photo & Co, s’intitola Sleeping Beauties: è un lavoro sul concetto di bellezza femminile, che prende spunto dalla nota favola di Perrault e successive rielaborazioni iconografiche. Il bello qui è reale e vero, lontano da ogni stereotipo. Le donne sono fotografate come colte in un momento di debolezza e di sogno, sprofondate nel sonno al ritorno da una festa. I volti sono ripresi da vicino, a indovinare fino ai piccoli umanissimi difetti della carnagione che, a dispetto di quanto ci si potrebbe attendere, contribuiscono a comporre l’immagine di bellezza.
A queste immagini si affiancano i lavori della serie Featuring memories, ad esse correlate. Ogni volto femminile porta accanto a sé una sorta di nuvola di immagini, composta da minuscole fotografie: sono ricordi, foto di famiglia o con gli amici, come quelle che si trovano nei social networks. In ogni lavoro compare, un po’ come una firma di hitchcockiana memoria, l’immagine dell’artista, da piccolo, sulla spiaggia e con una scimmietta in mano. Gariglio mette così in scena la memoria del soggetto, affrontando in modo fine e preciso il tema della rappresentazione e dell’autorappresentazione, dipanandolo attraverso le immagini come lo svolgersi dei fatti in un racconto. O come una nuova semantica fatta di immagini e di sogni di umanissima memoria.



Maria Cristina Strati: Durante Artissima 2010, sono rimasta colpita da un tuo progetto, presentato DA Photo & Co. Si trattava delle Lap dancer, una serie di immagini di volti femminili di donne legate a un mondo piuttosto ambiguo (lapdancer appunto). Contrariamente a quanto spesso accade nel mondo dei media, tu rappresenti questi soggetti nella forma del ritratto, dando a titolo di ogni lavoro il nome proprio della donna soggetto dell’opera. Mi ha colpito questa ricerca, che pone l’accento sulle persone, in una maniera molto attuale e molto poco in linea con certo modo di rappresentare la donna in televisione. Ultimamente l’argomento è molto attuale. Mi viene in mente il documentario di Lorella Zanardo “Il corpo delle donne”, e le polemiche che ne sono seguite sulle veline eccetera. Tu fai un lavoro molto fine, decidendo di rappresentare non i corpi ma i volti, chiamando le persone per nome.
Anche quest’ultimo lavoro, Sleeping Beauties, ritorna sul mondo femminile e sull’immaginario che rappresenta la donna. Come nascono le tue riflessioni su questi argomenti?


Luigi Gariglio:

Ho sempre avuto interesse nella rappresentazione di genere nel giornalismo. Già molto prima che questo argomento diventasse così attuale in Italia ho svolto delle ricerche molto accurate, visionando le immagini delle donne nei periodici non solo italiani ma in ambito internazionale. Ho esaminato l’immaginario femminile offerto da riviste americane notissime in tutto il mondo come Life o The Economist nel corso di diversi anni. Il lavoro di ricerca sull’iconografia femminile nel giornalismo, o meglio la ricerca sul fotogiornalismo di genere mi ha condotto alle riflessioni da cui è poi nato il progetto delle Lapdancer. Cerco di andare oltre l’immagine costruita del soggetto per svelarne la personalità, il volto, l’umanità sotto la maschera.
Il fotogiornalismo, ancora prima della televisione, influisce molto nella costruzione dell’immagine collettiva, ad esempio, della donna. Oggi in Italia il tema è poi diventato di grandissima attualità.
Personalmente io sono sempre stato molto sensibile a questi temi. Ho fatto dei lavori sul mondo gay, ma soprattutto è merito di mia moglie. Lei è olandese e la frequentazione sua e di quel paese mi ha aperto lo sguardo su molte cose. Certe cose che per noi in Italia sono normali o accettabili, non sono pensabili in una cultura nordica.
La sensibilità per certi argomenti e un certo modo di vedere la realtà e di leggerla tramite la fotografia nasce proprio dai lavori che ho svolto sul mondo lgbt e da quello sulle carceri. Sono tutti lavori in cui credo profondamente. Nascono dall’esigenza personale di raccontare cose che mi interessano profondamente, e ovviamente dai miei studi.
Vorrei che nelle mie fotografie prevalesse sempre l’aspetto di ricerca, di studio e di sensibilità. In questo senso le donne che rappresento come soggetti di Sleeping Beauties, ad esempio, appaiono quasi antierotiche, e ancora di più questo era vero per il progetto delle Lapdancer. Questo antierotismo è per me ricercato, anche attraverso l’uso di colori e toni freddi, e di certe luci molto studiate: voglio far emergere le persone, nelle loro identità o nei loro sogni.



MCS:
Si potrebbe dire che qui ti interessa più l’erotismo nel senso filosofico dell’eros, come forza vitale che muove il pensiero…

LG: In un certo senso è vero. La mia è soprattutto una ricerca sul bello femminile, soprattutto in quest’ultimo progetto. È un’indagine sulla bellezza e sulle retoriche artistiche legate al concetto di bello nell’immaginario contemporaneo. In Sleeping Beauties la bellezza femminile non è da intendersi nel senso comune di perfezione formale di un soggetto. Qui la bellezza è costruzione. Anche l’erotismo quindi è da leggersi in una maniera profonda, che ha a che fare con una precisa ricerca artistica.
Sleeping Beauties nasce infatti dalla riflessione sulle differenti declinazioni del bello in arte, con il tentativo di sottrarsi ad ogni stereotipo. Per questo progetto sono partito dal tema della bella addormentata, però ho cercato di uscire dagli standard attraverso i quali il personaggio di Perrault è di solito rappresentato. Nell’immaginario comune la bella addormentata è sempre una fanciulla bionda, con la pelle chiara, ben poco consapevole di sé stessa. Io ho voluto rendere invece immagini di belle addormentate che sono più vere e realistiche e nello stesso tempo appaiono distanti, come donne di favola e di sogno.
La bellezza qui è frutto di una costruzione reale, che va dall’allestimento del set dove ho realizzato le fotografie, fino alla scelta del trucco e del colore dei capelli delle modelle. Ho chiesto loro una totale disponibilità in questo senso. In alcuni casi le facevo truccare da professionisti e poi le struccavo io, in maniera disordinata. Nel progetto infatti devono apparire come donne appena tornate da una serata, mentre dormono e sognano dopo un momento di divertimento e di festa.
Le modelle si sono rese completamente disponibili per la creazione delle immagini e mi hanno lasciato lavorare con molta libertà. Anche per il progetto collaterale, Featuring memories, le ragazze mi hanno dato l’accesso a materiale molto privato e personale, come le foto di famiglia o quelle delle vacanze, e ai loro profili sui social network come facebook o myspace, e mi hanno consentito di usare tutto il materiale come volevo. C’è stato uno scambio vero, molto forte, gratuitoe intimo e credo che questo si veda nel risultato.

MCS:
Nel tuo lavoro ricorre spesso il tema del ritratto, del volto. Un soggetto fondamentale nella storia del’arte di tutti i tempi. Come lo affronti e perché lo scegli?

LG:
Io vengo da studi di spazi architettonici in bianco e nero, sono stato allievo di Gabriele Basilico. E ora faccio ritratti a colori, molto semplice! Tutto per me è cambiato con il lavoro delle carceri. Ritratti in prigione, un lavoro durato dieci anni durante i quali ho realizzato il libro edito nel 2007. Prima di questo progetto, per anni cercavo soggetti esotici nei posti più diversi da fotografare, e tutti i giorni, per andare a lavorare o uscire da Torino per viaggiare passavo davanti al carcere delle Vallette. Ad un certo punto mi sono reso conto che il mondo più vario era proprio lì dentro. Così ho cominciato a fotografare soggetti umani a colori. Casualmente Il contrario di quello che faceva e mi insegnava il mio maestro!
Ad esempio nel progetto delle lapdancer, diversamente per quanto accade in Sleeping beauties, i soggetti sono ripresi frontalmente, con luci piatte, senza trucco, tranne quello tatuato. Erano donne nude, ma non si vedeva nulla dei loro corpi. Tutto era nel volto e nella bellezza dello sguardo. In quel caso ho voluto ragionare sulla capacità dell’arte di creare, come la favola, e di comunicare con l’altro da noi. Con Sleeping Beauties ho fatto il ragionamento opposto. In questo caso volevo costruire un sogno, un personaggio di fiaba. Così, mentre per le lap dancer le foto s’intitolavano con nomi propri di persona, qui ho scelto di identificarle con numeri, come le Featuring memories.
Un’altra tematica propria di questi ritratti è il tema dell’altro, dello straniero. Tutte le donne soggetto delle immagini sono straniere, tranne una (che però l’artista non desidera indicare ndr.). I soggetti esprimono l’alterità radicale, le possibilità inespresse dell’essere straniero e della femminilità. Cerco di riprenderle in un momento in cui esprimono delle potenzialità inespresse, oltre ogni stereotipo precostituito. Questa è una possibile chiave di lettura dell’intero progetto, ma è una lettura aperta.
Io cerco di esprimere la vita che loro hanno dentro. Una dimensione poetica. E loro in certo senso si sono donate a me con tutte loro stesse per creare le immagini.

MCS:
Tu insegni Visual Studies da una prospettiva sociologica (è professore all’Università di Torino, facoltà di Scienze politiche ndr.). Qual è il rapporto tra fotografia e sociologia a tuo parere?

LG: A lezione mi piace sempre citare una canzone dei 99 posse: “ il miglior stile è avere qualcosa da dire”. Credo che questa frase così semplice alla fine sia davvero fondamentale. La fotografia è una chiave di lettura straordinaria per interpretare la società.
I termini chiave per la buona riuscita del lavoro a mio parere sono partecipazione e condivisione.
Uno dei miei riferimenti è il sociologo dell’arte Howard Becker, uno dei padri fondatori della sociologia visuale e dell’arte.
La sociologia ti permette di riuscire a capire le logiche, e anche ad identificare il modo migliore per rappresentare le tue idee. Per esempio per il progetto delle lapdancer avevo deciso di realizzare foto non grandi. Le foto di grandi dimensioni infatti non andavano bene, perché nel progetto cercavo di andare oltre la maschera sociale dei soggetti, quindi dovevo rendere le immagini molto vicine allo spettatore. In Sleeping Beauties capita invece il contrario: le foto devono essere grandi, perché qui la donna diventa sogno. È la protagonista di una fiaba, più di una donna vera.

MCS: C’è molta verità nel tuo lavoro e molto rispetto dei soggetti, che non sono mai esibiti come trofei, come a volte accade nell’arte contemporanea che si dedica alla rappresentazione del mondo borderline di detenuti o prostitute.

LG:
è vero. Per esempio anni fa avevo sviluppato un progetto sul mondo gay con alle spalle un lavoro sociologico, che richiedeva una profonda partecipazione personale da parte mia. Avevo contattato delle persone gay attraverso siti come comingout.it o mailing list private, quando ancora non esistevano i social network. Chiedevo poi a uomini e donne lgbt come preferivano essere rappresentati. Quasi tutti sceglievano di farsi fotografare nudi, in un gioco di erotismo che però io ho volutamente tolto, scegliendo colori e toni freddi. Loro stessi mi hanno suggerito di usare addirittura come titolo dei lavori il vero indirizzo email di ciascuno di loro. E alcuni hanno persino usato il lavoro per dichiarare in famiglia la loro omosessualità, è stata un’esperienza davvero commovente.
Da fruitore l’arte mi interessa in generale: per me è arte creare simboli dotati di senso. E questi simboli hanno senso se riescono ad incidere realmente sulla vita delle persone, e se sono frutto di un lavoro di comprensione e di ascolto.
Nel lavoro sulle carceri avevo speso molto tempo a discorrere con i detenuti, quasi a convincerli a non farsi fotografare. Volevo avvertirli che, anche se l’immagine sarebbe stata decontestualizzata, loro sarebbero apparsi al mondo come detenuti e ciò avrebbe potuto violare la loro privacy e creare loro non pochi danni. Molti di loro però insistevano a voler partecipare. Quando una persona è chiusa dentro comunicare con qualcuno diventa davvero importante, ne hanno davvero bisogno. Perciò ho cercato sempre di non usarli, di lavorare con rispetto e sensibilità.
Il lavoro che i media fanno con le immagini è diametralmente opposto al sistema con cui lavoro io: dove i media costruiscono, aggiungono, mascherano, io cerco sempre di togliere. In più ho bisogno di tempo per conoscere i soggetti e approfondire.
Forse questo mi accade anche perché in passato ho lavorato alcune volte con Penone e sono molto affascinato e stimolato dal suo lavoro La sua idea di scoprire gli alberi mi è molto affine in questo senso. È un discorso sulla rappresentazione e sulla retorica dell’altro. È l’idea che la bellezza di qualcosa nasce dal bisogno di un’espressione comune, e ha insieme qualcosa della ricerca di spiritualità e di una fisicità “di pelle”.

MCS: Gabriele Basilico, tuo maestro, ha parlato in fotografia della lentezza dello sguardo. Credo che questa nozione si adatti bene al tuo lavoro, che richiede uno sguardo attento, non bulimico e fagocitante, appunto, lento.

LG:
Certamente è così. Lo sguardo è lento, e spesso lo è anche il fare un progetto. Questo ha a che fare anche con la libertà della ricerca. In tutta la mia carriera non ho realizzato più di sei o sette progetti. Ne penso moltissimi, anche uno o più al giorno, ma li faccio solo se mi ossessionano per almeno sei mesi. Allora capisco che sono davvero necessari. Si questa è una delle più importanti eredità di Basilico.


Maria Cristina Strati, 2011