“L'anima della terra è notturna, ma la luce del sole la nasconde più che non la nasconda la tenebra”
(G. D’annunzio, da La Contemplazione della Morte)
Di Maria Cristina Strati
Pubblicato su Juliet, n. 153, giugno-settembre 2011
foto di Maria Bruni, courtesy Guido Costa Project e l'artista
A febbraio si è inaugurata a Torino, presso Guido Costa Projects, la mostra personale di Diego Scroppo.
Il lavoro di Scroppo nasce da una ricerca intensa, incentrata su temi di sapore metafisico. L’artista ricorda nello stile un inquietante poète maudit, ma più perfezionista che bohème: la sua poetica ha infatti a che fare con il buio, l’aspetto tenebroso da cui però si genera un misterioso dinamismo. Ne nasce qualcosa di volutamente algido e perfetto, ben poco spontaneo e intenzionalmente privo di solare vitalità.
Il Vuoto è la seconda mostra personale di Scroppo per la galleria di Guido Costa, dopo Senza Luce del 2007. Allora l’artista indagava, attraverso una serie di sculture, la vita di chimeriche e misteriose creature degli abissi. Come nel caso della mostra attuale, l’esposizione del 2007 presentava pochi, ma studiatissimi lavori. Scroppo è infatti autore dalla produzione ricercatamente centellinata: ogni opera è frutto di un lungo lavoro di elaborazione, soprattutto intellettuale.
Negli ultimi lavori egli approfondisce almeno due tematiche fondamentali già presenti nella prima personale: in primo luogo l’attenzione ad una sorta di fase germinativa dell’essere; in seconda istanza il buio - o appunto l’assenza di luce - in cui tutto insieme finisce e si rigenera.
In questa più matura fase, il discorso sulla germinazione di vite misteriose e antropomorfe si fa più acuto e a tratti macabro, senza ironia. L’assenza di luce si muta invece in un inesplicabile buio parziale, in cui le opere appaiono in un bagliore volutamente fioco, utile appena a identificarne i contorni.
La mostra si compone di tre opere esposte nella sede tradizionale di Guido Costa Project, più un lavoro sito nello spazio Ghost, luogo per altro del laboratorio personale dell’artista. Qui è possibile vedere For Paul (2010-11), una scultura in resina e ossidi naturali che rappresenta una piovra gigante. L’opera rappresenta quasi un trait d’union tra i lavori di Senza Luce e quelli della mostra attuale.
Pertanto, le quattro opere che compongono l’esposizione di quest’anno possono essere lette come una serie, o come lo svolgimento di un unico pensiero. È però opportuno ricordare che, come formazione, Diego Scroppo nasce come pittore e approda solo negli ultimi anni alla scultura, dove però pare dare i suoi risultati migliori. Molti ricorderanno il suo cane nero, che fece scalpore a un’edizione di Artissima di qualche anno fa. Rispetto alla precedente produzione, le sculture più recenti sono ancora più sofisticate nello stile: meno fluide e informi, ma più definite e classicheggianti, con forme lisciate, lucide fino a raggiungere un effetto, si direbbe, sinestetico.
Per certi versi la tecnica di Scroppo trova una parentela stilistica in alcune tendenze di scultura molto attuale, come ad esempio il lavoro del giovane artista irlandese Kevin Francis Gray, cui lo accomunano le linee pulitissime, le superfici lisce ottenute ricorrendo a resine, nonché il rimando nei temi a monumenti funebri primonovecenteschi. C’è qualcosa in comune anche nei contenuti, che alludono a un misterioso quid metafisicamente molto profondo, inquietante, ma non facilmente definibile, poiché resta nascosto sotto la forma tradizionale e apparentemente tranquillizzante dell’opera. Tuttavia Scroppo sonda ben più intensamente l’aspetto oscuro dell’opera, nel senso letterale e metaforico del termine. Il suo lavoro, nella sua totalità, non risparmia infatti atmosfere insieme decadenti e sontuosissime, ottenute, come si è detto per mezzo di tecniche precise e un rifinito studio intellettuale.
Ad esempio, nelle sole tre opere in mostra da Guido Costa è possibile contare ben quindici diverse sfumature e textures di nero, tanti quanti i differenti modi delle varie opere di riflettere la luce: ricorrendo a svariati materiali, che vanno dalla plastica alla vernice, dalla gomma al silicone, o alla resina, Scroppo ottiene ogni volta particolari effetti.
Si noti come, descrivendo questi lavori, sia opportuno sottolineare insieme l’aspetto coloristico del nero (di per sé un ossimoro!), quello della luminosità dei lavori e quello della loro consistenza fisica e tattile. Qui molta attenzione è infatti rivolta alla sensazione fisica oltre che visiva, o meglio alla sensazione fisica che si ottiene, in certo senso, già allo sguardo.
L’attenzione al nero come colore/non colore, e quella rivolta alla consistenza tattile e fisica, alla pelle (potremmo dire) delle opere, sono poi rese ancora più potenti, paradossalmente, perché di principio qui appaiono negate. Al visitatore i lavori paiono di fatto quasi intinti nel buio delle sale espositive, appena scandito da poche luci utili appena ad orientarci.
Pare che l’artista avrebbe voluto addirittura fare la mostra interamente al buio, costringendo così la gente a trovare le opere a tentoni e con il solo uso del tatto, quasi a voler trascendere la dimensione visiva e orientativa dello spazio. Per evidenti ragioni tecniche ciò non è stato possibile, ma l’idea è stata mantenuta: in galleria ci sono poche sceltissime luci, a delineare in brevi tratti le masse e i contorni delle sculture.
Il percorso espositivo si inizia con Wreacked ball, piccola scultura che ritrae una creatura primordiale, metà uomo e metà donna, nata dalla commistione di più tratti somatici, tra cui quelli dello stesso artista. Essa è rappresentata seduta su una sfera, la quale riproduce poi al suo interno il negativo preciso della statuetta. Il tutto è illuminato lievemente da una lampada Hanau, originariamente destinata ad uso ospedaliero nelle sezioni di dermatologia.
La seconda opera, Mood, rappresenta una figura femminile armoniosa come una statuetta liberty, che pare danzare sempre intorno a una seconda sfera. La figura è ricoperta di una gomma che tende a decomporsi nel tempo.
Infine nel lavoro Il Vuoto, che dà il titolo alla mostra, alla resina consueta si mescolano plastica e vernici sintetiche, a rendere la superficie e le masse ancora più lucide e volutamente troppo pulite. L’aspetto generale dei lavori fa venire in mente il gusto per lo stile estremo, studiato e calcolato fino a toccare il limite tra bellezza e dannazione, rappresentato in poesia da Gabriele D’Annunzio.
Il rimando dichiarato è però, come si è detto, all’idea del vuoto come coacervo generativo di tutte le cose. Dal punto di vista filosofico teorico, l’estetica del vuoto rimanda almeno a due fonti: da un lato alla topica lacaniana, dall’altro alla meditazione orientale discussa in Italia, tra gli altri, da Giangiorgio Pasqualotto. Ma la visione è qui più estetica e metafisica, piuttosto che panteista. Qui non c’è una ricerca spirituale di pace, piuttosto il suo contrario. E nemmeno l’arte si volge a organizzare il vuoto, come voleva Lacan.
In Scroppo prevale invece l’idea della dissoluzione: una sorta di dannazione data da un piacere tanto effimero, quanto distruttivo. E da cui l’unica via d’uscita, diciamo noi, è la redenzione: una sana conversione dei nostri passi verso una diversa e nuova luce.
(G. D’annunzio, da La Contemplazione della Morte)
Di Maria Cristina Strati
Pubblicato su Juliet, n. 153, giugno-settembre 2011
foto di Maria Bruni, courtesy Guido Costa Project e l'artista
A febbraio si è inaugurata a Torino, presso Guido Costa Projects, la mostra personale di Diego Scroppo.
Il lavoro di Scroppo nasce da una ricerca intensa, incentrata su temi di sapore metafisico. L’artista ricorda nello stile un inquietante poète maudit, ma più perfezionista che bohème: la sua poetica ha infatti a che fare con il buio, l’aspetto tenebroso da cui però si genera un misterioso dinamismo. Ne nasce qualcosa di volutamente algido e perfetto, ben poco spontaneo e intenzionalmente privo di solare vitalità.
Il Vuoto è la seconda mostra personale di Scroppo per la galleria di Guido Costa, dopo Senza Luce del 2007. Allora l’artista indagava, attraverso una serie di sculture, la vita di chimeriche e misteriose creature degli abissi. Come nel caso della mostra attuale, l’esposizione del 2007 presentava pochi, ma studiatissimi lavori. Scroppo è infatti autore dalla produzione ricercatamente centellinata: ogni opera è frutto di un lungo lavoro di elaborazione, soprattutto intellettuale.
Negli ultimi lavori egli approfondisce almeno due tematiche fondamentali già presenti nella prima personale: in primo luogo l’attenzione ad una sorta di fase germinativa dell’essere; in seconda istanza il buio - o appunto l’assenza di luce - in cui tutto insieme finisce e si rigenera.
In questa più matura fase, il discorso sulla germinazione di vite misteriose e antropomorfe si fa più acuto e a tratti macabro, senza ironia. L’assenza di luce si muta invece in un inesplicabile buio parziale, in cui le opere appaiono in un bagliore volutamente fioco, utile appena a identificarne i contorni.
La mostra si compone di tre opere esposte nella sede tradizionale di Guido Costa Project, più un lavoro sito nello spazio Ghost, luogo per altro del laboratorio personale dell’artista. Qui è possibile vedere For Paul (2010-11), una scultura in resina e ossidi naturali che rappresenta una piovra gigante. L’opera rappresenta quasi un trait d’union tra i lavori di Senza Luce e quelli della mostra attuale.
Pertanto, le quattro opere che compongono l’esposizione di quest’anno possono essere lette come una serie, o come lo svolgimento di un unico pensiero. È però opportuno ricordare che, come formazione, Diego Scroppo nasce come pittore e approda solo negli ultimi anni alla scultura, dove però pare dare i suoi risultati migliori. Molti ricorderanno il suo cane nero, che fece scalpore a un’edizione di Artissima di qualche anno fa. Rispetto alla precedente produzione, le sculture più recenti sono ancora più sofisticate nello stile: meno fluide e informi, ma più definite e classicheggianti, con forme lisciate, lucide fino a raggiungere un effetto, si direbbe, sinestetico.
Per certi versi la tecnica di Scroppo trova una parentela stilistica in alcune tendenze di scultura molto attuale, come ad esempio il lavoro del giovane artista irlandese Kevin Francis Gray, cui lo accomunano le linee pulitissime, le superfici lisce ottenute ricorrendo a resine, nonché il rimando nei temi a monumenti funebri primonovecenteschi. C’è qualcosa in comune anche nei contenuti, che alludono a un misterioso quid metafisicamente molto profondo, inquietante, ma non facilmente definibile, poiché resta nascosto sotto la forma tradizionale e apparentemente tranquillizzante dell’opera. Tuttavia Scroppo sonda ben più intensamente l’aspetto oscuro dell’opera, nel senso letterale e metaforico del termine. Il suo lavoro, nella sua totalità, non risparmia infatti atmosfere insieme decadenti e sontuosissime, ottenute, come si è detto per mezzo di tecniche precise e un rifinito studio intellettuale.
Ad esempio, nelle sole tre opere in mostra da Guido Costa è possibile contare ben quindici diverse sfumature e textures di nero, tanti quanti i differenti modi delle varie opere di riflettere la luce: ricorrendo a svariati materiali, che vanno dalla plastica alla vernice, dalla gomma al silicone, o alla resina, Scroppo ottiene ogni volta particolari effetti.
Si noti come, descrivendo questi lavori, sia opportuno sottolineare insieme l’aspetto coloristico del nero (di per sé un ossimoro!), quello della luminosità dei lavori e quello della loro consistenza fisica e tattile. Qui molta attenzione è infatti rivolta alla sensazione fisica oltre che visiva, o meglio alla sensazione fisica che si ottiene, in certo senso, già allo sguardo.
L’attenzione al nero come colore/non colore, e quella rivolta alla consistenza tattile e fisica, alla pelle (potremmo dire) delle opere, sono poi rese ancora più potenti, paradossalmente, perché di principio qui appaiono negate. Al visitatore i lavori paiono di fatto quasi intinti nel buio delle sale espositive, appena scandito da poche luci utili appena ad orientarci.
Pare che l’artista avrebbe voluto addirittura fare la mostra interamente al buio, costringendo così la gente a trovare le opere a tentoni e con il solo uso del tatto, quasi a voler trascendere la dimensione visiva e orientativa dello spazio. Per evidenti ragioni tecniche ciò non è stato possibile, ma l’idea è stata mantenuta: in galleria ci sono poche sceltissime luci, a delineare in brevi tratti le masse e i contorni delle sculture.
Il percorso espositivo si inizia con Wreacked ball, piccola scultura che ritrae una creatura primordiale, metà uomo e metà donna, nata dalla commistione di più tratti somatici, tra cui quelli dello stesso artista. Essa è rappresentata seduta su una sfera, la quale riproduce poi al suo interno il negativo preciso della statuetta. Il tutto è illuminato lievemente da una lampada Hanau, originariamente destinata ad uso ospedaliero nelle sezioni di dermatologia.
La seconda opera, Mood, rappresenta una figura femminile armoniosa come una statuetta liberty, che pare danzare sempre intorno a una seconda sfera. La figura è ricoperta di una gomma che tende a decomporsi nel tempo.
Infine nel lavoro Il Vuoto, che dà il titolo alla mostra, alla resina consueta si mescolano plastica e vernici sintetiche, a rendere la superficie e le masse ancora più lucide e volutamente troppo pulite. L’aspetto generale dei lavori fa venire in mente il gusto per lo stile estremo, studiato e calcolato fino a toccare il limite tra bellezza e dannazione, rappresentato in poesia da Gabriele D’Annunzio.
Il rimando dichiarato è però, come si è detto, all’idea del vuoto come coacervo generativo di tutte le cose. Dal punto di vista filosofico teorico, l’estetica del vuoto rimanda almeno a due fonti: da un lato alla topica lacaniana, dall’altro alla meditazione orientale discussa in Italia, tra gli altri, da Giangiorgio Pasqualotto. Ma la visione è qui più estetica e metafisica, piuttosto che panteista. Qui non c’è una ricerca spirituale di pace, piuttosto il suo contrario. E nemmeno l’arte si volge a organizzare il vuoto, come voleva Lacan.
In Scroppo prevale invece l’idea della dissoluzione: una sorta di dannazione data da un piacere tanto effimero, quanto distruttivo. E da cui l’unica via d’uscita, diciamo noi, è la redenzione: una sana conversione dei nostri passi verso una diversa e nuova luce.