(testo per la mostra inaugurata all'Accademia di Brera l'undici marzo 2011)
1. Quattro giovani autori
In occasione dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia in tutto il Paese sono state presentate numerose iniziative che coinvolgono la giovane produzione artistica contemporanea. Il concorso d’idee “Promenade dell’Arte e della Cultura Industriale - Torino 2011” si è situato in questo contesto. È stato chiesto a giovani artisti e scultori di pensare e studiare alcune proposte per rivalutare la zona Parco Spina 4 - o dei cosiddetti Docksdora - di Torino, prima Capitale d’Italia e prima sede del Parlamento italiano. Il concorso ha ricevuto partecipazioni e adesioni dalle Accademie di tutta Italia.
I progetti esposti in questa mostra sono il risultato del lavoro di giovani scultori che hanno partecipato al concorso torinese, tutti allievi o ex allievi dell’Accademia di Brera, in particolare della Cattedra di Plastica Ornamentale affidata al prof. Guido Lodigiani. I nomi degli artisti sono sono: Alberto Gianfreda, Elisa Laloggia, Barbara Mignone e Daniele Salvalai.
Si tratta di quattro giovani scultori promettenti, alcuni di loro già attivi dal punto di vista della carriera espositiva. Filo conduttore dei loro lavori e delle proposte qui presentate – che pure possono apparire assai diverse tra loro per impostazione di ricerca, talora anche in maniera decisiva - è la particolare attenzione dedicata al rapporto tra scultura, spazio, paesaggio e architettura. Questa impostazione di ricerca risulta di particolare interesse in relazione alle caratteristiche proprie della zona di Torino dei Docksdora: una zona periferica, densa di storia antica e recente, dove riecheggiano le memorie di un passato antico, insieme alle più recenti interpretazioni architettoniche dello spazio (fino a qualche anno fa sede di alcuni locali centro della vita notturna cittadina). I quattro autori hanno cercato di interpretare lo spirito del luogo, proponendo progetti intensi e degni di considerazione.
Alberto Gianfreda presenta un progetto dal titolo Risorgimento, che comprende una scultura di grandi dimensioni e un muro perimetrale atto a circoscrivere i confini della Piazza della Socialità. Il progetto riprende volutamente, riattualizzandole in chiave contemporanea, le linee sinuose, gli stilemi e i motivi decorativi e architettonici di Palazzo Carignano – palazzo torinese sede del primo Parlamento italiano e dell’attuale Museo del Risorgimento. Nel lavoro di Gianfreda storia e spazio sociale dunque si intrecciano, dando vita a una realtà armonica e proporzionata non solo nelle forme, ma anche dal punto di vista concettuale.
Barbara Mignone propone invece il progetto Planilunio. Si tratta di una scultura luminosa realizzata in fibre ottiche. La ricerca qui è volta ad esaltare la dimensione percettiva dello spazio e dell’opera, esaltando l’accordo quasi euritmico del lavoro dello scultore con il contesto naturale. Perciò la scultura comprende alcune elioturbine, da cui l’idea della scultura che genera energia, movimento, delineando quasi da se stessa il proprio luogo.
Al contrario il progetto Mura di recinzione presentato da Elisa Laloggia riflette sui limiti e i confini dello spazio e del luogo. Qui un muro di grandi dimensioni delimita lo spazio, segna il confine del luogo e insieme il punto in cui esso si può aprire per accogliere le persone al suo interno. Lungo tutto il perimetro, le pareti del muro sono scolpite con volti di enormi dimensioni, in vetroresina, che paiono rivolgersi al passante, interpellarlo, coinvolgerlo. Il muro dunque separa e unisce, divide e nello stesso tempo crea rapporto, delimitando uno spazio e delineandone i contorni.
Daniele Salvalai presenta invece un progetto, da realizzarsi interamente in legno, dal titolo Struttura. Si tratta di una scultura di grandi dimensioni, in cui ritorna come un leitmotiv l’unità modulare della stella a otto punte, ispirata anche questa volta agli stilemi delle decorazioni del Palazzo Carignano. Anche qui il gioco tra lo spazio architettonico e scultoreo si gioca dunque sul duplice rapporto con la dimensione storica e sociale, come a generare una tensione armonica tra vita presente, abitabilità e aspetti storico artistici.
2. L’abitare poetico e la megalopoli contemporanea
Nel contesto teorico che si incentra sul rapporto tra arte scultorea, paesaggio, architettura e spazio diviene interessante un paragone e un confronto tra i progetti proposti e il pensiero del filosofo Martin Heidegger sull’abitare poetico, che potrà fornire un punto di riferimento importante per approfondire la ricerca qui in questione dal punto di vista filosofico.
Heidegger affronta e tematizza direttamente la questione dell’abitare poetico in due saggi, entrambi del 1951: Costruire Abitare Pensare e “Poeticamente abita l’uomo…”[1]. Non ci è possibile approfondire qui nei dettagli la complessa teoria heideggeriana: ci basti dunque tenere presente come, in questi saggi, il filosofo avvicini il significato dell’abitare al senso stesso dell’essere. L’essere stesso va qui però inteso nel senso heideggeriano del custodire, dell’aver cura. L’abitare è allora un “soggiornare presso le cose” che preserva l’essenza profonda dell’essere: insieme celandola e rivelandola, quasi misticamente, attraverso l’opera umana e artistica che “genera luoghi”. Ecco allora che l’abitare dell’uomo si connota come abitare poetico. Heidegger trae il termine da una poesia di Hoelderlin per intendere il senso profondo dell’essere nella nostra epoca. In altre parole, potremmo dire che l’abitare non può, secondo Heidegger, essere semplicemente identificato con lo “stare” in un posto, viverci ciecamente, consumando semplicemente ciò che ci viene imposto dalla pubblicità e dai media. Abitare non è solo avere il proprio alloggio in una città senza mai guardarla a fondo, senza comprendere nulla della sua anima e delle persone con cui condividiamo il nostro spazio. Il nostro abitare moderno è “reso instabile dalla ricerca del vantaggio e del successo, succube dell’industria del tempo libero e del divertimento”[2]: ecco perché in questo contesto diviene decisivo il collegamento tra abitare e poesia. L’abitare si fa poetico dove l’essere umano torna capace di porsi in ascolto del linguaggio e del luogo che esso genera. L’ascolto che Heidegger propone è così profondo da assumere una connotazione quasi mistica. Abitare poeticamente diviene allora misurarsi con una dimensione radicalmente altra. Potremmo forse dire, addirittura, che abitare poeticamente significa allora anche sapersi porre in ascolto di quel Deus Absconditus che si manifesta nella forma misteriosa del silenzio[3]. In questo senso si può dunque affermare che quando un artista riesce a interpretare il genius loci di uno spazio e di un contesto abitativo compie un atto profondamente poetico.
Alla luce di queste intense considerazioni il contesto della città e del paesaggio diviene allora profondamente significativo[4]. La città in cui oggi viviamo non è assimilabile infatti al concetto di polis greca fondata sul pensiero di una comunità cui ci lega un’appartenenza profonda (la polis si fondava sull’etnos, etnia). Neppure, seppure sarebbe forse più desiderabile, le nostre megalopoli somigliano alla civitas romana, dove cittadini erano coloro che si riconoscevano nella stessa legge, al di là di ogni distinzione di razza o credo. La nostra città oggi si configura come una realtà in costante mutamento, spesso e volentieri anche in contraddizione con se stessa. Oltre la megalopoli, senza confini e senza luoghi, la città oggi interpreta lo smarrimento esistenziale dell’uomo contemporaneo e si identifica con un mero territorio, costantemente soggetto a modifiche, ampliamenti, distorsioni. Anche l’inarrestabile sviluppo delle tecnologie, seppure del tutto vantaggioso nella maggior parte dei casi e utile talora persino alla difesa dei diritti fondamentali (si pensi ai casi recenti nel vicino Medio Oriente) accentua il senso di solitudine; proprio mentre amplia a dismisura e a livello esponenziale la nostra percezione del territorio che possiamo abitare, percorrere, e credere di vivere.
Quali allora i riferimenti? Quale proposta avanzare in un tale contesto, per fare nostro di nuovo un abitare che sia poetico, senza fantasticare una riduttiva (e forse nemmeno desiderabile) regressione a un mondo ormai passato, lontano dallo sviluppo qualche volta disumanizzante delle tecnologie?
Secondo Massimo Cacciari[5] in questo contesto così confuso e pure denso di stimoli, la salvezza proviene proprio dalla dimensione corporea. Il nostro corpo, da cui non possiamo trascendere, costituisce un limite, disegna uno spazio e quindi un luogo. La città odierna così come il mondo della comunicazione tende oggi teoricamente quasi a voler cancellare il corpo - e con esso i luoghi dove “abitiamo”, con tutta la loro pregnanza. Così, svuotata di senso e di umanità, la città contemporanea rischia di trasformarsi semplicemente un insieme di servizi da usare, consumare e sfruttare, stando vicini talora ad altre persone, ma senza mai realmente e umanamente interagire con esse. Tale situazione pare così quasi imporci un pensiero e una situazione in cui il corpo, con la propria caducità, sostanza e delicatezza, dev’essere cancellato. Quasi l’uomo contemporaneo si fosse trasformato in una sorta di entità non reale, eternamente giovane: la cui personalità si confonde con un profilo su un social network e il cui volto non è a “immagine e somiglianza” di null’altro che dell’ultimo trend ispirato dalle mode globalizzate. Ma l’abitare di Heidegger è tuttavia ancora possibile.
Seguendo la lettura che qui abbiamo tentato di proporre, potremmo infatti giungere ad affermare che l’arte, e in particolar modo la scultura, può fornirci una chiave di lettura importante e poeticamente profonda della nostra epoca.
Ponendosi come lavoro e manufatto concreto, difficile da trasportare e fisicamente fruibile, essa si definisce infatti come corpo. Il corpo definisce attorno a sé un luogo abitabile: non auratico o irraggiungibile, ma qualcosa che si fa contesto reale, vivibile, un luogo di possibile incontro con l’altro da noi. Attraverso l’arte diviene allora potenzialmente possibile reintegrare nel contesto cittadino luoghi di aggregazione sociale concreta.
Da questo punto di vista l’interazione tra arte, vita sociale e cittadina, spazio e scultura diviene infatti allora decisiva. All’arte riconosciamo il compito difficile ma importantissimo di recuperare il senso del luogo nella sua accezione ontologica ed esistenziale. L’arte della scultura, in particolare, ambirà allora a restituirci un luogo abitabile proprio nel contesto della città contemporanea, donandoci l’occasione di ripensare il nostro essere nel mondo in una luce assai più profonda. La contraddizione rappresentata dalla città contemporanea diviene così superabile in una diversa dimensione, che non ritorna semplicemente al passato, ma ci permette di pensare la vita comunitaria nei termini della concinnitas[6]. Il termine in latino significa “cantare insieme”: perché la contraddizione presente stimola l’ambizione poetica di diventare con gli altri comunità e armonica assonanza di voci. Così la città torna ancora a farsi luogo abitabile, nel senso profondo del termine: essa non è semplicemente un luogo dove usufruire di servizi, contatti o altro. In essa, così come nel paesaggio, nelle architetture e nelle sculture che la compongono, si gioca invece il senso della storia, della condivisione sociale o meglio ancora comunitaria.
Maria Cristina Strati
[1] In Martin Heidegger, Saggi e discorsi, trad. it. ed. Mursia, Milano 2007
[2] Op. cit. p. 125
[3] Tale interpretazione andrebbe ulteriormente approfondita alla luce della teologia dialettica di Karl Barth.
[4] Per quanto segue cfr. Massimo Cacciari, La città, ed. Pazzini, Villa Verrucchio (RN) 2009
[5] Op. cit.
[6] Cfr. M. Cacciari, op. cit.