Isola e Norzi. L’arte, ventimila leghe sotto i mari

Il lavoro di Isola e Norzi si muove con agilità tra architettura, scultura e installazione, coniugando la solidità concettuale ad una profonda intensità poetica. La loro ricerca ha a che fare con la dimensione spaziale, se non addirittura museologica dei progetti. Il tentativo è quello di indagare lo spazio al di là dei confini canonici della scultura o dell’installazione, per giungere ad una sorta di smaterializzazione della scultura e ad un suo conseguente innalzamento poetico, se non persino spirituale.

Il progetto A Ballad of the Flooded Museum, in mostra la scorsa estate presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, prende spunto dal titolo di un fumetto di Corto Maltese ed è ispirato dagli studi di J. Cousteau sulla vita sottomarina. Il famoso oceanografo francese, com’è noto, era affascinato dalla possibilità di portare la vita umana sott’acqua e negli anni sessanta realizzò, in Sudan, un prototipo di insediamento abitativo sotto il mare.

Riprendendo gli studi di Cousteau, il progetto di Isola e Norzi indaga i concetti di abisso e di profondità e si compone di fotografie, disegni, video, installazioni e sculture, più un’ampia raccolta di materiale storico.

In ogni lavoro predomina il rapporto con il contesto, in un gioco dialettico tra spazio espositivo, spazio rappresentato e spazio dell’opera, non dimenticando il rapporto con il fruitore. Frequentemente anche il disegno assume una dimensione scultorea e installativa: come accade per i “quadri” formati dalle alghe che sedimentano sul vetro dell’acquario in Grande Vetro, o per quelli nati dalle gocce che cadono sulla spugna compressa in Relics. Inoltre in quasi tutti i lavori - come Bated Breath o {acqua salata[acqua dolce(acqua distillata)acqua dolce]acqua salata} - gli elementi naturali divengono veri e propri strumenti di lavoro, alla ricerca di una sorta di magica euritmia tra mondo dell’uomo e natura.

L’abisso delle profondità marine diviene così per Isola e Norzi soprattutto uno spazio mentale, che nasconde e rivela insieme. È luogo di ossimori poetici e anche tragici, sempre tra loro in tensione: come vita e morte, pace e passione, arte e gioco.

Nasce così uno spazio flessibile e magico, dove suoni si modificano e si ampliano sullo sfondo di un silenzio solo apparente, in realtà brulicante di vita. L’acqua diviene il luogo di un possibile abitare poetico di heideggeriana memoria, e il sogno di Cousteau torna alla vita.

Oggi la ricerca che ha animato A ballad of the flooded museum, è illustrata nei dettagli in un libro dal titolo Liquid door.

La porta liquida per Cousteau costituiva il frame, la soglia di accesso e insieme di separazione tra i due mondi, terreno e subacqueo. Nei lavori di Isola e Norzi l’opera d’arte diviene simbolo di questa stessa soglia: essa è luogo di passaggio verso mondo altro, dove le ordinarie abitudini percettive sono messe alla prova, portate al loro estremo limite e infine dissolte concettualmente e poeticamente nel lirico gioco dell’arte.


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Maria Cristina Strati: Come è nato questo progetto? In che modo vi siete avvicinati all’idea della vita negli abissi sottomarini?

Matteo Norzi: Il progetto è nato da una serie di coincidenze in un arco temporale di molti anni. È stato un percorso di ritrovamento prima ancora che di ricerca. Poco più che diciottenni abbiamo intrapreso il primo nostro viaggio in Africa Orientale e, tra le tante altre avventure, abbiamo avuto la fortuna di immergerci nei fondali dove si trovano i ruderi, trasfigurati da 45 anni di corallo, di Starfish House (primo esempio di architettura sottomarina). Poi abbiamo letto i diari di Cousteau. E infine, un giorno a New York, invece di andare per gallerie a Chelsea siamo andati a visitare l'Acquario a Coney Island, ed è nata l'idea del Flooded Museum.

MCS: In passato il vostro lavoro era incentrato su una nozione più tradizionale di scultura. Poi è emersa un’anima più concettuale (forse legata all’arte povera?) e ora siete approdati ad un progetto molto articolato, tanto dal punto di vista del contenuto che del risultato estetico. Come è avvenuto il passaggio a questa nuova ricerca?

MN: Abbiamo cominciato a lavorare in uno studio nei boschi della campagna piemontese. La passione per gli alberi ci ha portato ai lavori in legno, e il riferimento a certa arte povera in questo senso è inevitabile. Presto però ci siamo resi conto delle criticità della scultura come linguaggio e abbiamo iniziato una ricerca sulla smaterializzazione dell'opera verso la massima contestualizzazione nello spazio, calpestando i limiti della definizione di scultura. Così sono nati i lavori di polvere della serie Finisterrae. In seguito siamo arrivati a teorizzare il lavoro come dispositivo, capace di riplasmarsi all'infinito e poter essere considerato site-specific ovunque sia installato. Ovviamente si tratta di argomentazioni speculative, tanto che il soggetto del discorso sembra sempre più una provocazione museologica. L'ambizione è dare un piccolo contributo per riscrivere le regole dell'esporre, le definizioni di apparato e di museo. Il progetto Liquid Door è anche un pretesto per dire che cosa succede all'arte quando viene trasposta dal solito white-box in uno spazio idealizzato come la vasca di un acquario. In galleria si deposita la polvere, sott'acqua si sedimentano le alghe.

MCS: Nei vostri lavori sono sempre presenti due costanti: il riferimento allo spazio e all’architettura e il lavoro sul suono. C’è un’interazione tra di essi?

Hilario Isola: Sicuramente sono prima di tutto due “elementi” in cui siamo per forza costantemente immersi. È impossibile sottrarsene come individui prima che come artisti. Siamo sempre parte di un paesaggio architettonico, naturalistico, sonoro. Quando entriamo in nuovi spazi in cui operare cerchiamo di capire i limiti dove lo sguardo umano si sposta ancor prima di muoversi. C’è infatti una zona limbo, uno schermo magari invisibile che il nostro sguardo attraversa e dove la finzione del nostro costruire il paesaggio viene ad avvicinarsi alla la nostra reale percezione e, spesso, paura di viverlo veramente. Il suono è in questo senso ancora più disorientante e spietato. Nell’opera Canale Audio, realizzata con Enrico Ascoli, ad esempio abbiamo portato in galleria il paesaggio sonoro subacqueo dei canali di Venezia. Qui si ribaltava la percezione di ciò che stava avvenendo fuori dall’acqua, distorcendo in maniera caricaturale le attività cittadine. É l'altra faccia di Venezia.

MCS: In Italia il lavoro è stato presentato alla Fondazione Bevilacqua La Masa, a Venezia. L’anima di una città così particolare sembra aver a che fare qualcosa con il vostro progetto, incentrato sull’acqua, sul mare e sulla sua vita.

HI: Per il nostro lavoro sui processi inconsci di antropizzazione e di autorappresentazione dell’uomo nei vari habitat e nelle zone limbo tra il selvatico e l’ addomesticato, Venezia era semplicemente perfetta! Qui il mondo subacqueo porta nella vita cittadina la sua vita naturale, che cambia corso in base a quella dell’uomo. Abbiamo identificato nel suono una chiave per definire questo contatto e nella superficie dell’acqua il limite ultimo di queste due dimensioni. Ci si è aperto un paesaggio sonoro intensissimo e stratificato, una sorta di Venezia capovolta.


Maria Cristina Strati


Articolo e intervista pubblicati su Espoarte, n.69, febbraio-marzo 2011

Le immagini sono courtesy Isola e Norzi