Invito a cena con l’artista. Al Gatto Nero con Douglas Gordon e Jonathan Monk


Forse si potrebbe scrivere una storia dell’arte degli ultimi decenni attraverso le scritte al neon: dalle memorie concettuali dense di significato filosofico alle altezzose citazioni libresche, fino a trovate più recenti e non sempre brillanti, che inconsapevolmente ricordano comuni insegne di negozi, bar e ristoranti, è facile oggi osservare una moltitudine di scritte luminose e colorate invadere gli stand delle fiere e le sale delle gallerie. Ma, oltre le generiche considerazioni sull’uso e l’abuso del neon in arte, c’è sempre qualche nuova idea capace di catturare l’interesse. È questo il caso della personale di Douglas Gordon e Jonathan Monk in corso fino a febbraio da Sonia Rosso, a Torino.

Nel loro lavoro i due artisti inglesi mescolano diversi linguaggi artistici: installazione, video, testi e appunto il neon. Il progetto realizzato per Sonia Rosso è infatti composto quasi interamente da scritte luminose. E qui proprio di bar e ristorante si tratta: per il progetto la galleria di Sonia Rosso si è infatti virtualmente trasformata nella controfigura di un noto ristorante cittadino, Al Gatto nero.

Come già era avvenuto a Napoli con Friends Electric Bar e Leon d’Oro - rispettivamente la performance e la mostra realizzate da Gordon e Monk presso la Morra Greco Foundation nel 2009 - sotto le mani dei due artisti britannici le sale espositive si mutano in un giocoso spazio conviviale: quasi si volesse avvicinare, in maniera ironica e dissacrante, l’arte contemporanea alla ristorazione. Nelle intenzioni degli artisti questa irriverente operazione intende infatti valutare gli aspetti dell’arte contemporanea legati alla socialità e all’ospitalità.

L’operazione si svolge nel modo seguente: la mostra si compone di parole che indicano le portate di una cena completa, dal primo all’ammazzacaffè. Il menù compare alle pareti della galleria in forma di scritte luminose di diversi colori. Le luci si accendono a intermittenza, a seconda della portata, restando accese a turno, per il tempo della consumazione di ogni portata.

Del cibo vero e proprio ovviamente non c’è traccia, così come non c’è traccia della compagnia che compone l’ideale tavolata. Tranne che durante vernissage, quando gli stessi artisti si sono improvvisati baristi, consegnando al pubblico simpatici aperitivi da consumare allegramente sulle note della musica di Gary Numan, dell’evento conviviale non resta che il concetto e la memoria. Della festosa inaugurazione rimangono solo i vuoti delle bottiglie di birra, raccolti in una cassa e trasformati in installazione.

Per Gordon e Monk la rappresentazione di una cena in cui il cibo è solo formalmente presente, ha il significato di indicare la centralità dell’aspetto conviviale. Tuttavia noi conosciamo solo la durata delle consumazioni: ci è noto solo il tempo che intercorre tra una portata e l’altra. Colui che visita la mostra può ad esempio capitare in un momento in cui solo una o due luci sono accese, non di più. Vedere la mostra interamente richiederebbe infatti un tempo pari ad alcune ore, appunto quelle utili a svolgere la reale consumazione di una cena tra amici, con tanto di tempo calcolato per le chiacchiere e l’intrattenimento.

La mostra infatti è concepita, non senza ironia, come una costante performance che avviene anche e soprattutto in assenza degli artisti. I visitatori sono così invitati a una cena, che però non ha luogo se non attraverso le parole che indicano le portate.

All’inaugurazione la performance si configura di fatto come un evento sociale: ma nei giorni successivi, in assenza degli artisti, chi visita la mostra ha la sensazione di spiare una cena, piuttosto che parteciparvi. Siamo informati di ciò che potrebbe accadere in uno spazio tempo altro, lontano da noi. In questo altrove non meglio identificato, che insieme è e non è la galleria, ha luogo (o meglio si svolge, perché di fatto l’evento avviene più secondo il tempo che secondo il luogo) una cena continua, che prosegue per tutta la durata della mostra. A tale cena noi non prendiamo parte: possiamo però seguirla da lontano, scandendone il tempo secondo i timer che regolano le insegne luminose, in una sorta di voyeurismo che ricorda le dinamiche di noti social network.

Il fatto di stare a guardare il vissuto di un altro in tempo “reale”, ma senza condividerlo nella realtà effettiva, ci fa sentire partecipi di qualcosa a cui però non facciamo che assistere, per di più in maniera virtuale e distante, in una dimensione privata di consistenza corporea e sensuale. Ben presto così ci accorgiamo di sapere ben poco di questa cena: conosciamo il menù, ma possiamo solo immaginare gusti, discorsi, sguardi e dinamiche relazionali. I partecipanti al convivio potrebbero consumare la loro cena seduti sulle ceramiche di Buuel de Il fantasma della libertà, o stare ghermendo il cibo a piene mani come Totò e Eduardo in Miseria e Nobiltà. Dei commensali non sappiamo nulla. Attraverso le scritte luminose e le parole evocative, alla nostra fantasia è consegnato solo l’evento nel suo aspetto “auratico”, parafrasando Benjamin, valido più per ciò che di esso si pensa e si immagina che per la sua reale consistenza.

Maria Cristina Strati

Al gatto nero, Douglas Gordon & Jonathan Monk, Torino, Galleria Sonia Rosso, dal 6 novembre 2010 al 26 febbraio 2011

Articolo pubblicato su Juliet, n. 151, febbraio - marzo 2011

Per le immagini: courtesy Galleria Sonia Rosso, Torino