Mute di Duncan Jones (Spoiler alert!)

la locandina del film - immagine scaricata dal web



Normalmente non amo i film con ampie scene di violenza, ma nel caso di Mute di Duncan Jones faccio un'eccezione. Ho visto il film e mi ha coinvolta al punto di aver voglia di scriverne.
Ho anche letto le recensioni, e ho visto che non sono propro incoraggianti, anzi ci vanno giù abbastanza pesante. Ma la mia sensazione positiva rimane. 
Anzi, forse di più. Soprattutto, mi chiedo se il film non  vada visto in modo diverso da come siamo abituati a fare con i vari sci-fi fruibili sulla grande distribuzione. Mi spiego meglio.

Il film s'intitola Mute, cioé muto, senza voce. Fin da questo dato, si comprende l'intenzione di muoversi su due piani. C'è il piano della vicenza narrata, il plot superficiale. E poi c'è un altro piano, diverso, metaforico, che parla con i simboli.

La domanda è la seguente: in una società iper-dominata dalla comunicazione e dalle immagini, che ne è di chi non può o non sa parlare? Che ne è di chi non ha voce?

A non parlare mai, fino a una delle scene conclusive del film sono due personaggi, e non solo uno, come a prima vista sembrerebbe. Il primo personaggio muto è il protagonista Leo (Alexander Skarsgård), il secondo la bambina, figlia della fidanzata di Leo. Fidanzata (Seyneb Saleh) che improvvisamente scompare e che lui vuole rintracciare a tutti i costi, sfidando la violenza e gli incubi di un mondo perverso e senza scrupoli, in un'atmosfera che è stata giustamente definita a metà strada tra la Berlino degli anni settanta e la Los Angeles futuribile e distopica di Blade Runner.

Leggo nelle varie critiche che con Blade Runner I e II, il film di Jones è spesso confrontato. Credo, però, che fermarsi al paragone con Blade Runner per questo film sarebbe ingiusto e penalizzante. Così come lo penalizza cercare di leggerlo secondo i canoni dei tipici film di hollywoodiani dai grandi budget.

Questa è una mia convizione molto personale. Sono convinta che oggi, a furia di regolette, ricerche di mercato, trend e know-how pronti all'uso vari, il linguaggio del cinema, così come quello della letteratura, sia in serio pericolo. 
Il pericolo consiste nel fatto che diventa molto difficile esprimere qualcosa di veramente personale, se siamo per forza costretti dentro delle regole definite dall'esterno, da canoni rigidi e inaggirabili come le tendenze del mercato o l'efficacia di certe tecniche narrative e altri, diciamo così, dispositivi concettuali. 

Certo, bisogna ammettere che purtroppo è vero: i film costruiti secondo quelle regole, spesso funzionano. Però non restano.
Il pubblico meno smaliziato - quindi la stragrande maggioranza del pubblico - cade di fatto nella rete (ehi qui c'è un doppio senso) e risponde quasi meccanicamente agli stimoli che gli sono proposti, comportandosi in maniera prevedibile. 
Tuttavia, è anche vero che non sappiamo come si comporterebbe quello stesso pubblico, se gli fosse consentito di accedere a prodotti differenti, creati in modo più spontaneo, seguendo un'autentica ricerca artistica e autorale.

In sostanza, io credo che Duncan Jones cerchi di fare qualcosa di diverso dalla stragrande maggioranza dei registi suoi coetanei, e credo anche che ci riesca. Credo che il suo obiettivo sia dire la propria a modo suo, prendendosi tutti i rischi di chi cerca una propria voce fuori dal coro.

Netflix, in questo senso, è una lodevole possibilità e un'ottima occasione. Funziona un po' come le case editrici indipendenti. Rinunciando a presentazioni, file ai botteghini e altre vie tradizionali, permette di arrivare a molte più persone, di fatto. Certo lo fa in un modo diverso, nuovo. Ma soprattutto permette a prodotti fuori dal coro di essere realizzati, di esistere e di poter essere visti.

Certo Mute va guardato in modo diverso dai filmoni tipici del genere sci-fi. Non aspettiamoci un avvincente thrillerone di fantascienza con tutti i crismi e i carismi, da guardare senza pensieri, sgranocchiando pop corn. Io credo che Mute vada orgogliosamente letto come un film autorale. Credo vada gustato nell'insieme delle immagini, con la loro capacità evocativa, nei rimandi, nei dettagli. Nei simboli. Nell'intrigue, come diceva Ricoeur, più che nella trama.
Perché il modo in cui il film vuole parlare non è esplicito. E questo è dichiarato, fin dal titolo. 

Leo infatti è muto, ed è muto in una società che comunica tutto, troppo, anche quando non deve o quando non ha nulla da dire. Difatti, anche quando il chirurgo (Justin Theroux) gli ridona la voce, operandolo, Leo non riesce a dire nulla. Nonostante si sforzi, e anche in circostanze drammatiche, le parole non escono dalla sua bocca. Forse perché le parole che ne sarebbero uscite non sarebbero state vere, essenziali, o forse perché non c'era davvero qualcosa da dire? C'è da crederlo.

Ma come va a finire, quindi, per quelli che sono senza voce?

Beh, alla fine Leo e la bambina parlano. Parlano tra loro. Poche parole, ma comunicano. Poi, nell'ultimissima scena li vediamo disegnare, a uno stesso tavolo. Non più muti, ormai, ma, questo sì, silenziosi.
Allora, in aperto contrasto con le immagini crude di cui il resto del film è costellato, l'atmosfera si rarefà. Il buio, prima squarciato solo dalle dure luci al neon si apre un poco. A poco a poco, ritorniamo a vedere la luce naturale e serena del giorno, in un crescendo poetico e persino dolce.

Crescendo che prosegue fino all'inizio dei titoli di coda, quando scopriamo che l'opera è dedicata al padre di Duncan (se non sapete chi sia, lasciate immediatamente questo blog!), e alla bambinaia (non alla madre) che lo ha cresciuto. 

Guardatelo.